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realtà non costituiscano un antidoto al mobbing, ma contribuiscano invece ad
aggravarlo, rendendolo, per così dire, endemico e istituzionalizzato per l'azienda; e
lo dimostrerò ribaltando la consueta ipotesi secondo cui il mobbing rappresenta un
ostacolo alla produttività aziendale, e sostenendo che invece esso, in una società
globalizzata basata sulla "fine del lavoro" e sulla logica del just in time, rappresenta
una straordinaria fonte di profitto.
In questa cornice il mobbing, che per ora mi limiterò a definire come l'incertezza
psicologica che altri provocano in una persona, in un contesto lavorativo, per motivi
indipendenti dalla sua individualità, si inserisce perfettamente nel quadro
dell'incertezza generalizzata, individuale, sentimentale, sociale, ambientale,
economica e lavorativa, la Società dell'Incertezza descritta da Z. Bauman.
Lavorare fa male, in molti casi è vero. Lo testimonia con un paradosso l'iscrizione
"il lavoro nobilita l'uomo" all'ingresso dei campi di sterminio. Ma il lavoro può anche
essere gratificante, remunerativo e appassionante. La frase "il lavoro fa male" è un
luogo comune, ma che affonda le radici della sua parte di verità agli albori della
società moderna, che rende marxisticamente l'individuo un alienato rispetto al
prodotto del suo lavoro e della sua vita, uno Charlot di "Tempi Moderni", o una
Silvana Mangano di "Riso Amaro".
E', quindi, col taylorismo che avviene una frattura destinata a non sanarsi mai, la
frattura fra la vita e il lavoro, dove vivere per lavorare e lavorare per vivere tendono
a coincidere e non rappresentano più l'aspirazione di ogni individuo, ma, nella
maggior parte dei casi, un doloroso distacco dalla realtà.
In questo senso, se il mobbing si può considerare una forma estrema di distacco
dalla realtà, legata alla distorsione eteroindotta dell'autopercezione dell'individuo in
senso negativo, le sue radici si possono rintracciare (restando nell'ambito della
modernità) in questa frattura "primordiale" della parcellizzazione del lavoro che
trova la sua espressione agli albori della rivoluzione industriale, nella
meccanizzazione e nel lavoro a cottimo, e che oggi conosce una rinascita rivisitata
con il lavoro interinale, i mac jobs, il contratto a progetto, il lavoro a chiamata, la
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parcellizzazione anche fisica del lavoro nei call center, i licenziamenti forzati dovuti
alla nuova apertura di fabbriche veterotayloriste nei cosiddetti "paesi in via di
sviluppo", fino ad arrivare alla drammatica frequenza delle morti sul lavoro. Il
mobbing, quindi, è vecchio come il lavoro, con esso nasce e in esso si sviluppa; è
importante comprendere questo concetto per afferrare il significato del suo
progressivo diffondersi a macchia d'olio, tanto che, secondo gli studi dell'Unione
Europea, addirittura il 10% della popolazione europea nel 2003 era mobbizzata (e
questa percentuale è in costante aumento, e probabilmente molto sottostimata, a
causa della grande presenza di lavoro sommerso). La proporzione dei lavoratori
precari è ancora più alta, almeno in Italia. La mia tesi tratta del mobbing nell'era del
precariato. Quale connessione quindi fra mobbing e precarietà del lavoro?
Ciò di cui mi auspico di convincere il lettore con la presente tesi è che entrambi
questi fenomeni, cause e sintomi del disagio lavorativo, sono concatenati perché
possono essere fatti risalire a un minimo comune denominatore: il profitto a breve
termine.
Percorso di lavoro
Data l’assoluta novità dell’argomento, che presenta aree in gran parte ancora
inesplorate dagli studiosi, il mio lavoro è cominciato soprattutto con la ricerca di
qualsiasi materiale che potesse fornirmi un appoggio per corroborare la mia
rischiosa ipotesi iniziale. Lo spunto per questo studio è partito dal volumetto “Stop
Mobbing” di Antonio Casilli, capitatomi in mano per caso. In questo saggio si
propone una visione nuova del concetto di mobbing, e si fa riferimento agli studi
dei sociologi australiani Mc Carthy, Wilkie, Sheehan et al. e all’approccio
interpretativo della “violenza organizzativa” di Mc Carthy. L’assoluta originalità del
taglio dato dall’autore al tema, e il suo essere in totale controtendenza rispetto
all’abituale sguardo degli studiosi sul mobbing, hanno catturato la mia attenzione: il
sospetto era che la “violenza organizzativa” incapsulata nella visione “globalizzata”
della new economy (Mc Carthy, 1996) potesse condurre al mobbing anche, e di
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più, in una situazione di precarietà del lavoro. Infatti, mi ha sempre colpito la
contraddittorietà delle moderne filosofie manageriali che, se da un lato cercano
sempre più di proporre la visione di un mercato del lavoro “attento” alla
valorizzazione delle “Risorse Umane”, dall’altro contemporaneamente premono per
la sua deregolamentazione, così da arrivare a togliere dignità alla persona,
precipitandola in un abisso di precarietà, ricattabilità, povertà e incertezza.
Questa contraddizione si è trasformata per me in un rebus da risolvere per capire
in che modo le due cose, l’idilliaca “attenzione alla risorsa umana” e la crescente
violenza applicata tramite i contratti, potessero rientrare in un quadro sociologico
coerente.
Incoraggianti conferme alle mie ipotesi sono arrivate da tre fonti diverse:
a) Le statistiche. Tutti gli studi eseguiti su grandi campioni in Italia e in
Europa dal 2000 in poi dimostrano che il mobbing, lungi dal diminuire come
si poteva supporre che sarebbe successo con l’avvento della flessibilità nel
lavoro, è aumentato. Di più, i lavoratori precari sono più a rischio degli altri.
Gli studi commissionati dall’Unione Europea alla Fondazione Dublino hanno
confermato il mio sospetto, individuando una specifica relazione tra
mobbing e precariato.
b) La psicologia. In quest’ambito mi sono risultati, in particolare, utili: i) gli
studi dello psichiatra Wilkie sulla relazione fra stress e produttività ii) la
teoria dell’Analisi Transazionale sulle carezze, ovvero gli stimoli che
possono essere utilizzati per produrre l’effetto voluto su un individuo.
Quest’ultimo punto si collega direttamente al punto successivo:
c) Le agenzie di HRM. La scoperta, tramite motori di ricerca sul web,
dell’esistenza di un enorme numero di corsi di Human Resources
Management che applicano strategie psicologiche varie alla selezione e
gestione del personale. Mi sono imbattuta anche in presentazioni di corsi
dove alle tecniche psicologiche si abbinano anche teorie più sospette,
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legate al mondo della new age. Queste ultime scoperte mi hanno spinto ad
approfondire ancora di più la ricerca su questo tipo di agenzie, scoprendo
anche l’esistenza di studi che dimostrano che in alcune di esse un ruolo di
primo piano è giocato dalle sette parareligiose. All’argomento del
collegamento fra sette parareligiose e corsi di HRM, che esula dalla stretta
trattazione delle relazioni fra mobbing e precariato, ho dedicato un breve
approfondimento alla fine del terzo capitolo.
La cornice teorica in cui la mia analisi s’inserisce si può far risalire principalmente
al marxismo, ovvero a una visione macrosociale e critica, che presta, sì, grande
attenzione all’effetto psicologico delle pratiche mobbizzanti, ma solo per
dimostrarne la redditività in ambito economico. Preferisco quindi, ad un punto di
vista “vittimistico”, verso il quale molti studi sul mobbing attualmente si orientano,
un punto di vista più generale, che miri a individuare l’utilità economica che si cela
dietro tali pratiche.
La mia trattazione è organizzata come segue:
ξ Un primo capitolo sui concetti: il concetto di mobbing dalla sua nascita alla
sua evoluzione con le relative definizioni, la descrizione delle pratiche
mobbizzanti e del ruolo svolto dalle parti in causa, e alcuni dati per
inquadrare le caratteristiche e le dimensioni del fenomeno; e il concetto di
precarietà del lavoro, con particolare attenzione ai dati riguardanti la
situazione italiana.
ξ Un secondo capitolo sulla giurisprudenza italiana: in materia di mobbing,
ossia per quanto riguarda il riconoscimento, la stima del danno e la sua
risarcibilità, e in materia di lavoro; nella fattispecie, riassumendo
brevemente le novità introdotte dalla Legge 30/2003.
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ξ Un terzo capitolo sulle connessioni tra mobbing e precariato, cominciando
da un ripasso delle teorie economiche che stanno alla base della mia
trattazione, per passare all’analisi del comportamento umano sotto stress,
ad una breve panoramica sulle ultime tendenze in tema di HRM e all’analisi
dei dati più salienti, con particolare riferimento a quelli pubblicati dalla
Fondazione Dublino.
Il tutto è corredato da stralci di interviste qualitative in profondità realizzate da me a
lavoratori precari vittime di mobbing. Di queste, sono riportati solo i brani che ho
considerato significativi, volta per volta, per sottolineare con testimonianze
empiriche determinati concetti. Le interviste complete sono riportate in appendice
alla fine del volume.
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CAP. 1 - I CONCETTI
1. Cos'è il mobbing?
Il termine "mobbing", dall'inglese mob, folla, nasce nell'ambito etologico, quando
nel 1963 il grande etologo Konrad Lorenz lo inventa per descrivere il
comportamento aggressivo di un branco di piccoli uccelli nei confronti di uno più
grande, percepito come una minaccia.
L'analogia, che è facile cogliere anche solo vedendo un documentario, fra il
comportamento di questi animali e taluni comportamenti umani (osservati, nella
fattispecie, in alcuni operai e impiegati svedesi), ha portato nel 1984 lo psicologo
del lavoro Heinz Leymann a utilizzare questa parola per definire le attività di
bullismo lavorativo, coniando così il moderno significato del termine mobbing, da
egli definito come segue:
Il terrore psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione ostile e
non etica diretta in maniera sistematica da uno o più individui principalmente verso
un singolo, il quale, a causa del mobbing, è spinto in una posizione in cui è privo di
aiuto e di possibilità di difendersi, e qui viene tenuto per mezzo di continue attività
mobbizzanti. Queste azioni avvengono piuttosto frequentemente (definizione
statistica: almeno una volta alla settimana) e per un lungo periodo di tempo
(definizione statistica: almeno per una durata di sei mesi). A causa della frequenza
e della durata del comportamento ostile, il risultato di questo maltrattamento è un
considerevole stato di deprivazione mentale, psicosomatica e sociale.
Questa definizione appare, a tutt'oggi, piuttosto datata, presentando non poche
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debolezze intrinseche: innanzitutto il taglio prevalentemente psicologico dato alla
questione (il quale ha poi condizionato molti successivi studi sul mobbing che
hanno privilegiato un atteggiamento "vittimistico", orientato alla cura dei sintomi del
mobbizzato, percepito come un malato, piuttosto che un atteggiamento di
condanna nei confronti dei mobbizzatori). In secondo luogo, la rigidità dei criteri
statistici imposti ne rende difficile l'applicabilità ai casi concreti, che,
inevitabilmente, sono sempre unici e difficili da collocare in gabbie interpretative. In
terzo luogo, l'insistenza sulla lunghezza del periodo di tempo per il quale il
mobbing debba protrarsi per essere considerato tale rende addirittura impossibile
l'applicabilità di questa definizione su larga scala nell'epoca contemporanea, dato
che la fine della predominanza del lavoro fisso rende sempre più diffusi contratti a
termine che non vengono rinnovati dopo i sei mesi, o, spesso, che sono stipulati
per periodi di tempo molto più brevi.
Ciononostante, va sicuramente riconosciuto ad Heinz Leymann l'indiscutibile
merito di aver posto l'attenzione del grande pubblico su un fenomeno fino ad allora
pressoché sconosciuto, così che egli oggi può essere comunemente considerato il
padre fondatore degli studi sul mobbing, nonché, tuttora, uno dei maggiori
promotori e finanziatori di ricerche sull'argomento.
In realtà il fenomeno delle molestie psicologiche sul lavoro era già stato individuato
in precedenza e classificato con altri termini: bullying (bullismo), harrassment
(molestia), bossing (autoritarismo), etc. Risale al 1974 Il primo vero e proprio
studio sull'argomento, "The harrassed worker" di Brodsky, nel cui solco s'inserisce
poi la studiosa francese Marie-France Hirigoyen che nel 1994 pubblica
"L'harcèlement morale" (la molestia morale, termine ancora molto in uso in Francia
come sinonimo di mobbing).
Tutti questi vocaboli hanno sfumature di significato che li rendono leggermente
diversi e meno precisi del termine mobbing, ragion per cui la grande maggioranza
della letteratura in materia ha scelto di utilizzare quest'ultimo.
Antonio Casilli fornisce una carrellata di tutti questi termini illustrandone il
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significato. Riassumendo, egli differenzia il mobbing, in quanto fenomeno
prettamente lavorativo, intenzionale e prevalentemente psicologico, dal bullismo
(che spesso comporta violenza fisica, non sempre è intenzionale e non sempre
avviene sul lavoro ma anche, ad esempio, a scuola), dall' "harrassment /
harcèlement" (che manca del carattere di continuatività proprio del mobbing e ha
dei contenuti di discriminazione razziale o sessuale, comprendendo nel suo
significato anche le molestie sessuali), e da tutti gli altri termini usati come "abuso
lavorativo", "terrorismo psicologico", "spadroneggiamento", eccetera, termini che
per la loro vaghezza presentano più di una difficoltà in un'analisi scientifica del
fenomeno.
Harald Ege, studioso di psicologia del lavoro e
dell'organizzazione, dà la seguente definizione:
Con la parola mobbing si intende una forma di terrore
psicologico sul posto di lavoro, esercitata attraverso
comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte di
colleghi o superiori. La vittima di queste vere e proprie
persecuzioni si vede emarginata, calunniata, criticata: le
vengono affidati compiti dequalificanti, o viene spostata da un
ufficio all'altro, o viene sistematicamente messa in ridicolo di
fronte a colleghi o superiori. Nei casi più gravi si arriva anche al sabotaggio del
lavoro e ad azioni illegali. Lo scopo di tali comportamenti può essere vario, ma
sempre distruttivo: eliminare una persona in qualche modo "scomoda”,
inducendola alle dimissioni volontarie o provocandone un motivato licenziamento.
Questa definizione, in qualche modo "classica", si concentra ancora più
sull'aspetto psicosociale che su quello economico-organizzativo del fenomeno,
tralascia il concetto fondamentale dell'estraneità del mobbizzato alla persecuzione
Fantozzi, di Luciano
Salce (1974): Il regista
della celebre
commedia sulle
disavventure dell’
“impiegato
qualunque” per
eccellenza è stato uno
dei primi al mondo ad
affrontare il tema del
terrorismo psicologico
in ufficio.