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Nel commercio internazionale del pesce il tonno risulta essere il secondo prodotto più
scambiato: circa il 10% delle esportazioni mondiali di pesce è rappresentato da tonno
con il 7% circa rappresentato da tonno congelato e la restante parte da tonno in scatola.
Ma dalla seconda metà degli anni ’80, il tonno sta diventando un prodotto ittico sempre
più prezioso: non solo perché vi è una maggiore richiesta di prodotto inscatolato dovuta
all’affermarsi sempre più di una cultura del fitness, che fa del pesce azzurro in generale
un alimento insostituibile ma soprattutto perché si sono spalancati nuovi ed inaspettati
mercati particolarmente in Oriente, grazie anche all’elevata velocità raggiunta dalle
comunicazioni. Difatti in paesi come il Giappone, in cui viene assorbita la maggior
parte del mercato mondiale di tonno, vi è una gran richiesta di questo pesce, considerato
un’autentica prelibatezza. È senza dubbio a causa di ciò che si deve il risorgere in quegli
anni delle tonnare sulcitane di Portoscuso e Carloforte, il cui successo ha portato nel
1996 al ripristino della tonnara di Stintino.
1.2 Offerta e domanda di pesce
La lenta discesa dell’offerta di pesce è iniziata nel periodo 1997-1998 e probabilmente
continuerà per alcuni anni. La principale ragione è la riduzione delle catture marine
nonché un lento tasso di crescita della produzione in acquacoltura cominciatosi a
registrare dagli inizi degli anni ’90. A queste ragioni va aggiunta quella consistente nei
negativi impatti provocati da El Niño che si sono cominciati a sentire con una certa
rilevanza a partire dal 1997. L’offerta risentirà anche della caduta della domanda dei
prodotti dell’acquacoltura che si avrà nei prossimi due o quattro anni nelle economie
asiatiche.
Passando al medio periodo, la FAO nel 1995, sulla base dei dati dell’offerta e della
domanda dal 1992, previde un incremento dei prezzi reali del pesce per i successivi 15
anni. Nel 1998 si è resa necessaria una revisione di tale previsione perché si era capito
che la domanda non sarebbe cresciuta rapidamente come si era previsto nel 1995,
mentre l’offerta sarebbe aumentata molto più rapidamente di quanto previsto e dopo
alcuni mesi di relativa stagnazione avrebbe ripreso ad aumentare a partire dall’anno
2000, il che avrebbe rallentato la spinta verso l’incremento dei prezzi reali.
La previsione di una minore rapidità nella crescita della domanda era frutto del fatto che
la popolazione era cresciuta meno rapidamente di quanto si era a suo tempo pensato
mentre quella di una maggiore velocità nella crescita dell’offerta era dovuta
principalmente alla continua e rapida espansione della produzione in acquacoltura
nonché ad un miglioramento dell’efficacia nella gestione degli stocks di pesce.
Il tasso di crescita annuale della produzione mondiale agricola è diminuito molto
lentamente passando dal 3% circa degli anni ’60 all’1.6% nella decade 1986-1995 (a
causa soprattutto del declino drastico della produzione nei paesi dell’ex Unione
Sovietica). Ci si aspetta che questo tasso si attesti all’1.8 percento nel periodo 1990-
2010. Inoltre, a partire dagli anni’50, il prezzo medio dei prodotti agricoli è in generale
diminuito.
La situazione è differente nel settore della pesca dove sia la produzione sia i prezzi reali
sono aumentati nelle ultime 3 decadi. La produzione aumenta con un tasso notevole del
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3.4% (tasso più o meno stabile nel periodo 1960-1990) grazie al rapido incremento di
prodotto proveniente dall’acquacoltura (11.8% annuo nel periodo 1984-1996).
Il futuro della domanda di pesce sarà sempre più determinato dal numero dei
consumatori, dal loro reddito disponibile e dalle loro abitudini alimentari legate
naturalmente al prezzo del pesce stesso. La domanda di pesce risentirà sicuramente
della crisi economica e finanziaria che ha attanagliato i paesi asiatici e che si è sentita
anche nelle altre parti del mondo, il che provocherà nell’immediato futuro una riduzione
del reddito disponibile in quei paesi e quindi della domanda di pesce da parte del
Giappone e degli altri paesi emergenti asiatici, con una conseguente riduzione delle
esportazioni in volume. Allo stesso tempo il settore della pesca dei paesi asiatici
sviluppati dovrà fronteggiare una dura e sempre più crescente competizione da parte di
quei paesi con economie in via di sviluppo le cui valute hanno subito una svalutazione
monetaria.
Anche in Africa ed in America Latina i consumatori si troveranno di fronte ad un
declino del loro reddito disponibile, il che provocherà una riduzione della domanda di
pesce e di prodotti a base di pesce. Questo in termini globali non è però di gran peso
visto il consumo relativamente modesto di pesce da parte di questi paesi.
In uno scenario di lenta crescita economica si può prevedere per il Nord America e per
l’Europa una stabilità della domanda di pesce se non un piccolo aumento. Nei primi
anni del 2000, la domanda di pesce in Europa ed in Nord America è possibile che
scenda a causa della competizione con i prodotti alimentari da bestiame, pollame e suini
soprattutto, che diverranno probabilmente più convenienti a seguito delle modifiche
progettate dall’Ue sulla politica agricola comunitaria (riduzione del prezzo del grano,
fissazione dei costi di produzione per il bestiame, ecc.). Sarà perciò probabile che i
consumatori di questi paesi preferiranno la carne di pollo e quella di maiale al pesce.
1.3 L’occupazione nel settore
Durante le ultime tre decadi e fino ad oggi l’occupazione nella pesca e nell’acquacoltura
mondiale è cresciuta più velocemente di quella nell’agricoltura, incrementando il suo
peso sul totale degli occupati nel settore dell’agricoltura: dall’1.5% del 1970 al 2.3% del
1990 pari a 28.6 milioni di persone occupate.
In molte parti del mondo la pesca offre posti di lavoro stagionali o part-time nei periodi
dell’anno in cui le risorse costiere o d’altura sono molto abbondanti e disponibili.
Siccome non esistono per il resto dell’anno non propizio per la pesca, altre possibilità
d’occupazione, ecco che la FAO, quando parla d’occupazione nell’industria della pesca
distingue tra pescatori full-time e quelli part-time. Nel periodo 1970-1990 il numero di
pescatori ed acquacolturisti full-time e part-time, è aumentato in maniera consistente.
Disaggregando i dati ci accorgiamo di come questo incremento sia stato molto più
consistente durante gli anni ’80 che durante gli anni ’70. La ragione non è chiara, anche
se in parte ciò può semplicemente riflettere il fatto che gli oceani negli anni ’80 erano
una delle poche fonti di risorse naturali non ancora pienamente sfruttate. I dati
sull’occupazione nel periodo 1990-1995 non sono completi anche se da quei pochi già
disponibili sembrerebbe esserci un piccolo incremento nel numero dei pescatori: le
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stime FAO danno per il 1997 un numero di pescatori ed acquacolturisti pari a circa 30
milioni di unità.
Bisogna però tener conto del fatto che le informazioni sul numero dei pescatori sono
alquanto deficitarie perché pochi sono i paesi che raccolgono e pubblicano questi dati e,
tra l’altro, in molti di questi ultimi vengono considerati pescatori anche i lavoratori
dell’acquacoltura. Comunque, in linea generale, si può affermare che il numero dei
pescatori è rimasto costante nei paesi industrializzati laddove si investe maggiormente
in tecnologia, mentre è in rapida ascesa nei paesi in via di sviluppo dove alla scarsità dei
capitali si ovvia con più forza lavoro.
Per quanto concerne la distribuzione mondiale dei pescatori e degli acquacolturisti,
osserviamo come nel 1990 l’84% di loro era attivo in Asia e soprattutto concentrato in
Cina. Comunque India, Indonesia e Vietnam contano più di 1000000 di pescatori full-
time nel 1990. Nelle economie dei paesi industrializzati il numero dei pescatori è
diminuito od è stazionario: ad esempio in Giappone e Norvegia si è dimezzato nel
periodo 1979-1990.
È necessario, però, tener conto del fatto che i dati sull’occupazione non possono essere
presi come unica indicazione utile per dimostrare l’importanza della pesca per le
economie nazionali, dato che nel 1990 i pescatori rappresentavano solo poco più del 5%
della popolazione attiva nel settore agricolo di 38 paesi e poco più del 10% in 15 paesi.
Nel biennio 1970-1990, il numero dei pescatori è aumentato velocemente in Asia più
che in altre parti: nel 1970 i pescatori asiatici erano il 77% del totale mondiale arrivando
a contare per l’83% nel 1990. Durante lo stesso periodo abbiamo avuto anche un
notevole incremento nel numero dei pescatori artigianali in Africa, dove si è raggiunto il
6.5% del totale mondiale, anche se con una crescita più lenta che in Asia. In Europa il
peso dei pescatori sul totale mondiale e diminuito nel periodo 1970-1990 attestandosi
all’1.4%.
Comunque, in termini assoluti, il numero di pescatori europei è cresciuto tra il 1980 ed
il 1990 grazie all’emergere dell’industria dell’acquacoltura. È interessante notare come
anche il numero dei pescatori part-time sia cresciuto molto più rapidamente che il
numero di quelli full-time: nel 1990, per ogni 10 pescatori full-time, c’erano 9 pescatori
part-time, mentre 20 anni prima il rapporto era di 6 ogni 10 pescatori full-time. Anche
questo fenomeno è dovuto in gran parte all’evolversi della situazione asiatica tanto è
vero che se non consideriamo questo continente l’incremento risulta bassissimo.
Il rapido incremento dei pescatori full-time e part-time in Asia spiega anche il declino
della produttività mondiale media annuale per pescatore in termini di volume totale
della produzione che è passata da più di 2 tonnellate nel 1970 a meno di 2 tonnellate nel
1990. Se facciamo un’analisi disaggregata ci accorgiamo di come in Asia vi siano paesi
che hanno diversissimi indici di produttività della pesca: abbiamo, infatti, nella regione
dei paesi industrializzati (Giappone Repubblica di Corea) che svolgono una pesca
capital-intensive e quindi con alti valori di produttività; così come ci sono paesi che
producono meno di 1 tonnellata annua per pescatore. Per quanto concerne l’Europa
abbiamo un’altissima produttività, superiore a quella del Giappone, anche se un’analisi
disaggregata mostrerebbe notevoli differenze pure in questo continente.
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1.4 Esportazioni ed importazioni
I pesci e tutti i prodotti della pesca sono largamente commercializzati con non meno di
195 paesi che esportano parte della loro produzione ittica e circa 180 paesi che hanno
riportato importazioni di pesce e di prodotti a base di pesce in vario ammontare nel
1996. In parallelo con l’incremento della produzione, il commercio internazionale è
continuato ad aumentare, con un tasso fortemente accelerato negli ultimi anni. Larga
parte di questo incremento è reale in quanto legato all’espansione delle economie
mondiali nonché riflettente l’incremento della disponibilità delle specie più richieste dal
mercato (grazie soprattutto alla produzione dell’acquacoltura) e dell’incremento della
domanda di farina di pesce. Un’altra parte dell’incremento, però, è fittizia, o nominale,
in quanto esprimente quel commercio tra paesi che erano formalmente parte di un’unica
entità politica (come, ad esempio, i paesi dell’ex Unione Sovietica).
Il volume delle esportazioni ha raggiunto i 22 milioni di tonnellate nel 1996, circa tre
volte tanto il volume trattato nel 1976, raggiungendo così 52 miliardi di US$ (22.9
miliardi di US$ nel 1986) il che rappresenta l’11% del valore delle esportazioni in
agricoltura e circa l’1% della merce complessivamente trattata. Bisogna però essere
molto prudenti nel valutare questi grossi incrementi in quanto in parte sono dovuti ai
costi di trasporto ed in parte anche al fatto che fra i paesi esportatori ve ne sono molti in
via di sviluppo che, spesso, forniscono statistiche incomplete.
Notiamo nell’ultima decade un incremento notevole del peso del commercio di pesce
nel commercio complessivo in agricoltura. Pur non spiccando il commercio di pesce sul
valore complessivo degli scambi, in alcuni paesi il suo contributo al guadagno
proveniente dall’estero è vitale per le loro economie: ad esempio per l’Islanda
rappresenta più del 75% del totale delle merci esportate. In termini di valore le
esportazioni di pesce sono quasi interamente composte (90% circa) da prodotti per uso
alimentare mentre in termini di volume la farina di pesce e l’olio di pesce hanno
maggior peso.
Sempre in termini di valore, le esportazioni di pesce e di prodotti a base di pesce hanno
origine per più della metà, nelle economie in via di sviluppo e sono perlopiù destinate
verso le grandi industrie e/o i circuiti della distribuzione dei paesi ricchi. Infatti, nel
periodo 1993-1996, il leader delle esportazioni mondiali di pesce era la Tailandia.
Questo fenomeno è dovuto all’elevato costo della manodopera nei paesi sviluppati: è
per questo che si cerca di far lavorare i prodotti in quei paesi dove tale costo è basso. Un
fenomeno sempre più evidente negli ultimi anni è quello dei prodotti semilavorati
(filetti di tonno, di merluzzo e surimi) che vengono sottoposti ad una prima lavorazione
nei paesi in via di sviluppo e poi sottoposti ad un’ulteriore lavorazione nei paesi
industrializzati (Europa soprattutto) in modo da essere commercializzati sul mercato con
un marchio locale e conosciuto.
Anche le importazioni sono notevolmente aumentate passando da 24.3 miliardi di US$
nel 1986 a 56 miliardi di US$ nel 1995. Queste sono concentrate in pochi paesi: i primi
10 paesi importatori di pesce e di prodotti della pesca rappresentano, in termini
monetari, oltre il 75% delle importazioni mondiali.
Il Giappone è il paese che importa più pesce, con un forte e costante incremento nel
corso degli ultimi dieci anni da quando l’introduzione delle ZEE (Zone Economiche
Esclusive) ha limitato fortemente la possibilità per questo paese di pescare liberamente
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in tutti i mari del mondo. Questo forte peso del Giappone nelle importazioni fa si che
per molti prodotti della pesca è questo stesso paese che ne determina il prezzo nel
mercato mondiale: è questo il caso del tonno congelato, del gambero congelato e del
polipo congelato.
Il secondo paese importatore di pesce sono gli USA con, in particolare, i seguenti
prodotti: gamberi congelati e tonno in scatola. È da sottolineare il fatto che la maggior
parte delle esportazioni USA di pesce sono destinate al Giappone.
Se invece di considerare il peso sulle importazioni mondiali di ogni paese europeo
consideriamo il peso di tutta l’Ue notiamo come, addirittura, più di 1/3 delle
importazioni mondiali di pesce è da essa effettuato. Da notare, però che l’Ue è quella
che applica i più alti dazi sui prodotti della pesca per proteggere l’industria di
trasformazione locale: si parte da un dazio zero per la materia prima importata che,
però, sale all’aumentare del livello di trasformazione del prodotto.
1.5 La regolamentazione dell’attività produttiva
La regolamentazione dell’attività di pesca si deve ricondurre a quattro diversi
ordinamenti: internazionale, comunitario, statale e regionale. Perciò le competenze di
una regione non possono essere considerate in modo isolato, bensì come facenti parte di
un contesto che supera i confini regionali e statali, per estendersi fino ad un livello
internazionale e comunitario. I due ultimi ambiti normativi hanno numerosi riflessi
sull’ordinamento di una regione: ad esempio, le regioni italiane danno esecuzione agli
atti comunitari e partecipano anche alla fase di elaborazione dei programmi di aiuto co-
finanziati dalla Comunità. Sarà perciò sempre più inevitabile procedere ad un
coordinamento fra ordinamento internazionale e comunitario da un lato e legislazione
nazionale e regionale dall’altro.
La disciplina della pesca non è quasi mai oggetto di separata normazione bensì viene
spesso inquadrata in sistemi di carattere generale quali il sistema del diritto
internazionale del mare. Anzi, si può senza ombra di dubbio affermare che la
regolamentazione della pesca è quella che ha maggiormente contribuito all’evoluzione
di questa branca del diritto internazionale: la volontà di alcuni stati litoranei di
controllare e sfruttare per la pesca alcune zone di mare li ha portati ad estendere
arbitrariamente la propria giurisdizione a queste zone con delle iniziative che davano
spesso luogo a controversie internazionali che a loro volta innescavano
automaticamente meccanismi di rinnovamento della materia.
Dall’alba dei tempi furono fatti numerosi tentativi allo scopo di regolare gli usi dei mari
e stabilire delle norme di legge che potessero essere rispettate da tutti gli stati che
attraversavano i mari con le proprie navi. A questo proposito ricordiamo, ad esempio, il
Codice di Rodi, datato sicuramente prima del secondo secolo A.C., i cui principi erano
accettati nel Mediterraneo da Greci e Romani ed il cui impatto durò per circa 1000 anni,
ricordiamo ancora la Lista di Oleron, promulgata nel 1160 dalla Regina Eleonora,
regina della Francia Occidentale, i cui principi furono via via accettati da tutti gli stati
che si affacciavano nell’Oceano Atlantico.
Nei tempi moderni la Convenzione Onu denominata Legge del Mare rappresenta il
culmine degli sforzi cominciati dalla comunità internazionale con la Conferenza di
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Hague voluta dalla Società delle Nazioni nel 1930, che preparò una bozza di
Convenzione sulla “condizione giuridica delle acque marittime territoriali”.
Tale conferenza fu seguita dalla prima Conferenza ONU sulla Legge del Mare, tenuta a
Ginevra nel 1958, la quale adottò 4 convenzioni sulle “acque marittime territoriali e
zone contigue”, sugli “alti mari”, sulla “pesca e la conservazione delle risorse viventi
degli alti mari” e sulla “piattaforma continentale”. La dichiarazione da parte
dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1970 sul fondo marino e le sue risorse, definiti
come un’eredità comune per tutta l’umanità, segnò il più importante passo nello
sviluppo verso una Legge del Mare. Infatti, la Riunione stabilì che i problemi dei vari
spazi oceanici sono interrelati e necessitano di essere considerati come un tutt’uno.
Ecco che nel 1973, la terza Conferenza dell’Onu sulla Legge del Mare, si assunse il
compito di analizzare i vari aspetti degli usi e della protezione dei mari, degli oceani e
delle loro risorse.
Dopo nove anni di trattative, la Conferenza di Montego Bay del 10/12/1982, adottò lo
strumento generale della Convenzione dell’ONU sulla Legge del Mare.
Tale Convenzione costituisce uno strumento generale per la regolazione di tutti gli spazi
oceanici e delle loro risorse e costituisce un atto di estrema importanza per la
salvaguardia delle risorse biologiche del mare in quanto rende partecipi tutti i Paesi che
sono coinvolti nell’attività di pesca, che dovranno controllare i propri pescherecci.
Tra gli obiettivi della Convenzione ricordiamo:
ξ raggiungimento del livello di sfruttamento ottimale delle risorse così da garantire la
durata degli stocks di pesce migratorio. Tali misure dovranno essere prese sulla base
di rigorosi criteri scientifici che permettano il massimo sfruttamento possibile
tenendo conto non solo dei fattori ecologici ma anche di quelli socio-economici: ad
esempio, i paesi in via di sviluppo potranno avvalersi di deroghe, eccezioni ed aiuti
in relazione ai loro bisogni;
ξ costante e progressiva diminuzione dell’inquinamento, degli scarichi industriali;
ξ uso di tecnologie sempre più avanzate che siano nel frattempo più selettive e più
redditizie, cioè che consentano di ottimizzare il rapporto tra diminuzione delle
risorse e vantaggi per gli operatori;
ξ raccolta, elaborazione e scambio di tutti i dati rilevanti sulle attività di pesca, sulle
catture, ecc. Tali dati permetteranno di estendere a livello globale le conoscenze nel
settore e quindi permetteranno l’adozione più rapida di misure adeguate.
Con la terza Conferenza dell’ONU sul diritto del mare è finito per prevalere un regime
giuridico (consacrato nella Convenzione di Montego Bay, sul diritto del mare del 1982)
consistente nella codificazione degli istituti e dei principi fino allora riconosciuti nel
settore della pesca come diritto consuetudinario od imposto dalla prassi declaratoria
degli stati. Tale sistema pur avendo una notevole portata normativa, si è rivelato non
capace di tradurre in obbligo il principio di cooperazione fra gli stati e, perciò, di
escludere il sorgere di nuovi conflitti internazionali.