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mediante cui si verificano ritardi, rallentamenti e uscite anticipate dal percorso
scolastico.
In Italia i dati più recenti del M.I.U.R. (Ministero dell’Istruzione dell’Università e della
Ricerca), relativi all’anno scolastico 2003/04, sulla dispersione scolastica nelle scuole
primarie e secondarie, mettono in evidenza che mentre nella scuola primaria il
fenomeno è a livelli assai contenuti e costanti nel tempo, nelle scuole secondarie tale
dato è in aumento.
Con il presente studio si cercherà di verificare quanto il modello Mentoring Usa/Italia
risulti efficace nel prestare aiuto a ragazzi che presentano delle difficoltà di cui la
scuola ne è espressione, affiancando ad uno studente una persona amica a cui fare
riferimento durante il percorso di crescita, e contribuire in tal modo a contrastare la
dispersione scolastica nel nostro paese.
In particolare si andrà a verificare se attraverso il supporto del Mentor i ragazzi a fine
anno manifestano la presenza di cambiamenti scolastici ed emotivi vantaggiosi.
Lo studio si sviluppa in seguito alla sperimentazione del modello Mentoring Usa/Italia
promossa dal M.I.U.R. (Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca
Scientifica) nell’anno 2004/05 per contrastare la dispersione scolastica in Italia. Al
progetto hanno aderito due scuole secondarie di secondo grado oggetto del
medesimo studio, costituito da studenti Mentee a rischio di dispersione scolastica.
Oltre al Gruppo Sperimentale, la ricerca ha previsto anche un Gruppo di Controllo
rappresentato da studenti aventi le stesse caratteristiche dei Mentee.
All’interno del Gruppo Sperimentale sarà applicato il modello Mentoring, attraverso la
presenza di una figura di supporto (Mentor) al ragazzo (Mentee) per l’intero anno
scolastico, mentre il Gruppo di Controllo seguirà altre attività a contrasto della
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dispersione scolastica (quali attività ludico-ricreative, di socializzazione, teatrali e di
laboratorio).
L’attività dei due gruppi sarà monitorata all’inizio e alla fine dell’anno scolastico,
mediante un questionario costruito dalla Professoressa Maria D’Alessio e dal
Professore Fiorenzo Laghi, che andrà a valutare le caratteristiche dello studente
relative all’area scolastica, emotiva e di personalità.
Per quanto riguarda il Gruppo Sperimentale tali caratteristiche saranno osservate
oltre che dai Mentee, dai Coordinatori/Insegnanti e dai Genitori. Per il Gruppo di
Controllo, tale osservazione sarà effettuata oltre che dagli studenti, anche dai
Coordinatori/Insegnanti della scuola.
Dall’analisi dei dati del questionario si andrà a verificare se in seguito al Mentoring i
Mentee del Gruppo Sperimentale, manifesteranno la presenza di cambiamenti
vantaggiosi negli aspetti considerati. In tal modo si potrà contribuire a dimostrare
l’efficacia del modello Mentoring nell’aiutare tanti ragazzi con delle difficoltà ad
inserirsi positivamente non solo nel contesto scolastico, ma successivamente anche
nella realtà sociale e professionale
8
1. IL MENTORING
1.1 ASPETTI STORICI E DEFINIZIONE DI MENTORING
Il termine Mentoring prende spunto dalla mitologia greca. Mentore, figlio di Alcimo
d’Itaca, era l’amico di Ulisse, l’eroe più celebre dell’antichità classica e il protagonista
dell’Odissea di Omero.
Ulisse, figlio di Laerte e di Anticlea, re di Itaca, sposò Penelope e da questa unione
nacque Telemaco.
L’eroe Greco partecipò alla guerra di Troia, durante la quale si segnalò per valore e
per astuzia.
Prima di partire per Troia, Ulisse affidò a Mentore la sua casa e la cura di suo figlio
Telemaco. Mentore, dunque, assunse per Telemaco il ruolo di padre e di consigliere
e lo educò affinché da grande diventasse un buon re.
Dopo la distruzione di Troia, Ulisse, riuscì a tornare ad Itaca, impiegandoci dieci anni,
durante i quali Penelope lo aspettò fedelmente. Infatti, durante l’assenza di suo
marito, cento giovani principi, i Proci, aspirarono alla sua mano, ma ella li tenne a
bada con astuzia, dicendo loro che avrebbe preso una decisione nel momento in cui
avrebbe finito di tessere la tela funebre per il suocero.
Ciò che Penelope tesseva di giorno, però, lo disfaceva di notte.
I Proci, scoperto il suo inganno, la obbligarono a prendere una decisione definitiva,
cosicché ella dichiarò che avrebbe scelto per marito colui che avesse vinto in una
gara di tiro con l’arco di Ulisse, sperando in cuor suo che nessuno sarebbe stato in
grado di piegare l’arma.
Intanto Ulisse, grazie all’aiuto di Atena, dea della guerra e dell’intelligenza e
protettrice di Atene, dopo averlo trasformato in un vecchio mendicante, riuscì a
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raggiungere Itaca nel giorno della gara e, dopo aver convinto i Proci a parteciparvi,
riuscì a tendere l’arco.
Sconfisse e sterminò tutti gli avversari, potendo finalmente ricongiungersi con
Penelope e con suo figlio Telemaco.
I buoni precetti di Mentore avevano creato in Telemaco un giovane forte e vigoroso.
Infatti, quando Ulisse tornò ad Itaca e sconfisse i Proci, potette contare sull’aiuto di
suo figlio Telemaco che, grazie a Mentore, era diventato forte e coraggioso come
suo padre (Palazzi,1990).
Nel corso della storia dell’uomo, le prime forme di Mentoring si possono far risalire
all’Età della Pietra, dove i Mentori erano coloro che insegnavano ai più giovani del
clan familiare tutti i loro saperi, contribuendo così all’evolversi della civiltà.
Con la nascita delle prime forme di erudizione, possiamo risalire a forme di
Mentoring, prima nel periodo della civiltà greca e poi in quella romana, dove i Mentori
erano coloro che insegnavano ai loro allievi i saperi circa la filosofia, l’etica, la morale
e le prime forme di educazione civica.
In ogni epoca storica, dal Medioevo al Rinascimento, sino ad arrivare alla formazione
degli Stati Nazionali nell’Ottocento, le forme di Mentoring seguono l’evolversi della
civiltà, della cultura e delle diverse forme di trasmissione del sapere.
Gli ambiti di applicazione del Mentoring possono essere vari.
Infatti, esiste un Mentoring finalizzato a contrastare la dispersione scolastica, ma
esiste anche un Mentoring orientato a facilitare l’acceso dei giovani nel mondo del
lavoro e un Mentoring mirato alla promozione delle donne nell’impresa.
In ogni ambito di applicazione del Mentoring, il principio alla base della relazione è
quello uno-a-uno che si instaura tra un esperto definito Mentor e un novizio, ovvero il
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Mentee, e prosegue fino a quando quest’ultimo non ha pienamente sviluppato le sue
potenzialità.
1
Il Mentor è colui che investe il proprio tempo e il proprio impegno nell’aiutare una
persona con meno esperienza a scoprire tutte le sue potenzialità mantenute
inespresse, e funge da modello favorendone la crescita personale (Felice, Tagliavini,
2004).
1
http//:www.mentoringusaItalia.it, Mentoring Usa/Italia Onlus
11
1.2 FINALITA’ DEL MENTORING
Il Mentoring è una relazione di sostegno “uno-a-uno” tra un adulto (Mentore) e una
persona in crescita (Mentee). Le sue finalità sono quelle di facilitare la crescita della
persona sotto più punti di vista: quella educativa, sociale, personale e lavorativa.
La relazione che si instaura consente al Mentor di aiutare il Mentee ad acquisire una
certa consapevolezza di sé e di sviluppare le proprie risorse.
Il Mentor aiuta il Mentee a scoprire dentro di sé capacità e talenti ignorati o
sottovalutati, e a far emergere e maturare le competenze indispensabili per inserirsi
nella vita sociale e lavorativa (Gelli, Mannarini, 1999).
Esso punta a valorizzare le risorse psicologiche della persona e a rendere disponibili
quelle fornite dall’ambiente, per favorire lo sviluppo dell’autostima e della fiducia in sé
e nell’altro.
La fiducia nelle proprie capacità svolge un ruolo centrale nella regolazione del
proprio comportamento, in particolare sulle decisioni da prendere, sugli obiettivi da
raggiungere e sulle energie da investire per conseguirli con successo.
Infatti, un ragazzo con una buona autostima tenderà a porsi degli obiettivi e ad
investire energie per raggiungerli. Al contrario, la certezza della propria inefficacia
può produrre una valutazione negativa delle proprie capacità.
Inoltre, tale percezione di sé può generare un senso di insoddisfazione e di
insicurezza che causano disagio. Tutto ciò porta il soggetto a concentrare
l’attenzione solo sugli aspetti negativi della sua performance, e ogni occasione sarà
percepita come un’ulteriore sconfitta.
Il soggetto a tal punto non investirà le proprie risorse, poiché crede che ogni
situazione sarà per lui un insuccesso.
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Il senso di autoefficacia
2
dipende da diversi fattori, quali ad esempio una precedente
esperienza diretta di riuscita in un compito, o anche dalle esperienze vicarie che
sono particolarmente importanti quando il soggetto ha poche esperienze alle spalle
e, dunque, la qualità della prestazione fornita da altri diviene il proprio standard o
comportamento-meta.
Il soggetto si sente efficace quando crede che i risultati personali siano all’altezza di
quelli raggiunti dal modello osservato.
Il giudizio di autoefficacia, inoltre, dipende largamente dal confronto tra prestazione e
standard personali, legati alla percezione delle proprie competenze e alle aspettative
che il soggetto ha rispetto alle esperienze di successi o fallimenti.
Il senso di efficacia personale dipende anche da un elemento di autoriflessione che
riguarda le cause che hanno determinato la prestazione (Di Blas, 2002).
Il soggetto può attribuire la causa della propria prestazione a fattori interni, quali ad
esempio l’impegno o l’abilità personale, e pertanto si sente responsabile del risultato
conseguito. Nel caso contrario può attribuire la causa delle sue prestazioni a fattori
esterni, quali ad esempio fortuna e casualità che non sono sotto il suo controllo e di
cui egli non si sente responsabile (Rotter, 1996).
Generalmente le persone attribuiscono il conseguimento di un successo a cause di
tipo interne, mentre legano un risultato mancato a cause esterne. Tale stile
esplicativo permette di preservare un senso d’efficacia personale.
Tuttavia, esiste una modalità di comportamento opposto, tipica di soggetti con basso
senso di efficacia, che tendono a percepire in sé le cause del fallimento e fuori di sé
quelle di un esito favorevole (Cornoldi, 1999).
Tale modalità è tipica dei soggetti helpless.
3
2
Bandura A., (1997), Self-efficacy: The exercise of control, Freeman, New York (trad. It. Autoefficacia,
Erickson, Trento, 2000).
3
Cornoldi C., (1991), I disturbi dell’apprendimento. Il Mulino, Bologna.
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Infatti tali soggetti si aspettano sempre di fallire, poiché considerano gli eventi fuori
dal proprio controllo perciò li subiscono passivamente.
Dweck (2000), ha studiato in modo approfondito le conseguenze del senso di
efficacia sulla prestazione scolare. Egli osservò come i bambini helpless in un
compito si fissavano sugli errori commessi, chiedevano di poter smettere dopo pochi
tentativi non riusciti, esprimevano rabbia oppure vergogna per il loro insuccesso, e
utilizzavano strategie inefficaci che non riuscivano a migliorare la loro prestazione.
Al contrario, i bambini con senso d’efficacia personale mantenevano interesse e
concentrazione sul compito e cercavano di individuare gli errori nel lavoro svolto per
poterlo migliorare e superare così gli ostacoli.
In un altro momento della ricerca Dwech (2000) fece risolvere agli studenti un
semplice problema e, successivamente, chiese loro di doverlo risolvere nuovamente.
Il 35% dei bambini caratterizzati da helplessness si considerò incapace di affrontare
bene un’altra volta il compito. Al contrario tutti gli altri bambini, il 100% degli scolari
con senso di efficacia personale, si ritennero in grado di poter di nuovo risolvere
correttamente il compito (Dweck, 2000).
Lease (2004) studiò gli effetti del locus of control
4
su differenti gruppi sociali
nell’ambito universitario americano.
I risultati hanno evidenziato che gli studenti afro/americani, avevano un locus of
control esterno, rispetto agli studenti bianchi riguardo le proprie competenze
accademiche, per cui consideravano gli eventi fuori dalla propria responsabilità.
Tale stile era associato a maggiori difficoltà all’interno della classe.
Da ciò si evidenzia come la percezione che lo studente ha di sé rappresenta la base
per la sua prestazione in qualsiasi materia scolastica.
4
Rotter J.B. (1966), Generalized Expectancies for Internal Versus External Control of Reinforcement,
Psycological monographs, 80.
14
Infatti, la convinzione di non farcela, e dunque una bassa stima di sé, rappresenta il
primo e vero ostacolo per l’apprendimento del ragazzo, poiché il soggetto convinto di
non farcela a risolvere un compito, non cercherà nemmeno di provare a trovare la
soluzione.
L’obiettivo del Mentoring è ridare innanzitutto fiducia al ragazzo, attraverso
l’acquisizione della consapevolezza delle proprie capacità e del proprio senso di
efficacia, ma anche attraverso la presa di coscienza della responsabilità delle proprie
azioni.
Il rapporto che si instaura tra Mentor e Mentee è continuativo e proprio per tale
motivo dà luogo ad una relazione intima e reciproca. La relazione di Mentoring non
cresce se entrambi non investono energia e passione, e se non c’è da ambo le parti
un investimento affettivo.
Nel Mentoring il ruolo del Mentor è molto importante per la crescita della persona, in
quanto funge da modello e da amico, contribuendo ad arricchire la sua formazione
affinché possa un domani svolgere un ruolo positivo nella società.
Il Mentor, inoltre, aiuta il Mentee a scoprire le sue attitudini, a farlo sentire speciale,
fornendogli la completa disponibilità all’ascolto, e a crescere culturalmente.
La relazione tra Mentor e Mentee tende verso l’orizzontalità, ovvero verso una
situazione di parità tra i due.
Il Mentor con il tempo ricoprirà un ruolo autorevole per il Mentee che gli permetterà di
rappresentare per lui una persona a cui dare fiducia e un modello di riferimento
positivo. Il suo ruolo, per un ragazzo, dovrà essere diverso da quello genitoriale,
tuttavia, laddove il contesto familiare è frammentato e le figure parentali sono
assenti, potrebbe rappresentare una funzione di “famiglia allargata”.
Il ruolo del Mentor non va confuso con quello del genitore o del docente, i quali
attraverso delle regole rettificano come positivi o negativi alcuni comportamenti del
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ragazzo, ma è quello di accoglierlo cercando di evitare ogni atteggiamento di giudizio
nei suoi confronti.
In questo modo il ragazzo potrà sentirsi accettato e libero di esprimersi senza temere
di essere punito o giudicato da qualcuno.
Solo in un secondo momento il Mentor potrà portare il ragazzo a prendere coscienza
di un suo comportamento inadeguato e alle conseguenze che esso comporta,
indirizzandolo verso un comportamento più congruo.
La relazione che si instaura tra Mentor e Mentee è una forma di scambio basato sulla
reciprocità e sul dono simbolico attraverso il quale si crea il loro legame (Godbout,
1994).
Il rapporto di fiducia che si istaura non è immediato, ma ha bisogno di tempo per
costruirsi.
Infatti è molto frequente che inizialmente i Mentee, che hanno avuto delle difficoltà in
passato, siano reticenti a parlare di sé e abbiano un atteggiamento di chiusura nei
confronti del Mentor. Tale difficoltà sarà superata solo con il tempo e con la
costruzione di un rapporto di stima reciproca, la quale permetterà al Mentee di fidarsi
del suo Mentor.
Un altro elemento importante dell’attività di Mentoring è la facilitazione nel Mentee
dell’emergere della competenza sociale,
5
attraverso un passaggio di competenze
dall’uno all’altro.
La competenza sociale fa riferimento alla capacità di entrare in relazione con gli altri,
di comprendere le intenzioni altrui, e di organizzare il proprio comportamento, sulla
base di ciò che si è percepito dalle aspettative altrui.
5
Dunn J., (1990), La nascita della competenza sociale. Cortina, Roma.
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La competenza sociale richiede una comprensione della struttura sociale di cui il
soggetto fa parte e dei ruoli che il soggetto può ricoprire.
Generalmente i bambini già all’età di tre anni hanno una percezione di sé e degli altri,
delle aspettative e delle regole sociali. Tale competenza si sviluppa precocemente,
poiché i bambini hanno una forte motivazione a partecipare dapprima alla vita
familiare, poi a quella del contesto sociale più allargato.
In genere i soggetti sottoposti al Mentoring mancano di tale competenza, e la causa
di ciò potrebbe essere riconducibile a genitori socialmente disadattati e a scarse
esperienze con fratelli o coetanei nel corso dell’infanzia.
Dalla ricerca-intervento condotta nel 1997 da Gelli (1999), nelle scuole di Lecce con
studenti di tre scuole medie inferiori sottoposti al Mentoring, si evince come questi
hanno difficoltà non solo scolastiche (quali ritiri, bocciature, assenze frequenti), ma
anche di relazione con gli altri.
Infatti, emerge che tali ragazzi presentano sia comportamenti di disturbo nei confronti
della classe, sia atteggiamenti di isolamento e di anonimato.
Vi sono inoltre delle differenze tra maschi e femmine: mentre i primi mostrano un
comportamento più iperattivo, le femmine risultano più passive ma allo stesso tempo
aggressive (vedi Tabella 1).
Dalla stessa ricerca emerge come il comportamento degli studenti sottoposti al
Mentoring, rispetto agli insegnanti, oscilla tra collaborazione e ostilità. Le femmine
risultano più collaborative rispetto ai maschi.
Infine una parte di loro propone agli insegnanti delle richieste di eccessiva
affettuosità non pertinente al contesto scolastico.
Uno dei compiti del Mentor è quello di aiutare il Mentee a mettere in atto
comportamenti adeguati rispetto alla classe e fornirgli un aiuto nel dare maggiore
fiducia agli altri nel corso di una relazione.