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1. Consumo, identità e memoria nella modernità compiuta
1.1. I caratteri della post-modernità
Il consumo, in tutte le sue vesti, rappresenta una delle possibilità di comunicazione che si configura,
in questa società-mondo, come una forma di inclusione nel sociale. Sul piano sociale, dal punto di
vista della società, il consumatore deve essere funzionale alla riproduzione della comunicazione che
può essere sempre possibile in altri modi, in altri tempi, in altri luoghi. Calcolabilità, puntualità,
esattezza, sembrano essere le radici del moderno, ma anche comparabilità, generalità, astrazione, e
contingenza. L’individuo post-moderno ha infatti assorbito strati sempre più significativi di
contingenza, ha interiorizzato il possibile altrimenti, è in continuo divenire. Il soggetto si trova oggi
e dover fare i conti con una società altamente complessa, differenziata per funzioni, caratterizzata
da una elevata numerosità di elementi, di relazioni, di processi che compongono l’organizzazione
sociale, da modalità sempre più complesse di intreccio tra tali elementi (rapporti indiretti, mediati),
dalla crescita delle asimettrie tra istituzioni e sistemi sociali parziali, da un lato, e deboli capacità di
adattamento cognitivo e di controllo consensuale da parte della gente, dall’altro lato, e infine dal
“crescere di flussi di pensiero riflessi sulle prassi, nella direzione che è stata chiamata della
progressiva mentalizzazione della vita sociale, e con la revisione di saperi già dati per scontati,
insieme al crescere delle specializzazioni sia linguistiche che di competenze nei contenuti” (Ardigò
1990, pp. 18-19).
In questa società è la contingenza, quale principio correlato alla complessità, a determinare lo stato
di compresenza di non necessarietà e impossibilità che caratterizza gli stati delle cose, degli eventi,
delle relazioni. Per Luhmann (1983) si è passati da una società a primato della differenziazione
stratificata ad una società con un primato della differenziazione funzionale. La prima si differenzia
per la disuguaglianza di rango degli strati sociali. E’ una società stratificata, verticistica e
gerarchizzata, che si fonda sugli strati. In particolare la distinzione forte si fondava su due parti: la
nobiltà e il popolo comune, e il sapere, la comunicazione veniva prodotta quasi unicamente dagli
strati elevati, dalla nobiltà. La seconda, a differenziazione funzionale, è caratterizzata sia dalla
disuguaglianza sia dall’uguaglianza dei sistemi parziali. La differenziazione funzionale si
caratterizza per un’organizzazione societaria non più gerarchica, ma basata su una dimensione
orizzontale dove ogni sistema parziale ha un “primato funzionale”, teso alla risoluzione di un
problema. In questo caso tutti i sistemi hanno la medesima importanza, ma al contempo sono
differenti, cioè diversi per il problema che risolvono. Tutti i sistemi di funzione si riproducono
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secondo il proprio codice e prescindono o meglio sono indifferenti alle singole specificità
individuali.
Il substrato scientifico e culturale contemporaneo è caratterizzato dalla fine delle grandi narrazioni.
I Grandi Racconti, fondamento della società premoderna che si caratterizzava per un sapere
narrativo trasmesso oralmente, si sono progressivamente svuotati di senso, hanno perso coerenza e
peso assiologico (Lyotard 1985). Il risultato, ad oggi quanto mai evidente, è lo svolgersi di un
principio di frammentazione e di pluralismo estremo. Sul versante del soggetto questo stato di cose
ha portato inevitabilmente all’affermarsi di rapporti sempre più impersonali, astratti, universali, che
ben si discostano dai legami a stampo solidaristico tipici dell’età pre-industriale.
Altre peculiarità del passaggio al post-moderno sono l’emergere di una nuova flessibilità e la
scomparsa di un centro forte attorno al quale strutturare una realtà sempre più molteplice. Il
processo di differenziazione simbolica che ha accompagnato lo sviluppo della società
contemporanea si è infatti tradotto in una moltiplicazione dei codici e dei modelli culturali, ovvero
in una pluralizzazione dei diversi ambiti sociali. Ogni scelta compiuta, dal punto di vista
individuale, del soggetto, produce senso e vale perché qualifica l’esperienza di ognuno come
qualcosa di unico, separato, soggettivo. Ma se da un lato il senso permette di selezionare, cioè di
scegliere e ridurre la complessità, è anche vero che le scelte non fatte restano a disposizione su uno
sfondo cui è sempre potenzialmente possibile rinviare. Il senso è infatti quella particolare forma di
elaborazione dell’esperienza umana che si basa su selezione e rinvio.
Lo stesso desiderio di erranza, la continua ricerca di Altrove, la “sete dell’infinito”, per dirla alla
Durkheim (1987), che caratterizza l’individuo post-moderno, è una ulteriore conferma del carattere
altamente contingente del moderno modo di vivere. Il nomadismo, così come tutte le forme neo-
tribali, neo-comunitarie rappresentano delle emergenze all’interno della differenziazione funzionale
del sistema mondo. La vita errante è una vita dalle molteplici identità, a volte contraddittorie, che
possono essere vissute sia contemporaneamente, sia una dopo l’altra. Il politeismo dei valori,
conseguente alla frammentazione del mondo, di cui è causa ed effetto, porta inevitabilmente ad una
pluralizzazione della persona: alla molteplicità delle divinità corrisponde la molteplicità della
persona (Maffesoli 2000). Il disagio della post-modernità, l’inadeguatezza dell’individuo nascono
proprio dalla sua difficoltà a rimanere sempre in movimento, dalla difficoltà a mantenersi sempre
flessibile e pronto ad assumere modelli di comportamento differenti, dall’incapacità di acquisire la
forma e le immagini desiderate.
La cultura moderna si caratterizza per essere la cultura del disimpegno, della dimenticanza, della
discontinuità. Alla modernità si associa l’esperienza della distrazione: i soggetti si fanno penetrare
distrattamente da questo universo della comunicazione, del possibile altrimenti. Il mito della libertà
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individuale passa attraverso la società dei consumi; ma essere liberi di consumare non è la sola
libertà, anzi ciò che ci offre la società dei consumi non è altro che un’illusione di libertà
(Baudrillard 1974). Mentre i soggetti pensano di essere liberi sperimentando tutte le possibilità che
vengono loro offerte dal mercato, non si rendono conto di essere, dal punto di vista della società, dei
semplici ingranaggi che permettono al sistema, alla comunicazione e alla società stessa di riprodursi
continuamente, incessantemente, prescindendo dalle singole specificità, e dalla concretezza dei
luoghi e degli spazi.
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1.2. Problemi di identità del moderno: il disagio della post modernità
Nella modernità avanzata, il consumo è strettamente legato alla costruzione dell’identità, processo
che richiede da un lato una individuazione e dall’altro una identificazione. Nel contesto appena
inquadrato di una società altamente complessa, è evidente come per l’individuo risulti difficile
definire e mantenere una identità stabile e continuativa. Se il passaggio dalla società tradizionale
alla società moderna è stato letto, a livello individuale, come liberazione dalle relazioni e dai ruoli
ascritti, ovvero dalla posizione nella struttura acquisita per nascita da ciascun soggetto, il passaggio
dalla prima società industriale a quella contemporanea è traducibile nella relativizzazione del
processo di costruzione e mantenimento dell’identità del soggetto, ovvero come passaggio dal
monocentrismo al policentrismo esistenziale.
L’individuo della società industriale, della società delle certezze, delle istituzioni forti, della
stabilità, del dominio razionale dell’uomo sulla natura, era l’individuo tutto d’un pezzo, sempre
coerente con sé stesso. Ne discendeva un’identità individuale sostanzialmente improntata all’unicità
ed alla stabilità, in quanto fondata sulla centralità dell’ambito sociale lavorativo. Il processo di
costruzione dell’identità individuale trovava dunque le fondamenta ed il collante nella collocazione
del soggetto all’interno del sistema produttivo. La costruzione dell’identità del soggetto poteva
contare su una sostanziale stabilità e continuità della sua carriera lavorativa. Il passaggio dalla
società industriale alla società postindustriale e contemporanea ha comportato profondi ed
importanti mutamenti nel processo di costruzione e mantenimento dell’identità del soggetto. Di qui
la tragedia della cultura moderna che si manifesta nella ricerca disperata di un significato da
attribuire alla propria esistenza. La difficoltà a rappresentare le differenze sociali sulla base di un
modello unitario porta dunque ad una problematizzazione dell’identità individuale: il singolo
individuo non può più disporre di un criterio duraturo di selezione funzionale alla propria
autoconservazione, la complessa e irriducibile articolazione del sistema lo induce ad elaborare, al
fine della propria autoconservazione, criteri di selezione diversi fra di loro e nel tempo. Pluralità e
mutevolezza appaiono dunque peculiarità della concettualizzazione dell’identità individuale
sviluppata dalla fenomenologia sociale contemporanea. “L’identità cessa di essere un fatto acquisito
sia soggettivamente sia oggettivamente e diventa l’obiettivo di una ricerca spesso tormentata e
difficile. L’uomo moderno sembra essere destinato inevitabilmente alla ricerca di se stesso.”[1]
Ci troviamo di fronte ad una dilatazione della dimensione dell’auto-riconoscimento causata dalla
scomparsa di processi di identificazione netti: ciò che diviene prioritario è vivere più dimensioni,
partecipare ad una molteplicità di attività per allargare continuamente il proprio orizzonte di
possibilità e per arricchire il processo di costruzione sociale della propria identità. Aumento delle
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possibilità da un lato e parallela riduzione della normatività sociale esprimono la complessa e
ambivalente condizione esistenziale del soggetto contemporaneo, che si rispecchia nell’altrettanta
complessità e ambivalenza della realtà sociale. In altre parole, la complessità dell’ambiente sociale
si traduce in complessità interna al soggetto, tanto da parlare di identità come “una sorta di puzzle
aperto, teoricamente infinito, in cui i singoli pezzi vengono accostati per successivi tentativi e il cui
senso è più il risultato provvisorio di un’attività sperimentale che non un disegno chiaramente
definito in partenza”[2], o ancora identità, per dirla alla Bauman (2003), “come un vestito, che si
usa finché serve, che segue le mode, che è precaria come tutto della nostra vita”.
Ciò che contraddistingue l’identità dell’uomo moderno appare dunque essere rappresentato dalla
capacità del soggetto di sintonizzarsi con la gamma delle mutevoli differenze che lo avvolgono da
ogni parte.
1.2.1. L’individuo blasé
Il risultato che deriva dalle considerazioni appena fatte, a livello di costruzione dell’identità, è la
personalità puramente e superficialmente socievole dell’individuo blasé (Simmel 1995), colui cioè
che, prese le distanze dalle cose, dalle persone e dall’irrazionalità dei propri istinti, dal proprio
corpo quindi, passa indifferentemente da un rapporto sociale all’altro, senza mai impegnare di sé
altro che le sue qualità intellettuali e razionali, evitando accuratamente di coinvolgere quella
dimensione emotiva-affettiva che fa di un individuo una personalità unica. Distacco e razionalità
sono le sue caratteristiche, nonché riservatezza, riserbo e indifferenza reciproca verso gli altri
cittadini. Siamo di fronte ad una atrofia della sensibilità, ad una spersonalizzazione della maggior
parte delle relazioni. L’individuo moderno è disincantato, annoiato e indifferente in quanto non
riesce più a cogliere le differenze qualitative tra le cose, le vede, ma non le sente, poiché si è
perfettamente integrato alla logica monetaria della società e avverte come irrilevanti il significato e
il valore delle cose stesse. Al blasé appare tutto di un colore uniforme, grigio, opaco, incapace di
suscitare preferenze: dal valore della differenza si è passati alla differenza senza valore. L’individuo
blasé, come tipo ideale di costruzione moderna della personalità e tipico abitante della metropoli, si
costruisce così secondo la logica del denaro e svuota le cose del loro nocciolo, del loro valore
specifico, della loro individualità e incomparabilità, rendendole equivalenti, prive di differenze e
comunque intercambiabili.
Così il blasé è egli stesso il risultato di questa azione di svuotamento: egli manca di carattere, di
qualità per cui può cambiare continuamente sé stesso con gli altri, ed è messo così nell’impossibilità
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di formarsi un sé forte e può solo difendersi diventando un blasè, oscurando o raffreddando tutto
quanto in lui sa di corporeità, di emotività, di irrazionalità.
La stessa crisi che colpisce l’individuo, dando forma al blasè, non è che la manifestazione della crisi
e della messa in discussione di tutti quei riferimenti culturali certi, determinati, assoluti e
indiscutibili che vigevano a supporto e guida della vita nella prima modernità.
Una crisi dunque che si inserisce nel più ampio processo di scomparsa della comunità, del suo
universo culturale e delle sue differenze.
A differenza di quanto succedeva nelle società tradizionali, in cui erano le qualità del gruppo di
appartenenza a determinare le differenze sostanziali, nella modernità con il denaro vengono
cancellate. La tendenziale scomparsa di tutte le differenze di valore causata dal denaro, simbolo
dell’epoca moderna ed equivalente generale delle cose, porta alla riduzione dei valori qualitativi a
valori quantitativi, e ad una società caratterizzata dall’impersonalità dei rapporti umani, sempre più
freddi e distaccati.
L’ambiente perfetto per questa società è la metropoli, la grande città: l’uomo diventa un piccolo
ingranaggio rispetto all’enormità di tutto il sistema ed è costretto ad aumentare la sua attività
nervosa per adattarsi ai veloci cambiamenti tra sensazioni esterne ed interne. Per Simmel
l’individuo moderno è mobile, fluido, plasmabile ma nel senso di un intreccio variabile di realtà
date e di possibilità costruite: il soggetto diventa così tanto più sé stesso, quanto più allarga il
ventaglio delle combinazioni possibili. Il cittadino della metropoli, sottoposto a continui stimoli, in
qualche modo si abitua e diventa meno ricettivo. E’un soggetto integrato, adattato, abituato a sentire
in maniera sempre più superficiale, ma non può dirsi che stia bene. Simmel rifiuta infatti
l’equazione tra libertà e felicità: “qui, come altrove, non è detto affatto che la libertà dell’uomo si
manifesti come un sentimento di benessere nella sua vita affettiva”(Simmel 1995, p. 22).
Le tradizionali forme di mediazione simbolica e culturale tra società e individuo, che prima ci
davano delle risposte sulla vita, sul nostro esserci, si sono dissolte e il rapporto che si instaura tra
individuo e società è tanto più diretto e senza mediazioni. L’individuo blasè non è più membro di
una collettività, di una comunità, ma è singolo, solo, liberato dalla comunità e arriva libero e puro di
fronte a tutte la possibilità contingenti che gli offre la società moderna. Il soggetto diventa un “io”
proprietario del suo corpo e delle sue capacità, la società diventa un semplice arbitro della
competizione tra gli individui. Poiché la metropoli è il luogo della massima concentrazione e della
massima differenziazione sociale, è dunque la sede dell’individualità per eccellenza, il luogo dove è
massima la libertà di movimento e di espressione dell’individuo.
L’uomo è libero di disporre della propria vita perché è l’unico vero proprietario di sé stesso, ha la
possibilità di autodeterminarsi, di essere creativo, ma nello stesso tempo anche di autodistruggersi
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ed annullarsi per divenire sempre qualcun’altro, per sperimentare tutte le possibilità che gli si
offrono. Ma questa libertà è una libertà solo apparente, che non scaturisce dall’individuo, da dentro,
ma dal suo rapporto con la nuova realtà sociale, che per sua natura non può che essere contingente:
si può dire che la stessa libertà è una libertà contingente. Il fatto che oggi il soggetto sia solo,
singolo, e che tutte le relazioni affettive tra le persone si basino sulla loro individualità, potrebbe
essere il motivo che porta alla nascita di oggetti sempre più personali, in cui si può esprimere nel
modo migliore il rapporto con la propria individualità. Le logiche di personalizzazione, gli oggetti
di consumo personali, quasi protesi individuali, come ad esempio il cellulare, il personal computer,
l’I-pood ci mostrano proprio questa nuova tendenza di trovare un senso e una propria identità grazie
e per mezzo delle cose, identità che però, per quanto detto finora, non può che essere mutevole e
contingente.
L’indifferenza è la reazione emotiva all’eccesso di questa apertura, all’eccesso di queste possibilità:
l’individuo blasè protegge la sua struttura emotiva poichè qualsiasi attaccamento emotivo risulta
essere puramente contingente, non necessario, e quindi non deve essere troppo forte. La forma
dell’investimento emotivo sulle cose non può che essere contingente.
La società di oggi è la società della novità, del cambiamento incessante e quindi non è possibile
attaccarsi emotivamente, ancorarsi morbosamente alle cose: qualsiasi attaccamento forte a cose o
idee è destinato a soccombere e ad essere sostituito. Continuamente c’è un investimento emotivo e
un successivo distacco che deve essere il più superficiale possibile per consentire all’individuo di
sopravvivere. Il riserbo e la relativa anonimità delle relazioni, è anche una forma di difesa posta in
essere dall’abitante della grande città di fronte all’eccesso di stimoli che caratterizza la vita
metropolitana: rispetto alla quantità e alla contraddizione di questi ultimi, la capacità di non farsi
coinvolgere emotivamente è necessaria per proteggere la psiche.
Dare un senso alla propria vita, alla propria esistenza, dal momento che si sono indebolite tutte le
istituzioni (lo Stato, la famiglia, le classi sociali, le nazioni) sarà un’impresa sempre più ardua e un
lavoro sempre più individuale, che dovrà scontrarsi con le logiche del mercato e della società, in cui
tutto scorre velocemente, nulla riesce ad affermarsi che già viene soppiantato, superato. Saranno gli
individui, nel loro compatto mente-corpo, grazie alle loro esperienze e ai ricordi di quelle
esperienze a dare un senso alla propria esistenza. Per mezzo della condivisione delle esperienze,
della messa in comune delle emozioni, grazie alla capacità di stabilire contatti effimeri, ma intensi,
in ogni modo l’incertezza deve essere vinta da ogni individuo con i propri mezzi.
In una società in cui tutto è funzionale alla riproduzione incessante dalla comunicazione allo stato
puro, esistono tuttavia degli ambiti di manovra, delle tattiche messe a punto dagli individui, e che
sfuggono al controllo del mercato e della società. Agli individui viene infatti lasciato uno spazio
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sempre più ampio di libertà e indeterminatezza, dove sono chiamati a non restare mai al di sotto
delle proprie possibilità inespresse.
1.2.2. Il flaneur
Altra figura moderna ed emblematica in questo senso, dopo aver parlato del blasè, risulta essere il
flaneur (Benjamin 2001), ovvero il tipico abitante della metropoli, il prodotto della vita moderna e
della rivoluzione industriale. Il flaneur è colui che cerca asilo, riparo, nella folla, a lui piace perdersi
nella città, nello spazio infinito della merce, è colui che si annulla, si perde nella folla, ma
attivamente, cioè per aprire una finestra su sé stesso, sulla propria interiorità. Il flaneur è un
disadattato, un estraniato che non riesce a radicare la propria identità: non si riconosce nella
borghesia, ma neanche nella grande città. Egli cerca e trova il suo radicamento nel riconoscersi
come parte della folla, in cui si trova a suo agio, ma la folla non è una classe sociale, bensì un
agglomerato effimero al quale spesso vengono associati peraltro connotati negativi. Il filosofo ed
economista tedesco, Friedrich Engels[3], osservò con un certo timore il fatto che si andasse creando
un soggetto così numeroso come la folla che di fatto non ha un proprio radicamento, non ha una
propria autocoscienza. Il flaneur è sensibile, è fondamentalmente un eccentrico, si perde e va alla
ricerca degli stimoli e delle possibilità che gli offre la metropoli, ha un atteggiamento di curiosità e
la sua principale caratteristica è proprio quella di mettersi in scena continuamente. Il grande
magazzino è il suo ultimo marciapiede: i luoghi di consumo diventano “marciapiede”, cioè parte
della città per il flaneur che vede il consumo come svago e lo svago come consumo. Le metropoli
moderne sono delle reti dove perdersi non solo è facile, ma anche affascinante. Dimentichiamo per
un attimo il nostro percorso pedonale quotidiano, immaginiamo una giornata in cui, invece di
proseguire verso l'abituale luogo di lavoro, scendiamo ad una fermata a caso, e iniziamo a
vagabondare per la città. Iniziamo a perderci. Camminare non per arrivare a destinazione, ma per il
gusto di farlo, per il gusto di scoprire angoli mai visti. Il flaneur compare per la prima volta a metà
del secolo XIX a Parigi. E' il passante, una sorta di incrocio tra il bohème e il vagabondo, che
cammina senza meta per le strade della città, fermandosi ogni tanto a guardare. Nel suo ruolo di
osservatore il flaneur stabilisce una relazione particolare con la città, abitandola come se fosse la
propria casa. Il suo percorso non coincide con il resto della moltitudine; quello che per il passante è
un cammino predeterminato - il percorso del mercato, direbbe Walter Benjamin - per lui è un
labirinto che cambia forma ad ogni passo: si lascia guidare dal colore di una facciata, l'inquietante
uniformità di alcune finestre, lo sguardo di una mulatta.