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secolo, con la nascita della psicologia scientifica, era oggetto di un gran
numero di sperimentazioni, che venivano condotte proprio per mezzo
del metodo introspettivo, al tempo ritenuto l’unico metodo di
investigazione valida del fenomeno “coscienza”. Eppure, nei primi
decenni del XX secolo, con l’affermarsi del paradigma
comportamentista in ambito psicologico, lo studio della coscienza ha
subito una sorta di eclissi, e con esso l’utilizzo del metodo introspettivo:
la causa fu lo spostamento dell’attenzione, da parte degli psicologi,
verso il comportamento, che a lungo fu considerato l’unico oggetto che
potesse fornire alla psicologia lo status di scienza naturale a tutti gli
effetti. Il comportamentismo ha segnato un’epoca della psicologia,
costituendo una sorta di dogma di riferimento per chiunque tentasse di
avvicinarsi a tale disciplina.
Negli anni Settanta, cominciò quella che, da molti, viene oggi
considerata la rivoluzione cognitiva: l’approccio puramente
comportamentista non sembrava rendere giustizia a tutte le
manifestazioni che è possibile osservare nel comportamento umano, e
diveniva sempre più pressante l’esigenza di definire delle strutture
interne della vita mentale; l’idea sottesa era che esistessero dei processi
esclusivamente mentali, non interpretabili in termini di semplici
comportamenti, quali la memoria, la pianificazione, l’associazione, e via
di seguito.
Comunque, anche in quegli anni, mentre l’interesse principale era
lo studio della cognizione, l’argomento “coscienza” era ancora
considerato come “qualcosa di mistico, di pertinenza dei filosofi, più che
un tema scientifico”
1
.
È soltanto all’inizio degli anni Novanta, che nel campo delle
neuroscienze si è potuto assistere ad un rapido incremento degli studi
scientifici sul tema della coscienza, tanto che tale decennio è stato
indicato, dalla comunità scientifica internazionale, come il “Decennio
del Cervello”.
1
Da un’intervista di Sergio Benvenuto a Francisco Varela, “La coscienza nelle
neuroscienze” rilasciata per l'Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.
7
Sullo sfondo di questo interesse stanno certamente i recenti
sviluppi della ricerca scientifica, specie in campo neurobiologico, che
mettono a disposizione spettacolari, e spesso sorprendenti, risultati
circa i modi con cui il cervello rende possibili il pensiero e l'azione. Ma è
soprattutto sul piano dell'analisi concettuale che, gli ultimi anni hanno
segnato un indubbio approfondimento delle implicazioni filosofiche
legate al fenomeno, familiare quanto misterioso, dell'esperienza
cosciente. Il problema della conoscibilità scientifica della coscienza
appare essere il filo conduttore di approcci e tematiche per altri versi
caratterizzati da una marcata eterogeneità.
La comprensione del cervello sembrerebbe rappresentare, quindi,
l’attuale sfida della ricerca scientifica; e conseguentemente, anche
l’attenzione, per anni abolita, nei confronti del metodo introspettivo, ha
gradualmente ripreso piede in ambito neuroscientifico.
In particolare, il problema della coscienza viene analizzato, in base
ad una nota indicazione fornita da David Charlmes, come se in realtà
fosse costituito da due “problemi”: uno relativamente facile; l'altro
difficile.
Il primo è il “problema” della costruzione di modelli neurobiologici
relativi ai processi deputati all’elaborazione del pensiero cosciente. Si
tratta di un compito, certamente arduo sul piano empirico, ma che di
per sé non sembra implicare insormontabili difficoltà filosofiche.
Il problema difficile, (l’ hard problem), risulta essere molto più
complesso: la questione che pone è quella di spiegare il rapporto tra i
processi neurobiologici e cognitivi, e l'esperienza vissuta in prima
persona. Il dibattito che concerne la natura di tale rapporto è, in questi
ultimi tempi, piuttosto acceso: a fianco di chi ritiene che la soluzione
dell'hard problem cada al di fuori delle possibilità della scienza, c'è chi,
adottando una strategia diversa, si affanna a negare l'esistenza stessa
di un hard problem e, (come Dennett), ritiene che postulare una
nozione irriducibile di coscienza "vissuta" sia postulare una sorta di
omuncolo che nella nostra testa pensa i nostri pensieri; ci sono autori
che arrivano ad affermare che la soluzione dell'easy problem porterà
8
con sé la soluzione dell'hard problem; ed infine chi, pur riconoscendo
l'esistenza di un "salto epistemologico" che separa l'approccio
fenomenologico da quello fisico allo studio della mente, si ingegna poi
nel postulare verità che riescano a colmarlo
2
.
Presenterò tali questioni nella seconda parte della mia tesi, che ho
intitolato “L’introspezione nello studio dell’esperienza cosciente”.
Com’è noto, la scienza è permeata dalla procedura e dalla
regolazione sistematica che va sotto il nome di metodo scientifico, che
permette la costruzione di un corpo di conoscenze condivisibili riguardo
agli oggetti naturali. Per quanto riguarda lo studio della coscienza in
campo scientifico, vengono a delinearsi due tipologie di approccio: una
denominata il “terzo canale”, che si rifà prettamente al metodo
scientifico classico; una denominata “primo canale”, che considera la
possibilità di utilizzare i resoconti in prima persona all’interno della
ricerca sperimentale. Quel che potremmo considerare oggettivo
riguardo la trasmissione delle conoscenze e la condivisione delle
esperienze, è ciò che possiamo tradurre dai resoconti individuali entro
un corpo di conoscenze regolate. Questo corpo di conoscenze è
inevitabilmente in parte oggettivo, dal momento che è costretto e
regolato dai fenomeni empirici, naturali, ma è in parte anche soggettivo,
dal momento che dipende dall’osservazione e dall’esperienza
individuale.
La meta dell’utilizzo dell’introspezione dovrebbe essere quella di
provvedere ad un’accurata descrizione dell’esperienza; ma per far
questo, come ogni metodologia, richiede un numero di fattori che va
controllato.
Quando l’evidenza introspettiva viene interpretata come
un’evidenza direttamente correlata all’attività dei processi cognitivi,
2
(per avere un’idea delle molteplici reazioni suscitate dalla distinzione tra hard e
easy problem si veda il volume Explaining Consciousness - The Hard Problem, saggio
in cui Chalmers difende questa distinzione, corredato da 26 ulteriori scritti di
commento).
9
allora è facile sostenere e validare tale evidenza in base ai metodi
classici di oggettivazione, propri del metodo scientifico.
Quando l’evidenza introspettiva viene interpretata più
direttamente, come un’evidenza che riguarda la struttura stessa
dell’esperienza soggettiva, le misure oggettive non possono servire per
misurarne la validità. In questo caso è possibile cercare un’evidenza
convergente che fornisca supporto per verificare o falsificare
l’accuratezza dei rapporti introspettivi riguardo l’esperienza.
Esistono numerose ragioni per credere nell’accuratezza del
rapporto introspettivo e saranno queste che cercherò di illustrare in
questo mio lavoro, ed in particolare nella seconda parte della tesi.
L’utilizzo dell’introspezione potrebbe fornire una modalità efficace
d’intervento, per accedere ad informazioni che riguardano direttamente
lo stato interno dei soggetti nell’immediato della situazione
sperimentale; per annotare considerazioni relative alle loro emozioni, ai
loro stati di concentrazione mentale; per sottolineare i passaggi
implicati durante lo svolgimento delle loro azioni, le strategie cognitive
che mettono in atto, la fiducia che ripongono in se stessi come abili
pensatori; per cercare di supervisionare le immagini mentali durante i
compiti di rotazione o manipolazione delle immagini mentali, e nel
tentativo di stabilire i focus attentivi.
Purtroppo, in alcuni casi, è ancora come se il metodo introspettivo
fosse in competizione con il metodo oggettivo; il mio tentativo è proprio
rivolto a cercare di contestare questa visione, cercando di dimostrare
che la prospettiva soggettiva-esperienziale, coinvolta nella formulazione
dei resoconti introspettivi riguardo l’esperienza, può essere considerata
parte integrante della metodologia standard della scienza cognitiva.
In sintesi, prima di passare a trattare il tema della mia tesi, quello
del metodo introspettivo, nella sua evoluzione e nelle sue future
prospettive di utilizzo, potrei azzardare col dire che questa tesi parte
dalla domanda che la filosofia della mente pone alle neuroscienze, nel
tentativo di un’integrazione feconda tra due aspetti fondamentali della
vita mentale: quelli relativi, prettamente, alla fisiologia dell’attività
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cerebrale e quelli relativi all’aspetto più “reale” di questa attività:
l’esistenza stessa dell’individuo, nel suo contesto e nelle sue espressioni
dirette.
11
PARTE I
L’INTROSPEZIONE
TRA FILOSOFIA E PSICOLOGIA
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Il termine “introspezione” deriva etimologicamente da due parole
latine, spicere (guardare), e intra (dentro), e si riferisce all’osservazione
diretta dei processi psichici da parte dell’individuo.
Ripercorrendo il corso della storia, è difficile risalire con esattezza
alla “nascita” del metodo introspettivo. Probabilmente fu Sant’Agostino
il primo a far riferimento all’introspezione come metodo, dato che nel
De Trinitate, pur non utilizzando questo termine, ammette che sia
possibile volgere l’attenzione verso se stessi, al fine di generare una
fonte essenziale di conoscenza.
In realtà, volendo tornare ancora più indietro nella storia della
filosofia, i primi riferimenti relativi alla possibilità di riflettere sui propri
stati mentali, possono essere riscontrati anche nell’opera di Aristotele.
Ma è forse a Descartes che dobbiamo attribuire la nascita della prima
concezione di introspezione, in termini espliciti.
Nel XVII secolo l’indagine scientifica cominciava a fornire le prime
dimostrazioni della propria efficienza nel produrre conoscenze, e si
rendeva ormai necessario giungere ad una giustificazione della comune
fiducia che veniva riposta nella capacità della ragione di fornire l’esatta
conoscenza del mondo e delle cose. Era sorta l’esigenza di accertarsi
che le conoscenze messe appunto attraverso le diverse indagini
scientifiche, conducessero ad un sapere coerente e fecondo. Le
riflessioni di Descartes partirono quindi dall’esigenza di discutere i
limiti dell’intelligenza umana e di scoprire una giustificazione metafisica
alla ragione, per determinare la veridicità delle conoscenze fino ad
allora acquisite dal genere umano.
Descartes elaborò la fondamentale distinzione tra res cogitans
(sostanza pensante, anima) e res extensa (sostanza estesa, materia) e
separò così nettamente le cose presenti nell’anima (le idee soggettive)
dalle cose reali, corporee (che compongono il mondo oggettivo). Egli
riteneva, in pratica, che nell’uomo vi fosse una parte pensante, fatta di
idee, ed una parte corporea, fatta di pura materia. Questo “suo”
dualismo fu accolto dai primi entusiasti seguaci come il “nuovo
aristotelismo”, capace di offrire, alla nuova scienza quantitativa della
13
natura, una base altrettanto salda ed efficace, quanto lo era stata
quella offerta dall’aristotelismo alla filosofia nei secoli precedenti,
durante il medioevo.
Secondo Descartes la mente acquisisce conoscenza del mondo
attraverso la riflessione, che è in grado di operare su se stessa e sulle
rappresentazioni presenti nel mondo delle idee. Il metodo proposto da
Descartes per produrre “vera” conoscenza, si fonda su quattro regole:
1. La “regola dell’evidenza”, secondo la quale non deve
essere mai data per vera alcuna cosa che non sia direttamente
evidente;
2. La “regola dell’analisi”, secondo la quale è necessario
scomporre le asserzioni complesse, fino a giungere agli elementi
ultimi che le costituiscono;
3. La “regola della sintesi”, secondo la quale è
necessario ricomporre gli elementi ultimi raggiunti, così da
scoprire in quale maniera essi si colleghino tra loro nelle
asserzioni complesse;
4. La “regola dell’enumerazione”, secondo la quale è
necessario ripercorrere continuamente tutte le singole verità
conseguite nell’indagine, per poterle abbracciare
simultaneamente in uno sguardo complessivo.
Tutte e quattro queste regole mirano a cogliere, con la massima
chiarezza e distinzione possibile, ogni verità che costituisce il nostro
sapere; esse non portano automaticamente alla verità assoluta, ma ci
permettono di acquistare una piena consapevolezza dei singoli passi in
cui si snoda la nostra ricerca scientifica; la garanzia che forniscono al
nostro sapere, risiede interamente nell’evidenza dei risultati raggiunti.
Quindi, per produrre “vera” conoscenza scientifica occorre, secondo
Descartes, fornire una comprensione esatta di ciò che è proprio
dell’anima e di ciò che è proprio del corpo, tenendo ben distinti tra loro
lo studio dell’una dallo studio dell’altra. Data la considerazione che egli
attribuiva alla capacità dell’essere umano di interrogare se stesso al
14
fine di produrre conoscenza, possiamo considerare Descartes uno dei
pionieri del metodo introspettivo.
Inoltre, nella seconda metà del XVII secolo, Descartes non era
l’unico sostenitore dell’introspezione: non a caso William Lyons, nel suo
libro La scomparsa dell’introspezione, definisce questo periodo come l’
“età dell’oro dell’introspezione”. Infatti, anche filosofi come Locke e
Hume, esponenti dell’empirismo inglese, che si ponevano in netto
contrasto con la filosofia cartesiana nel ricondurre la fonte della
certezza all’esperienza sensibile stessa, ammettevano la possibilità della
mente di riflettere su se stessa, identificandone apertamente la capacità
di individuare e conoscere, attraverso questa riflessione, i principali atti
intellettivi e volitivi; il procedimento dell’interrogazione dell’esperienza,
con cui gli empiristi costruirono la loro psicologia empirica come teoria
della conoscenza, era per l’appunto, di natura introspettiva. Inoltre,
perfino il più grande avversario del dualismo cartesiano di quel periodo,
il filosofo materialista Thomas Hobbes, investì l’autoriflessione del ruolo
di strumento privilegiato per arrivare a conoscere la psicologia umana.
In realtà, fino a quasi tutto il XVIII secolo, il problema della validità
della conoscenza delle attività mentali, quindi il problema
dell’introspezione, non si poneva: era dato per scontato che la mente
potesse conoscere le proprie operazioni. Fu Kant a stabilire le
condizioni di validità della conoscenza e, quindi, a sollevare il problema
del metodo. In particolare, Kant sollevò tre argomentazioni contro la
possibilità di utilizzare il metodo introspettivo come fonte attendibile di
conoscenza, e, di conseguenza, anche sulla possibilità della psicologia
stessa di elevarsi a scienza: la prima si riferiva all’impossibilità di poter
applicare ai fenomeni del senso interno i principi della matematica,
dato che questi fenomeni vengono costruiti nella pura intuizione
interna e di conseguenza possiedono un’unica dimensione di
riferimento, il tempo; il secondo punto sollevato da Kant si riferiva al
fatto che gli oggetti dell’osservazione interna non sono separabili tra
loro se non idealmente, in quanto transitori, né possono essere
ricombinati tra loro a volontà, come richiesto dal metodo sperimentale,
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né si può avere la certezza che sia possibile sottoporre un altro soggetto
pensante alle particolari condizioni richieste della ricerca sperimentale;
infine, la terza ed ultima contestazione di Kant si riferiva al fatto che la
stessa osservazione altera e deforma in sé lo stato dell’oggetto
osservato, riferendosi a limiti connessi con la stessa natura umana.
Con queste obiezioni, Kant stabilisce dei punti con cui dovranno
successivamente confrontarsi tutti gli studiosi che intenderanno
promuovere una psicologia scientifica.
Uno dei primi tentativi di rispondere alle argomentazioni sollevate
da Kant, può essere riscontrato nel lavoro di Herbart, il quale accolse la
seconda obiezione, concordando con il fatto che la psicologia non
potesse costituirsi come scienza sperimentale, ma respinse le altre,
affermando che essa comunque poteva essere considerata una scienza
empirica, basata sui risultati dell’osservazione interna e
dell’osservazione esterna, se condotte sistematicamente. Soprattutto
Herbart riteneva che non fosse vero che i fenomeni mentali
possedessero una sola dimensione, ossia il tempo, ma gliene attribuiva
perlomeno un’altra: quella dell’intensità. Avvalendosi di tali
considerazioni, Herbart costruì una vera e propria teoria matematica
delle interazioni tra le unità fondamentali dei fenomeni mentali, le
rappresentazioni. L’impossibilità di verificare sperimentalmente la
validità delle leggi formulate da Herbart, rese in realtà vano il suo
tentativo; ma con il suo lavoro aprì la strada a nuove concezioni e nuovi
spunti che servirono ai pionieri della psicologia sperimentale per
stabilirne le basi.
Anche Comte emise, come Kant, un verdetto negativo sulla
possibilità della psicologia di elevarsi a scienza. Comte, che si rifaceva
alle concezioni elaborate da Gall nella sua dottrina delle localizzazioni
cerebrali delle funzioni psichiche, la frenologia, riteneva possibile
concepire di fatto che l’uomo potesse osservare in se stesso i fenomeni
affettivi, in quanto riteneva che gli organi sede delle passioni fossero
anatomicamente distinti dagli organi sede dei processi intellettuali; ma
riteneva del tutto impossibile osservare i fenomeni intellettuali nel loro
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decorso, dato che essi avrebbero luogo nello stesso organo deputato
all’attività osservativa. Quindi, la prima obiezione di Comte alla
possibilità di condurre un’introspezione era estremamente radicale:
l’introspezione non può avere luogo a causa dell’identità esistente tra
osservatore ed osservato, che implicherebbe una scissione del tutto
implausibile: “Colui che pensa non può sdoppiarsi in modo che una
parte ragioni, mentre l’altra contempla la prima che ragiona”
3
. Ma
Comte non si limitò a questa considerazione: infatti, nella seconda
obiezione che avanzò, contro l’ipotesi di considerare l’introspezione
come valido metodo per studiare gli eventi mentali, sostenne che,
ammesso sia possibile condurre un’introspezione, i dati elaborati da
essa risulterebbero inutili per la psicologia, in quanto contraddittori e
limitati ai soli fenomeni affettivi. Comte, riteneva che le funzioni
psichiche dovevano essere studiate in rapporto ai loro organi, quindi
direttamente dalla fisiologia; al massimo, nei loro prodotti obiettivi più o
meno durevoli, le funzioni psichiche potevano essere oggetto di studio
della “storia naturale dell’uomo reale”, che Comte proponeva di
sostituire alla psicologia.
Un altro autore che riteneva assai arduo il tentativo della
psicologia di elevarsi a scienza fu A.A. Cournot; però la sua critica ai
problemi metodologici della psicologia può ritenersi ispirata da un
positivismo più maturo, rispetto quello proposto da Comte. Secondo
Cournot, il motivo per il quale non si era ancora ottenuto, nel campo
dell’osservazione psicologica, un metodo paragonabile a quello delle
scienze naturali, era da riferire alla natura stessa dei fenomeni
osservati; si trattava, infatti, secondo lui, di fenomeni transitori,
inafferrabili nelle loro continue trasformazioni, a cui attribuiva un
elevato grado di complessità ed intensità. Al metodo della psicologia
mancava, a suo parere, il requisito scientifico indispensabile affinché i
risultati dell’introspezione fossero indipendenti dalla particolare
costituzione e attitudine dell’osservatore; inoltre, tali osservazioni
3
A. Comte, Cours de philosophie positive, Paris, Bachelier, 1830-1842, vol. I, p.36 –
questa citazione è tratta da W. Lyons, La scomparsa dell’introspezione, 1993, p.28.
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introspettive non potevano essere fatte e ripetute in condizioni
esattamente definite in modo da riprodurre risultati costanti.
J. S. Mill, fu uno dei primi a tentare una replica in relazione a tali
argomentazioni sull’impossibilità della psicologia di elevarsi a scienza.
In particolare, rispose alle obiezioni sollevate da Comte, sostenendo che
di fatto la coscienza può non solo percepire più di un’impressione alla
volta, ma anche prestarvi attenzione. Certo che l’attenzione divisa su
più elementi potrà chiaramente apparire più debole; ma ciò potrebbe
costituire una difficoltà insita nel metodo introspettivo, di fatto non una
sua vera e propria impossibilità d’applicazione. Nella sua critica a
Comte, Mill osservò che, anche se l'osservazione interna risulterebbe
estremamente ardua da attuare, a causa degli stati psichici che sono in
atto, essa sarebbe senz'altro praticabile, attraverso la memoria, almeno
per quanto concerne gli stati psichici appena passati che, per così dire,
sono ancora “freschi” nella nostra mente. Mill riteneva, cioè, che fosse
possibile una retrospezione, ossia un’osservazione della riproduzione
mnemonica di un processo psichico. Tuttavia ammetteva che i risultati
cui questo metodo di osservazione “retrospettiva” poteva condurre
fossero ancora lungi dall'essere certi e attendibili. La memoria, come è
noto, spesso ci inganna, e questo diventa più verosimile quando si
tratta di richiamare alla mente un nostro stato psichico, nei confronti
del quale è assai difficile porsi in un atteggiamento distaccato.
Inoltre, all’interno della coscienza, Mill riconosceva l’esistenza di
contenuti rappresentativi in relazione tra loro e riteneva che l'oggetto
della psicologia fosse costituito da “uniformità di successione”, ossia da
unità di base secondo le quali uno stato mentale succede ad un altro, e
dalle leggi che regolano tali successioni di stati mentali. Le leggi
psicologiche si collocano su diversi livelli di astrazione. Troviamo
anzitutto, su un piano di massima generalità, quelle leggi che hanno
applicazione nell'intero dominio della vita mentale, prescindendo da
ogni possibile suddivisione dei fenomeni psichici e da qualsiasi
differenza individuale. Le leggi dell'associazione, la legge secondo cui
ogni idea è preceduta da un'impressione, sono esempi di questo tipo di
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leggi generali. A partire da questo primo livello, la ricerca psicologica
dovrà dirigersi verso tematiche sempre più complesse e particolari,
pervenendo alla determinazione di leggi sempre meno generali. Si
incontreranno qui, ad esempio, le leggi che regolano la successione
delle sensazioni. A sostegno delle argomentazioni di Mill furono
elaborate tutta una serie di ricerche sperimentali successive, che
tentavano di individuare il numero di elementi che possono essere
oggetto d’attenzione simultanea da parte di un individuo, che
andrebbero a costituire il suo “campo di coscienza”.
È sulla scia di queste considerazioni che venne sviluppandosi la
prima concezione relativa alla psicologia sperimentale.