2
risorse per più tempo. Sono quindi queste risorse più
evanescenti le prime da colpire e combattere. Una leale
competitività e una buona dose di tensione produttiva sono
ingredienti fondamentali per il successo di un’impresa. Il
mobbing, invece, è una perversione patologica della
competitività e manda il sistema produttivo in corto circuito:
chi viene colpito lavora poco, si assenta spesso per malattia,
diventa un peso per tutta l’azienda. Inoltre il mobbing spegne
ogni forma di collaborazione tra dipendenti e quindi riduce gli
scambi di informazione, eliminando lo spirito di gruppo. La
mancanza di autonomia e di comunicazione, la scarsa
motivazione e l’assenza di gratificazione sono le condizioni in
cui il lavoratore produce peggio e meno.
Del resto è evidente che in una società postindustriale avanzata
la qualità dell’apporto dei lavoratori è molto più rilevante di
quanto non lo fosse nel modello di produzione fordista. Nelle
aziende ormai le sfide competitive non si giocano più
sull’evoluzione tecnologica, ma sulla qualità delle persone che
vengono coinvolte. Ma ci sono anche altri possibili effetti
3
collaterali della molestia morale sulla salute dell’azienda,
come per esempio il danno d’immagine che ne deriva se
appare sui giornali la notizia che un’impresa induce
sistematicamente al licenziamento i suoi dipendenti. Un’altra
conseguenza negativa consiste nelle spese legali che la
compagnia deve affrontare quando i conflitti determinano
cause di lavoro. Insomma in tutto il mondo sviluppato molte
imprese sono di fatto danneggiate da quei dipendenti -dirigenti
e non- che creano situazioni persecutorie. Ma l’aspetto più
grave è che le aziende fino a poco tempo fa, non si erano rese
conto della gravità del problema. Questo soprattutto in Italia,
dove la maggior parte delle società non ha la minima
percezione del fenomeno e considera la questione un fastidio,
una seccatura, se non un'invenzione che rischia di incrinare la
pace sociale con i dipendenti. Una maggiore consapevolezza
dei danni che il mobbing produce consentirebbe, in primo
luogo, di potere meglio utilizzare gli strumenti normativi che
già esistono al fine di prevenire la pratica nei luoghi di lavoro
o, quando questo non sia stato possibile, reprimerla oppure
4
approntarne di nuovi e più efficaci. In secondo luogo, si
potrebbe ricondurre la lotte alle violenze morali in ambito
lavorativo nel suo sito naturale: il luogo di lavoro. Non c’è
dubbio, infatti, che il mobbing vada contrastato all’origine.
Partendo da queste considerazioni, ho ritenuto interessante
approfondire la questione facendo una ricerca sul fenomeno
mobbing, trattando in particolare i suoi aspetti giuridici.
Nella prima parte del mio lavoro mi sono occupato della
presentazione del problema: la sua nascita, il suo sviluppo, le
motivazioni del nome, la diffusione in Italia. Ovviamente il
fenomeno è complesso, si manifesta in varie forme ed in
diversi ambienti (da quello lavorativo a quello famigliare a
quello scolastico), ed è stato necessario darne spiegazione.
Nella seconda parte del lavoro ho cercato di elencare nel modo
più semplice possibile quali possono essere le conseguenze del
mobbing sul soggetto che ne è vittima. Ecco allora il danno da
demansionamento, il danno morale, il danno biologico e il
danno esistenziale e le successive possibilità di risarcimento.
Ho cercato prima di dare una spiegazione generica di ognuna
5
delle figure di danno, e poi le ho considerate come conseguenti
da mobbing. Un particolare cenno va fatto sul danno
esistenziale, perché rappresenta una tesi di parte della
dottrina, che ancora deve trovare riscontro e consolidamento in
giurisprudenza.
Nella terza ed ultima parte del mio lavoro mi sono occupato
degli strumenti che attualmente il diritto pone a disposizione
delle vittime di mobbing. Ci sono tutti i riferimenti normativi e
giurisprudenziali. In particolare mi sono interessato delle due
sentenze del Tribunale di Torino del 1999, che hanno creato il
precedente giurisprudenziale, nonché della recentissima
sentenza del Tribunale di Taranto relativa alla società ILVA.
Ho trattato del mobbing nel pubblico impiego, con tutte le sue
ripercussioni sull’Erario, nonché del rapporto tra danni da
mobbing e la nuova disciplina INAIL.
Ho elencato tutte le cinque proposte di legge (tre proposte di
legge e due disegni di legge) che attualmente sono depositati
in Parlamento, in attesa forse di potere divenire legge.
6
In ultimo ci sono dei riferimenti alla Common Law, cioè come
si comporta il diritto anglosassone rispetto al mobbing
(bullying nei paesi anglosassoni).C’è anche il testo integrale
della normativa svedese sul mobbing, importante poiché la
Svezia è il paese in cui il fenomeno è nato.
7
Capitolo I
IL MOBBING
1.1 La sindrome da mobbing.
Il mobbing è una forma di terrore psicologico che viene
esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da
parte dei colleghi o dei datori di lavoro.
Il termine deriva dal verbo inglese to mob, che significa
<<assalire tumultuando in massa, malmenare, aggredire>>. Il
mobbing coinvolge sia giovani sia anziani, ma la fascia di età
da cui provengono più richieste di aiuto è quella che va dai 45
anni in poi. I motivi sono semplici: prima di tutto, i giovani
neoassunti accettano più facilmente i piccoli soprusi
quotidiani e quindi raramente denunciano le situazioni di
violenza psicologica; in secondo luogo, un lavoratore anziano
costa di più all’azienda, quindi diventa più frequentemente
oggetto di mobbing; infine, la fascia sopra i 55/60 è più a
rischio perché il datore di lavoro può essere tentato dall’idea di
8
convincere il dipendente con le buone o con le cattive a
prepensionarsi.
Le prime teorizzazioni del fenomeno del “mobbing”
nell’ambito della psicologia del lavoro si sviluppano in
Svezia nel corso degli anni ottanta, grazie ad un gruppo di
psicologi del lavoro, capitanati da Heinz Leymann
1
. In pochi
anni il lavoro di questo gruppo ha trovato consensi in tutta
Europa: in Germania dapprima, quindi in Francia, e, da
qualche tempo, anche in Italia
2
.
1
Tedesco emigrato in Svezia, è stato il fondatore di quello che oramai può dirsi un
settore di ricerca ben definito. Leymann, mancato nel gennaio del 1999, ha avuto
l’indubbio merito di intuire e quindi teorizzare per primo il fenomeno, riscuotendo da
subito un grande successo, sia in Svezia che, dopo qualche anno, in Germania e da
ultimo in USA. La sua opera più diffusa è Psychoterroro am Arbeitsplaz und wie man
sich dagegen weheren kann, Reinbeik bei Hamburg, 1993 .
2
In Italia le iniziative riguardanti il mobbing si stanno moltiplicando ogni giorno. La
prima divulgazione del fenomeno si deve al dott. Harald Ege, che a partire dal 1996 ha
pubblicato una serie di libri sul mobbing con l’editore Pitagora di Bologna, e
precisamente: Mobbing. Che Cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro; Il
Mobbing in Italia; Stress e mobbing; I numeri del mobbing.Interviste e questionari a
più di 300 vittime. Da ultimo: Ege, Il mobbing, ovvero il terrore psicologico sul posto di
lavoro, in Hirigoyen, Le molestie morali, Torino, 2000, 235: Ege è anche Presidente di
PRIMA-Associazione Italiana contro Mobbing e stress psicosociale, organizzazione
votata allo studio del mobbing e all’assistenza delle vittime. Sotto il profilo specifico
della cura delle patologie da mobbing, è da segnalare l’attività del prof. Gilioli, direttore
della clinica del lavoro di Milano, dove da alcuni anni viene offerta specifica assistenza
a vittime di mobbing e dove , il 24 Febbraio 1999, si è svolto il primo seminario
nazionale sul mobbing: A. e R. Gilioli, Cattivi capi, cattivi colleghi, Milano, 2000. A
livello sindacale, si segnala il convegno organizzato il 22 ottobre 1999, a Bologna, dalla
UIL Bancari e Assicurativi e il Convegno tenutosi a Novara il 31 maggio 1999,
organizzato dalla UIL C.A.. Per l’aggiornamento professionale, lo specifico Seminario
di Torino del 25 ottobre 1999. Da ultimo il Convegno di Torino, Mobbing. Un
fenomeno da debellare, 28 febbraio 2000, organizzato da UIL C.A. Nazionale, UIL
piemontese ARES.
3 I primi studiosi ad utilizzare questo termine furono il medico svedese HEINEMAN e
successivamente il norvegese DAN OLWENS. Con questa definizione ambedue
9
Nella formulazione attuale con la parola <<mobbing> > ( nei
paesi anglosassoni <<bullying>>)
3
si indica in particolare
<<qualunque condotta impropria che si manifesti attraverso
comportamenti, parole, atti, gesti, scritti capaci di arrecare
offesa alla personalità, alla dignità o all’integrità fisica o
psichica di una persona, di mettere in pericolo l’impiego o di
degradare il clima lavorativo>>
4
.
Il termine <<mobbing>>, ha quindi il potere di raggruppare
una universalità di comportamenti diversi, ma accomunati da
due elementi: la modalità, aggressiva e vessatoria, e la
finalità, l’eliminazione di questo o quei dipendenti.
intendevano focalizzare un certo tipo di comportamento, particolarmente aggressivo e
distruttivo legato al mondo giovanile. Infatti è nella fase primaria di costruzione di
relazionalità sociale che si manifesta questo fenomeno. Esso viene attuato per mezzo di
una strategia di aggressione a lungo termine diretta verso un soggetto psicologicamente
più debole, che presenta difficoltà ad arginare le forme di attacco e che per questa
difficoltà ed il perpetrarsi dell’attacco si trova sempre più coinvolto nel ruolo di vittima
Nel corso della sua azione il Bullying è sempre caratterizzato dalla comparsa della
violenza fisica vera e propria, perpetrata allo scopo di instaurare una diseguaglianza di
potere tra persecutore e vittima: Tutto questo è sintomo di un forte senso di
inadeguatezza di tipo relazionale, sociale, personale e comportamentale da parte
dell’aggressore, che è in grado di portare a termine la sua azione devastatrice grazie alla
complicità omertosa dell’ambiente circostante.
In alcuni paesi come quelli di cultura anglosassone, in Norvegia, in Giappone, questo
termine- Bullying_ viene utilizzato anche per indicare la violenza di tipo psicologico
perpetrata sul posto di lavoro. Cfr. Olweus D., Ragazzi oppressi, Ragazzi che
opprimono, Giunti, Firenze, 1996, pag. 5.
4
Hirigoyen, Molestie morali, cit., 53.
10
Il mobbing si concretizza attraverso varie forme:
l’emarginazione del soggetto attraverso l’ostilità e la non
comunicazione; le continue critiche sull’operato; la diffusione
di maldicenze; l’assegnazione di compiti dequalificanti e
umilianti oppure, troppo difficili; la compromissione
dell’immagine del soggetto; le molestie sessuali; gli
spostamenti da un ufficio all’altro.
L’importanza del mobbing è: l’aver trovato un nome e una
definizione sotto la quale raggruppare una serie di fenomeni
comportamentali.
La definizione del mobbing offerta nell’apposito Disegno di
legge del 13 ottobre 1999: <<Vengono considerate violenze
morali
5
e persecuzioni psicologiche, nell’ambito dell’attività
5
Secondo Leymann, si può parlare di molestia morale sul lavoro quando le violenze
verbali, gli attacchi alla vita privata e le vessazioni in genere <<si ripetono almeno una
volta alla settimana per sei mesi>>. In media la durata della molestia in Italia si aggira
attorno ai quattro-cinque anni, mentre in Germania è inferiore ai due anni. Questo
accade probabilmente per il maggiore attaccamento al posto di lavoro fisso e per la
paura della disoccupazione. Secondo una ricerca effettuata tra il novembre del ’96 e il
gennaio del ’97 dall’European Foundation for the Improvement of Living and Working
Conditions con 15.986 interviste nei 15 paesi dell’Unione, nel nostro paese subisce
violenza psicologica il 4% dei lavoratori. Poiché oggi i dipendenti in regola sono circa
15 milioni e quelli non in regola sono almeno 3 milioni, le vittime da noi sarebbero
circa 720 mila. Diversi studi inducono a ritenere che le dimensioni del fenomeno sul
territorio italiano siano un po’ più vaste. Per esempio, un’indagine demoscopica
condotta da Renato Mannheimer nel 1998 e pubblicata nel volume Il benessere sul
lavoro rivela che i dipendenti italiani che <<hanno un vissuto molto negativo su tutti gli
aspetti relativi al proprio lavoro>> sono l’11%. Uno studio effettuato in Umbria dalla
UIL su 900 lavoratori degli Enti pubblici ha rivelato che quattro dipendenti su dieci si
11
lavorativa, quelle azioni che mirano esplicitamente a
danneggiare una lavoratrice o un lavoratore>>.
Tutti questi comportamenti per diventare mobbing <<devono
mirare a discriminare, screditare o danneggiare il lavoratore
nella propria carriera>>.
Le cause scatenanti del mobbing sono diverse. Spesso hanno
peso una cattiva organizzazione interna ed una precisa
definizione delle mansioni. A volte invece è la presenza di
sentono vittime di forme di isolamento o di discriminazione da parte dei superiori e dei
colleghi; al Comune di Perugia il 34% dei lavoratori lamenta condizioni di terrorismo
psicologico; alla provincia il 25,4%, alla regione il 12,62%. Secondo Massimo Biondi,
docente di psicopatologia dello stress all’Università di Siena, l’angoscia da lavoro
colpisce almeno un lavoratore italiano su tre. In generale infine, la stima più verosimile
concordemente proposta dagli studiosi e dai medici con esperienza quotidiana di
molestie sul lavoro è che in Italia le vittime siano tra il milione e il milione e mezzo. Il
fenomeno ha carattere internazionale e riguarda tutti i paesi a economia sviluppata.
Secondo la citata indagine dell’Unione Europea, nei paesi membri ci sono circa 12
milioni di persone che subiscono intimidazioni sul lavoro, pari all’8% della popolazione
attiva. In testa alla classifica si trova la Gran Bretagna con il 16 % di vittime. Seguono
la Svezia con il 10 %, la Francia e la Finlandia con il 9 %, l’Irlanda e la Germania con
l’8%. L’Italia, come si è detto, sarebbe attorno al 4 %.
Da questi dati tuttavia si deduce non tanto che il problema è più diffuso in alcuni paesi
che in altri, ma soprattutto che diversa è la soglia di accettazione delle molestie morali e
delle intimidazioni. Per esempio, nei paesi dell’Europa meridionale è abbastanza
frequente che un superiore parli ad un subalterno con arroganza, magari anche alzando
la voce: lo stesso atteggiamento in Scandinavia verrebbe considerato molestia e come
tale denunciato. Nel Regno Unito, paese in cui da anni l’argomento è di grande attualità,
una ricerca della Staffordshire University rivela che il 64% dei lavoratori del pubblico
impiego britannici ha subito o è stato testimone di una persecuzione prolungata.
Secondo un rapporto del ’98 dell’Ilo ( l’Ufficio Internazionale del Lavoro, l’agenzia
dell’Onu per la salvaguardia dei diritti sul lavoro, con sede a Ginevra), il 53% dei
dipendenti britannici sostiene di aver subito vessazioni sul lavoro. Un altro interessante
dato, emerso dalle ricerche svedesi e discusso al primo seminario nazionale tenutosi a
Milano il 24 febbraio 1999, rivela che nella Comunità europea ogni lavoratore e ogni
lavoratrice a inizio carriera ha il 25%di probabilità di doversi confrontare prima o dopo
con una situazione del genere. L’esperienza di chi studia da anni le molestie morali
tende a confermare l’attendibilità di questa proiezione. Cfr. Alessandro e Renato Gilioli,
Cattivi capi, cattivi colleghi, Mondadori, Milano, 2001, pag. 15.
12
elementi negativi, portatori di aggressività a far nascere ed a
diffondere il morbo. Nella maggior parte dei casi è proprio il
combinarsi delle cause a provocare gli effetti peggiori: da un
lato uno o più conflitti causati dall’organizzazione del lavoro e
degenerati quindi in scontri personali; dall’altro, i caratteri
umani, le personalità, cioè la presenza in ufficio di uno o più
potenziali mobber, come vengono chiamati i creatori di
mobbing.
Contrariamente a quanto pensano alcuni, la vittima di molestie
morali sul lavoro non è necessariamente una persona dal
carattere debole, un perdente nato. Anzi, negli ambienti di
lavoro piatti a volte ad essere colpito è il lavoratore più
brillante, capace e creativo, quello che si mette in luce. Spesso
è soltanto l’ultimo arrivato, colpevole di aver rotto una
precedente dinamica di clan molto chiusa. Talvolta è una
persona originale, che non accetta gli standard del gruppo, che
veste in modo eccentrico che ha idee politiche o convinzioni
religiose particolari. Ancora, a volte è il lavoratore onesto,
quello che non accetta regole clientelari e paramafiose che
13
vigono nel gruppo. In definitiva l’esperienza dimostra che
nella maggior parte dei casi il bersaglio è un lavoratore con un
forte investimento psicologico sul suo lavoro. Ecco perché i
giornali che hanno definito il mobbing <<la sindrome di
Fantozzi>> hanno lanciato un messaggio sbagliato: il
personaggio creato da Paolo Villaggio infatti, è una nullità,
mentre le vittime di psicoterrore in ufficio nella realtà sono
persone validissime.
1.2. Il mobbing in famiglia.
L’obiettivo del mobbing familiare
6
è quello di costringere un
congiunto ad abbandonare il nucleo familiare, attraverso una
continua persecuzione psicologica. Nell’ambito della famiglia
il diritto incontra non poche difficoltà sia nella prevenzione sia
nella sanzione delle molestie morali.
La legge interviene quando l’equilibrio è ormai compromesso.
6
Sulle aggressioni e molestie morali in famiglia: Hirigoyen, Molestie morali, cit., 7 ss.
Più specificatamente sulla situazione italiana: Menzio, La violenza intrafamiliare:
un’esperienza italiana, in Hirigoyen, Molestie morali, cit., 221.
14
Del resto, è il diritto stesso ad essere restio a frapporsi nei
contrasti intra-familiari, se non quando le vittime siano dei
minori o si configurino ipotesi di reato (percosse,
maltrattamenti, violenze e molestie sessuali). In una cultura
che pone la famiglia al centro della società, spesso le molestie
morali vengono nascoste dalle stesse vittime, che preferiscono
subire piuttosto che esporsi al giudizio della collettività.
L’art. 143 c.c. stabilisce che <<dal matrimonio deriva
l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e alla
coabitazione>>. La stessa norma prevede altresì che <<i
coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie
sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o
casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia>>.
Il coniuge che molesta moralmente il partner viola i propri
obblighi, pur tuttavia è ben difficile che vi siano delle forme di
tutela legale.
Anche la possibilità di obbligare il marito o la moglie ad
adempiere ai doveri previsti dal regime giuridico della
famiglia trova scarso accoglimento nel nostro sistema, fatta
15
salva l’ipotesi in cui il coniuge disponga dei beni della
famiglia in modo del tutto sconsiderato, con atti di
disposizione che comportano la violazione degli obblighi di
assistenza economico-materiale. Il codice civile cerca in tutti i
modi di mantenere l’unità famigliare, anche prevedendo
l’intervento della magistratura.
L’art. 145 c.c. infatti prevede la possibilità che ciascun
coniuge possa chiedere l’intervento del giudice per dirimere i
conflitti che insorgono in relazione a violazioni delle intese
coniugali circa l’indirizzo da imprimere alla vita familiare.
Il giudice, ove non sia possibile giungere ad una soluzione
concordata, quando il disaccordo concerne aspetti essenziali
della vita familiare ed entrambi i coniugi ne fanno richiesta,
può adottare la soluzione che ritiene più adeguata alle esigenze
dell’unità e della vita familiare, ma il suo provvedimento non è
di coercizione.Tale strumento trova scarsa applicazione.
Di fatto le molestie morali vengono ad assumere una certa
rilevanza soltanto in corso di separazione o divorzio.