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l’impegno per l’azienda nel voler perseguire un nuovo modo di fare profitto e nel
condividere una nuova visione del modello produttivo, nel rispetto di tutti gli
stakeholder, interni ed esterni all’impresa. L’ambiente, i dipendenti, i fornitori e i
partner commerciali, la comunità finanziaria, i consumatori diventano al tempo
stesso protagonisti e promotori di questo cambiamento di cultura d’impresa.
Il mondo della comunicazione, dunque, rispecchiando e diffondendo in un’ottica
di condivisione i capisaldi del management delle imprese, non può certo
sottrarsi a questa evoluzione che richiede, come ogni buon programma di
comunicazione, una visione progettuale nel lungo periodo.
Nonostante la Responsabilità Sociale d’Impresa sia attualmente un argomento
abbastanza conosciuto e diffuso nel mondo delle aziende, ancora oggi molte di
esse interpretano questo tipo di impegno in chiave filantropica, dimostrando di
non aver compreso pienamente la sua valenza. Spesso, infatti, si confonde la
CSR con il CRM – Cause Related Marketing – che, invece, è solo uno degli
strumenti di marketing talvolta a disposizione di un programma di CSR.
Il risultato è che spesso farsi promotori di una causa sociale o aderire
“passivamente” a delle “etichette” o a protocolli, più o meno riconosciuti, viene
ritenuto sufficiente per definire l’azienda socialmente responsabile.
Come sanno, invece, i professionisti della comunicazione, la reputazione di
un’azienda si costruisce attraverso fatti concreti e comportamenti verificabili.
Il microcredito va’ “di moda”? è il titolo provocatorio che ho voluto dare alla mia
tesi, sottointendendo un gioco di parole rispetto a Benetton: la grande
multinazionale dell’abbigliamento che ha esportato il Made in Italy in tutto il
mondo.
Benetton, infatti, nel 2008, ha utilizzato questo argomento di assoluta attualità
come tema su cui costruire la propria campagna pubblicitaria istituzionale
mondiale.
I manifesti pubblicitari, da cui tutte le maggiori città del mondo sono state
invase, non ritraevano dei modelli qualsiasi, ma alcuni lavoratori senegalesi che
hanno beneficiato di un prestito attraverso l’agenzia di microcredito Birima,
fondata da Youssou N’Dour, il cantante testimonial della campagna Benetton.
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Ancora una volta, dunque, l’azienda di Treviso ha voluto dare il proprio
contributo in termini di advocacy a favore di una issue di assoluta rilevanza per
la società e, sicuramente, di grande attualità: il microcredito, infatti, è uno degli
strumenti suggeriti dalle Nazioni Unite e dalla Commissione Europea per
combattere la povertà nel mondo.
Questo particolare meccanismo di prestito permette anche ai soggetti che non
dispongono di garanzie patrimoniali (i cosiddetti soggetti “non bancabili”) di
poter accedere ad un piccolo prestito, da investire in un’attività imprenditoriale.
Non si tratta di elemosina, dunque, ma di un aiuto concreto all’avvio di
un’attività altrimenti impossibile da sostenere nel loro Paese. Ai “poveri” non si
guarda più come a dei nullafacenti – molte culture ritengono che la condizione
di povertà sia meritata da chi la vive – ma si dà loro la possibilità di uscire con le
proprie forze dalla condizione di indigenza in cui si trovano, a partire da un
piccolo aiuto economico.
Muhammad Yunus, l’economista bangladese che viene considerato il “padre”
del microcredito, iniziò negli anni Settanta con un piccolo esperimento nel
villaggio di Yobra, adiacente al campus dell’Università di Chittagong, dove egli
insegnava. Da quell’esperienza e da molte altre successive, nacque la
Grameen Bank, ormai diventata una vera e propria banca, che agli inizi del
2008 contava circa 7 milioni di clienti e, attualmente, risulta essere diffusa in
73.000 villaggi in tutto il mondo.
Yunus nel 2006 ha ricevuto il Premio Nobel, non per l’economia, come
verrebbe naturale credere, ma per la Pace, a conferma che combattere la
povertà permetterebbe di ristabilire i corretti rapporti oltre che tra le singole
persone, anche tra i vari Stati del mondo.
Secondo Yunus, in accordo con i principi su cui si fonda il microcredito, anche i
poveri, non solo hanno capacità di risparmio ma sono in grado di restituire i
prestiti che vengono loro fatti e di reinvestire il denaro ottenuto attraverso la
propria attività in altre iniziative imprenditoriali o per il benessere della propria
famiglia.
Benetton, con “Africa Works”, ha voluto mettersi di nuovo al servizio di una
causa sociale, utilizzando il proprio brand come cassa di risonanza per questo
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tema e, nel concreto, mettendo a disposizione dei fondatori di Birima – questo è
il nome dell’agenzia di microcredito fondata da Youssou N’Dour in Senegal – le
proprie indiscutibili competenze comunicative.
Il primo messaggio chiave della campagna è stato identificato nella volontà di
sovvertire lo stereotipo dell’Africa povera e bisognosa di aiuto da parte dei
popoli occidentali e “sviluppati”. Il secondo messaggio è sicuramente da
ricercare nel voler trasmettere la convinzione che l’Africa “funziona” (traduzione
letterale del pay off della campagna pubblicitaria), se anche ad essa vengono
forniti i mezzi per iniziare a “giocare”.
L’impegno di Benetton, però, non si è limitato ad una mera azione di advocacy.
Oltre a finanziare la campagna pubblicitaria, per un totale di circa 10 milioni di
euro di investimento, l’azienda veneta ha donato a Birima una “consistente”, ma
non ben identificata, cifra per sostenere lo start up dell’agenzia, ammettendo,
però, di non essere più coinvolta nel progetto a partire dal termine della
campagna pubblicitaria.
Ecco il perché del titolo: sorge il dubbio, infatti, che il microcredito sia stata
un’onda “cavalcata” per la sua attualità, allo scopo di mettere in mostra più
l’azienda come marchio commerciale che il vero progetto sociale sottostante.
Associando il proprio nome a questa causa e rendendosi protagonista
dell’intera campagna con evidenti azioni di comunicazione, l’azienda pare aver
fatto abbastanza e si perdono le tracce di un reale impegno nell’iniziativa nel
tempo.
Tutto ciò trova una parziale conferma se guardiamo i “precedenti” di Benetton a
livello di impegno sociale: a parte le svariate campagne di comunicazione a
carattere sociale e la stesura di un Codice Etico, di cui l’azienda si è dotata nel
2003, essa non risulta essere coinvolta in nessuna iniziativa concreta di CSR.
Anzi, nel 2004 Benetton è stata esclusa dagli indici per l’investimento
socialmente responsabile FTSE4Good, che misurano le performance
finanziarie delle società che hanno dimostrato una particolare attenzione alla
concreta responsabilità sociale. L’esclusione è stata motivata con il fatto che
l’azienda non rispondeva più ai criteri riguardanti le politiche ambientali, sociali,
di rapporto con gli stakeholder e di rispetto dei diritti umani.
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Benetton, peraltro, come molte altre multinazionali, è oggetto da molti anni di
azioni di boicottaggio, che la vedono imputata perché colpevole di vari misfatti
apparentemente “nascosti”, sfruttando la propria immagine di azienda
socialmente attenta, derivante dalle sue storiche campagne pubblicitarie.
L’idea è quindi che, seppur Benetton si sia lodevolmente impegnata nello
stimolare la sensibilità del pubblico verso temi socialmente importanti, più che
far parlare di sé attraverso una campagna di comunicazione, l’azienda
dovrebbe impegnarsi in un serio progetto di responsabilità sociale d’impresa;
innanzitutto lavorando sulla propria etica di business e sulla formazione del
proprio management in chiave socialmente orientata ed, in secondo luogo,
considerando realmente i propri stakeholder come interlocutori primari con cui
confrontarsi e a cui render conto delle proprie attività.
L’opinione che attualmente alcuni stakeholder dell’azienda hanno di
quest’ultima non è affatto quella di un’impresa rispettosa del contesto sociale in
cui opera: le varie voci che compongono il panorama degli atteggiamenti nei
suoi confronti sono assolutamente discordanti in materia. Alcuni di essi sono
stati intervistati nel corso di questo elaborato.
Benetton, invece, seguita a considerarsi, attraverso le parole dei suoi manager
– primo tra tutti l’attuale vicepresidente Alessandro Benetton – e tramite le
proprie azioni di comunicazione, un’azienda socialmente responsabile e attenta
ai valori dei contesti in cui opera.
Tenendo presente che la reputazione di ogni azienda passa, però, proprio
attraverso le voci che i suoi stakeholder e l’opinione pubblica sostengono oltre
che le relazioni che l’azienda stessa “coltiva” con essi, si è ritenuto opportuno
delineare uno scenario in cui Benetton potesse essere esaminata proprio dal
punto di vista del proprio reale impegno etico nei confronti della società e dei
contesti in cui opera.
All’atto pratico, la mia tesi tende a dimostrare che forse è vero esattamente
l’opposto di quello che l’azienda sostiene davanti all’opinione pubblica. In
particolare, come ammesso in seguito dalla voce di Benetton stessa, il suo
impegno sociale si limiterebbe ad un ruolo di advocacy rispetto a cause sociali
perseguite da enti ed organizzazioni impegnate realmente, come
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tradizionalmente è stato fatto nel corso di tutti questi anni e comunicato con
altre campagne pubblicitarie.
L’obiettivo del mio lavoro, dunque, è stato quello di analizzare l’azienda veneta
da un punto di vista esterno e il più possibile “smaliziato”, con l’intenzione di
indagare il reale coinvolgimento di Benetton a livello sociale, senza il
condizionamento emotivo derivante dalle campagne di comunicazione
dell’azienda.
Nello specifico, al fine di permettere una precisa comprensione dell’argomento,
ho ritenuto opportuno, innanzitutto, dedicare il primo capitolo del mio lavoro alla
storia di Benetton, a partire dalla sua nascita negli anni Sessanta fino ad
arrivare ai nostri giorni ad essere considerata, nel settore dell’abbigliamento, il
simbolo del Made in Italy accessibile a tutte le tasche.
Un nodo critico è stato attribuito alla collaborazione dell’azienda con Oliviero
Toscani, che, attraverso il suo lavoro, ha realmente contribuito alla costruzione
della reputazione di cui l’impresa gode tuttora.
Il primo capitolo consiste, dunque, in una communication audit, volta a far
emergere personalità, identità, missione e immagine dell’impresa, nonché ad
analizzare nello specifico la sua comunicazione istituzionale e tutti gli altri tipi di
comunicazione utilizzati sinora.
Per sgombrare il campo dalla confusione che si percepisce riguardo il tema
della Corporate Social Responsability (CSR), ho dedicato il secondo capitolo
della mia tesi ad una puntuale analisi dello stato dell’arte di questo settore.
Partendo, quindi, dalla definizione data dalla Comunità Europea della
Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI) e dai principi che sottendono la
questione, ho delineato le diverse posizioni rispetto a questa issue nel
panorama italiano, europeo e mondiale, approfondendo le norme emerse
durante il duro cammino della CSR e le varie istituzioni che via via hanno
trattato e deliberato all’interno di questo delicato contesto. Inoltre, ho ritenuto
opportuno far emergere il ruolo di spicco rivestito, rispetto a questo argomento,
dai consumatori, che sono al tempo stesso i destinatari e gli “iniziatori” di questo
modus operandi in comunicazione. Se il consumatore, infatti, non fosse
divenuto, con il passare del tempo e con il generale miglioramento delle
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condizioni di vita, sempre più “critico” ed esigente, le aziende probabilmente
non avrebbero mai posto così tanta attenzione all’aspetto etico del proprio
modo di fare profitto. Da ultimo, ho inserito l’analisi ed il commento ai più
efficaci e utilizzati strumenti di comunicazione, attualmente impiegati nel
contesto della CSR, nonché le linee guida per sviluppare un serio piano
strategico di comunicazione sociale.
Dopo aver messo a disposizione del lettore tutti gli strumenti necessari per
comprendere cosa significhi intraprendere un percorso nell’ambito della RSI, ho
approfondito, nel terzo capitolo, l’attuale situazione etica di Benetton ed il
legame che essa pare avere con la reputazione dell’azienda.
Quest’ultima, com’è noto, è un fattore solido, sostanziale e duraturo, frutto di un
lungo e coerente lavoro operato soprattutto sui concreti comportamenti e sulle
relazioni che l’impresa stabilisce con i suoi stakeholder e che, per questo
motivo, non si può costruire attraverso una semplice campagna di
comunicazione. Per un’analisi obiettiva della reputazione di Benetton, ho
raccolto materiale proveniente da varie fonti, il più possibile eterogenee:
interviste sia precedentemente pubblicate sia effettuate personalmente ad
esponenti particolarmente rilevanti ai fini del mio lavoro, pubblicazioni
accademiche, letteratura, ma anche commenti provenienti dal mondo dei
blogger, che nell’epoca del web 2.0 rivestono un ruolo decisamente importante
a livello di costruzione di opinioni ed atteggiamenti nei confronti delle aziende.
In particolare, per dare un’idea quanto più oggettiva possibile della realtà, ho
ritenuto corretto dar voce sia a Benetton, nella persona di Paolo Landi, Direttore
della Comunicazione Pubblicitaria dell’azienda, sia a coloro che si sono fatti
portavoce di posizioni “contro” l’azienda stessa, nello specifico Ersilia Monti del
Coordinamento Nord/Sud del Mondo – un’associazione di consumatori “critici” –
e Pericle Camuffo, autore del libro United Business of Benetton. Lo sviluppo
insostenibile dal Veneto alla Patagonia. Ognuno di loro, sulla base di domande
specificatamente proposte per indagare la questione, ha argomentato la sua
visione della realtà e la propria posizione in merito. Il risultato è stato un quadro
d’insieme che ha fotografato la situazione, quantomeno controversa, in cui
l’azienda si trova. Utilizzando, poi, come riferimento i fondamentali sulla CSR
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emersi nel capitolo 2, ho cercato delle conferme a livello normativo
dell’impegno etico di Benetton, per esempio in termine di adesione a progetti od
iniziative socialmente responsabili o, ancora, l’utilizzo da parte dell’azienda di
strumenti di comunicazione di CSR.
Forte di questa indispensabile e chiarificatrice analisi preliminare, infine, ho
affrontato l’ultimo capitolo del mio lavoro, dedicato nello specifico all’analisi
critica della campagna istituzionale 2008 di Benetton, intitolata “Africa Works”.
Partendo da una sintetica esposizione della tematica affrontata nella campagna
pubblicitaria – il microcredito – ed illustrando l’importanza di questa iniziativa nel
mondo globalizzato, ho proseguito scorporando il piano di comunicazione di
“Africa Works”, analizzando passo passo ogni singola iniziativa proposta. Per
ognuna di esse, ho svolto un’accurata descrizione, indagando il target di
riferimento, ovvero lo stakeholder o pubblico influente a cui l’azione
comunicativa era diretta. In ultimo, grazie all’aiuto di Giorgio Conconi,
responsabile dell’Area Progetti di CeLim – una Ong che di occupa anche di
microcredito in vari Paesi in via di sviluppo – ho approfondito l’analisi del vero e
proprio progetto di microcredito, che ha visto il coinvolgimento, diretto ma
“lampo”, di Benetton.
Ogni capitolo è stato affrontato utilizzando una specifica metodologia.
Per la communication audit implementata nel primo capitolo, il paradigma di
riferimento adottato è stato quello proposto da Ruotolo, Ferrari e Vigliani
(2006), il cui scopo è far emergere l’essenza dell’azienda – personalità, identità,
missione ed immagine – nonché valutare la quantità e la qualità della
comunicazione emessa e gestita da essa.
Nel secondo capitolo, l’approccio è stato decisamente bibliografico e didattico,
al fine di fotografare, attraverso il confronto di diverse fonti, lo stato dell’arte
sulla CSR, facendo emergere punti di forza e lacune di questo “nuovo” modo di
comunicare le imprese.
Il terzo capitolo è un confronto tra l’azienda e il panorama normativo attuale,
così da evidenziare quanto realmente fatto dall’impresa a livello di impegno
sociale. Inoltre, le interviste a Paolo Landi, Ersilia Monti e Pericle Camuffo sono
state condotte seguendo un approccio analitico, cercando quanto più possibile
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di far emergere le tematiche calde sia rispetto all’argomento sia nei confronti
dell’azienda.
Da ultimo, il capitolo dedicato alla campagna è stato affrontato principalmente
tenendo presente il metodo GOREL (Governo delle Relazioni) proposto da
Muzi Falconi (2005) come quadro di riferimento ed analisi delle relazioni che
un’azienda intraprende con i propri stakeholder e pubblici influenti.
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CAPITOLO 1 – BENETTON: L’AZIENDA
Il primo passo del mio lavoro non può che rivolgersi all’azienda.
Ai fini di una corretta comprensione dell’argomento, ho ritenuto fondamentale
analizzare Benetton attraverso una dettagliata communication audit.
Lo scopo di questo lavoro preliminare è di mettere sul tavolo tutto ciò che è
stato l’operato dell’azienda fin dai primi passi e capirne l’evoluzione nel corso
degli anni, parallelamente al mutare del ruolo del consumatore.
Per iniziare, alcuni numeri: oltre 150 milioni di capi l'anno prodotti, oltre 2
miliardi di euro di fatturato totale e una rete commerciale che conta circa 5.800
negozi moderni nel mondo, situati in posizione privilegiata nei centri storici e
commerciali.
Queste sono le cifre che rendono immediatamente l’idea di chi sia Benetton
oggi, una delle più conosciute realtà economiche italiane che da anni esporta il
made in Italy in tutto il mondo.
Il suo core business è il settore della moda: una consolidata identità italiana di
stile, qualità e passione che si riflette nei marchi
- United Colors of Benetton, casual;
- Sisley, più orientato al glamour;
- Playlife, con uno stile da American college;
- Killer Loop, streetwear.
Dalla metà degli anni Ottanta, l'azienda ha la sua sede strategica a Villa Minelli,
situata a Ponzano Veneto, a circa 30 Km da Venezia: un complesso di edifici
del XVI secolo di grande interesse storico e culturale, acquistato dal Gruppo
Benetton nel 1969 e affidato al restauro e alla modernizzazione degli architetti
Afra e Tobia Scarpa.
Il Gruppo Benetton è oggi quotato presso le Borse di Milano e Francoforte.