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nord-occidentale) insieme con le migrazioni da Paesi sottosviluppati a Paesi sviluppati
(p.es., dall’Africa occidentale all’Europa) costituiscono l'altra metà (Thumerelle, 1986).
I flussi di soli lavoratori,sono legati alle condizioni lavorative nei luoghi di
arrivo, alla logica che presiede il loro permanere e alle norme messe in atto dai vari
governi.
Secondo la teoria della transizione della mobilità di W. Zelinsky (1971), che
analizza le forme di mobilità riscontrabili nelle società avanzate, a partire dall'inizio
del processo di modernizzazione coincidente con lo sviluppo industriale, le forme di
mobilità geografica cambiano caratteristiche e intensità, adattandosi al mutare delle
attività produttive. Lo stadio in cui si troverebbero i PSA
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tra cui l’Italia, prevede che
l'esodo rurale si presenti assai ridotto, che l'emigrazione internazionale assuma la forma
di circolazione di tecnici e infine che aumenti la mobilità interna, specialmente nei tipi
interurbano ( tra le città) e intraurbano ( tra zone della stessa città). La circolazione si
diversifica e diventa ancora più intensa .
In uno stadio futuribile dello sviluppo, ma che comincia già ad intravedersi, si può
prevedere il riassorbimento di una parte delle migrazioni e della circolazione grazie a
moderni sistemi di telecomunicazione, di lavoro decentrato e di consegne a domicilio.
Il problema annesso a questa teoria è legato al contemporaneo stadio di sviluppo
dei PVS
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, in quanto non vi sono ugualmente applicabili, nei vari stadi previsti, le
stesse forme di mobilità riscontrate per i PSA. Infatti, le masse rurali, che si inurbano
nelle città del Terzo Mondo, non vi trovano le stesse possibilità di lavoro che si
presentarono ai contadini dell’Ottocento che si spostarono nelle città europee.
L'evoluzione della popolazione e della società dei Paesi in via di sviluppo si attua
in una situazione di dipendenza dai Paesi avanzati, differentemente dalla storia della
modernizzazione dei Paesi sviluppati (Zelinsky, 1983).
Quindi le migrazioni contemporanee, oramai, vanno interpretate all’interno di un
sistema di relazioni multilaterali e trasnazionali tra aree di arrivo e di partenza, alle cui
dinamiche socio-economiche si deve riconoscere pari rilevanza. Non si delinea più, con
chiarezza, un luogo di partenza e uno di destinazione, ma un insieme di luoghi e territori
nei quali il migrante si trova a vivere, nelle varie fasi della sua esistenza, allacciando
relazioni multiple a seconda dei motivi e delle condizioni di permanenza. Questo
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Paesi Stato Avanzato, in base all’indice HDI cioè Indice di Sviluppo Umano,appartenenti al gruppo
”high human développment”, secondo la classifica stilata dal UNDP. ( vedi allegato 3).
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Paesi in via di sviluppo, secondo classifica UNDP, appartenenti alla fascia “low human développment”
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aspetto induce a leggerli come processi circolatori da e per più territori. In questo senso,
il migrante diventa ponte tra due territori e culture dopo vari anni di esperienze e di
tentativi di inserimento, pur non assumendo una chiara identità in nessuna delle due,
visto il suo carattere mobile e aleatorio.
Le migrazioni, indotte a soddisfare la richiesta di mano d’opera meno qualificata,
spesso si fondano su passati legami coloniali e su legami commerciali o amministrativi.
Oltre a quella lavorativa, possono essere legate a ricongiungimenti famigliari, studio,
turismo, residenza elettiva e motivazioni religiose
Spesso, dietro un progetto migratorio, vi è la volontà e l’aiuto di un intero clan
famigliare che investe nella persona forte e giovane affinché questa possa affrontare il
viaggio e migliorare la sua posizione economica e, di riflesso, attraverso le rimesse,
quella della famiglia. E’ cambiata anche l’immagine di chi emigra. Non è solo lo
stereotipo del povero e disoccupato che tenta con mezzi di fortuna l‘approdo in Europa
ma da tempo si emigra anche da Paesi sviluppati, per il cosiddetto fenomeno del “brain
and skill drain”, cioè fuga di cervelli nei settori ad alta qualificazione.
Nella dimensione transnazionale e nella circolarità del processo è possibile
cogliere il nesso tra migrazioni e cooperazione.
A livello internazionale si configurano due filosofie di intervento in materia di
politiche di cooperazione internazionale, relative al nesso migrazioni-rimesse- sviluppo.
Si può parlare di un approccio centrato sul nesso tra migrazioni e sviluppo e di un
secondo approccio focalizzato sul tema della gestione dei flussi migratori. Nel primo
caso si enfatizza l’interesse e il punto di vista dei Paesi di origine dei flussi migratori e
per sviluppo si intende principalmente quello di quei Paesi, dei quali sarebbe importante
conoscere gli obiettivi strategici. Si perseguono obiettivi di breve periodo, visto la
difficoltà a ragionare su scenari a più lungo termine.
Nel secondo approccio prevale l’ottica dei Paesi di approdo dei migranti,
interessati a trovare le migliori condizioni per gestire il fenomeno, in modo vantaggioso
rispetto alla propria economia. Qui i tempi sono programmati su lunghi periodi.
Dal punto di vista economico il nesso tra migrazioni e sviluppo significa
focalizzarsi sul lato dell’offerta migratoria, riconoscendo le esigenze di mobilità alla
base di ogni processo di sviluppo. Il nesso migrazioni-gestione dei flussi guarda al lato
della domanda migratoria e vede il migrante come vittima, oggetto di discriminazione,
peso o problema quasi mai come agente di sviluppo.
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Dal punto di vista della cooperazione allo sviluppo, invece, la sfida è quella di
unire queste agende e ridurre il rischio di visioni radicali e opposte. Superare il
pessimismo di chi vede nella migrazione solo uno sfogo a politiche sbagliate e nella
cooperazione solo uno strumento compensativo al freno delle migrazioni.
Il lavoro che presento in questo elaborato, parte proprio dalla considerazione che
il fenomeno migratorio è sempre più in crescita in Italia e nel mondo e che fino ad ora
non ha trovato forme ufficiali di riconoscimento e di controllo, in modo tale che diventi
una chiave per lo sviluppo partecipato, con fondi autofinanziati dai migranti a favore
dei Paesi in via di sviluppo.
Infatti ciò che sostengo, prendendo spunto dalla parola chiave co-développement,
frutto del nuovo paradigma culturale e politico, è la centralità della figura del migrante
nel pensare e realizzare politiche e progetti di cooperazione volti a designare uno
sviluppo parallelo e sinergico dei Paesi di origine e di quelli di destinazione. Esso può
fungere da scintilla iniziale e da fattore trainante se valorizzato in politiche di
integrazione sociale che vedano in esso una risorsa umana insostituibile, conoscitore di
territori.
La gestione delle rimesse dei migranti, residenti nei Paesi sviluppati del nord del
mondo, possono divenire un aspetto rilevante per governare positivamente le
migrazioni.
Ruolo della cooperazione decentrata può essere quello d’utilizzare le transazioni
finanziarie dei migranti, per sostenere attività di cooperazione allo sviluppo (creazione
di microimpresa, microcredito) nei Paesi di origine dei migranti stessi.
Questo perché attualmente le rimesse sono una delle voci più importanti
della bilancia dei pagamenti in molti PVS:
o svolgono già una azione importante per lo sviluppo locale,
aumentando la domanda locale rispetto all'offerta produttiva;
o soddisfatta la necessità di acquisto di beni di consumo,
possono essere investite nel settore produttivo (posto che gli istituti di
credito locali concedano credito all'impresa).
Programmi di cooperazione che intendano valorizzare le rimesse dei migranti
dovrebbero dunque indurre le istituzioni bancarie e microfinanziarie a catturare il flusso
delle rimesse.
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Le agenzie locali di microfinanza dovrebbero naturalmente essere assistite nel
passaggio dalla gestione di un patrimonio finanziario locale, alla gestione, più
complessa, di flussi monetari internazionali. La cooperazione dovrebbe, inoltre, puntare
al rafforzamento delle risorse umane, delle competenze tecniche e del livello di
organizzazione interna di queste agenzie ed accompagnarle nel lancio di nuovi prodotti
finanziari per dare valore locale alle rimesse. Quindi è fondamentale rafforzare il
network tra queste organizzazioni, ad esempio integrando una banca commerciale
albanese o tunisina con convenzioni ed accordi internazionali, che serva come gradino
intermedio nel processo di canalizzazione delle rimesse, e istituti finanziari commerciali
o etici italiani.
In Italia, le comunità straniere dovrebbero essere incoraggiate a seguire questo
circuito, attraverso l'offerta di un servizio non necessariamente rapido ma sicuro,
economico e dotato di parametri standard a livello nazionale. La cooperazione
decentrata, potrebbe promuovere campagne di informazione dirette alle comunità
straniere residenti e valorizzare le ONG e le associazioni che lavorano con gli
immigranti, al fine di rafforzare il livello di fiducia e familiarità che questi ultimi
nutrono nei confronti delle organizzazioni finanziarie italiane. Un campo assolutamente
nuovo potenzialmente interessante potrebbe essere infatti il coinvolgimento delle
Istituzioni o Fondazioni bancarie nella cooperazione decentrata per la
valorizzazione delle rimesse. Le Autonomie locali possono svolgere un ruolo politico e
di incentivo importante per stimolare rapporti di collaborazione delle banche locali con
le associazioni di immigrati e con le associazioni di microfinanza.
Elemento importante da tener presente in un approccio sistemico alla questione
trattata è che nella regione del Nord Africa e del Medio Oriente il sistema bancario
islamico va acquisendo una crescente importanza. I meccanismi finanziari, sperimentati
nei programmi di microfinanza e compatibili con le indicazioni del Corano, possono
rappresentare un’interessante opportunità di sperimentazione piuttosto che essere visti
come vincolo o impedimento allo sviluppo. Il sistema bancario islamico ha accumulato
attraverso 100 istituti bancari in 45 Paesi circa 80 miliardi di dollari, con tassi di
crescita del 15% annui. Questo è stato possibile in quanto le banche islamiche hanno
cercato di eliminare ogni forma di saggio di interesse nominale fisso, vietato dal
Corano, senza compromettere il principio della remunerazione del capitale. Il profitto
viene inteso come remunerazione del rischio, derivante dall’incertezza
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dell’investimento imprenditoriale ( principio della mudaraba), visto che le banche si
pongono come socie in ogni proposta di attività e quindi con una maggiore attenzione
all’evolversi del progetto imprenditoriale. Questo favorisce il principio della
cooperazione. In questo modo è lecito il profitto purché non realizzato in condizioni di
monopolio e oligopolio, non venga fissato un tasso di interesse al momento del prestito
ma percepita la remunerazione man mano che il progetto evolve positivamente. Il
rischio per la banca è di perdere il capitale se ciò non avviene; per l’impresario il suo
tempo e denaro. Questi meccanismi sono pratiche utili per la microfinanza, in quanto
non vengono chieste particolari garanzie per il finanziamento, ma un margine di profitto
al costo senza prevedere forme di partecipazione bancaria, secondo il principio della
murabaha.
La sharia può divenire un opportunità favorevole per l’empowerment
imprenditoriale dei poveri.
E’ importante, quindi, che le amministrazioni regionali e imprenditoriali vedano
la cooperazione
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non solo come elemento per la gestione dei flussi, per motivi di
lavoro, ma anche come fattore promozionale di risorse umane e finanziarie, attraverso
cui incitare gli emigrati a prevedere occasioni di ritorno nel Paese d’origine.
L’obiettivo è restituire al migrante quel ruolo e diritto fondamentalmente
umano a vivere dignitosamente, attraverso il proprio onesto lavoro e in un luogo
reputato liberamente adatto a consumare l’esistenza.
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Per valorizzare e rafforzare azioni di cooperazione decentrate in questi anni la Direzione Generale per la
Cooperazione allo Sviluppo del Ministero Affari Esteri ha avviato una collaborazione con l’ANCI dal
Maggio 2001, sottoscrivendo un accodo quadro. In un secondo momento, dal Novembre 2002, lo stesso
tipo di accordo è stato stipulato con UPI (Unione Province Italiane).