pluralità di indirizzi di studio (estetico o storico artistico, semiotico, sociologico o
legato ai visual studies) impegnati nella riflessione sullo statuto e la funzione
acquisiti dall’immagine nell’epoca contemporanea possa avvantaggiarsi
notevolmente di un approfondimento della questione della tecnica nei termini in
cui il pensiero filosofico l’ha variamente rielaborata a partire dai primi decenni
dello scorso secolo.
L’intero lavoro verrà articolato alla luce di questi presupposti. Come
anticipato, esso si struttura in tre parti rispettivamente dedicate: 1. a una
ricognizione del contesto storico nel quale, a mio avviso, per la prima volta la
diffusione dei dispositivi tecnici di produzione di immagini si affaccia
all’attenzione dei teorici e degli artisti, quello che vede nascere e svilupparsi i
movimenti d’avanguardia; 2. all’approfondimento delle posizioni di Walter
Benjamin circa il destino dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica; 3. alla presentazione dell’opera di un pensatore francese contemporaneo,
Bernard Stiegler, che lavora ormai da diverso tempo a un ripensamento della
questione della tecnica nel tentativo di fornirne una declinazione più adeguata alla
comprensione di alcuni aspetti della modernità avanzata.
Ho privilegiato l’opera di due autori, Benjamin e Stiegler, nella persuasione
che entrambi, sebbene a diverso titolo e alla luce di differenti presupposti
filosofici, forniscano elementi importanti per riflettere sull’impatto che il
progresso tecnologico registra, in modo vistoso nell’epoca contemporanea, sulla
sfera della sensibilità (dell’aisthesis
2
). Nei tre capitoli tenterò di approfondire
alcuni degli aspetti di questo impatto, tutti a diverso titolo riconducibili all’esteso
ambito di pertinenza della riflessione estetica. Nel primo capitolo concentrerò
l’attenzione su cosa accade ad alcune categorie dell’estetica moderna nel
momento in cui la produzione artistica da un lato, il lavoro dei dispositivi tecnici
di riproduzione dell’immagine dall’altro, cominciano a denunciarne il
depotenziamento delle capacità interpretative. Il confronto con la filosofia di
Benjamin, argomentato nel secondo capitolo, porterà invece in primo piano il
tema estesiologico della percezione. Nel terzo capitolo infine presenterò il
contributo di Bernard Stiegler. Sebbene non si occupi direttamente di estetica,
quest’autore riflette sul lavoro dell’immaginazione e sulla questione
2
La traslitterazione delle parole greche verrà di regola effettuata senza riportare gli accenti.
4
dell’immagine, della quale suggerisce di ripensare lo statuto a partire dalle
condizioni tecniche, analogiche, ma soprattutto digitali, della sua produzione e
della sua fruizione.
Ancora una precisazione preliminare: l’analisi prende in esame questioni e
autori che abbracciano un periodo di tempo piuttosto ampio e i cui momenti
salienti riguardano tanto i primi decenni del XX secolo quanto i più recenti esisti
del processo di tecnicizzazione. La questione della digitalizzazione, indicata nel
titolo come contesto in riferimento al quale la ricerca si articola, non vuole tanto
sottolineare l’evento di una discontinuità radicale nell’arco di tempo preso in
esame, quanto collocare il punto di vista a partire dal quale la domanda sulla
tecnica e sulle trasformazioni che coinvolgono la nostra comprensione
dell’immagine è stata formulata in questa sede. Non mi soffermerò quindi in
modo analitico sulle eventuali differenze tra l’immagine analogica e l’immagine
digitale, piuttosto concentrerò l’attenzione, in particolare nel terzo capitolo,
sull’impatto che lo sviluppo dei dispositivi informatici nel campo della
telecomunicazione e dell’audiovisivo registra sul rapporto tra immagine e tempo,
soprattutto, ma non esclusivamente, tra immagine e memoria.
L’ipotesi che intendo avanzare è che le procedure tecniche possano
estendere produttivamente la nostra comprensione dell’immagine e rivelarsi
funzionali a un contromovimento rispetto al proliferare di immagini pienamente
integrate nel progetto della comunicazione mediatica commerciale, opachi
simulacri di una ‘realtà’ che sparisce nel moltiplicarsi delle sue simulazioni e dei
suoi surrogati. Sosterrò dunque che l’immagine possa positivamente riprogettare
la propria funzione a partire dalle condizioni tecniche della sua produzione e che i
concetti di ‘medium’ e di ‘traccia’ si prestino in modo pertinente a ripensarne lo
statuto. L’immagine è un medium in quanto esercita un ruolo di mediazione, un
ruolo comunicativo potenziato dall’uso delle tecnologie di riproduzione, ma anche
perché può contribuire a rendere visibile l’ambiente mediatico nel quale essa si
genera e vive
3
. Dell’immagine intendo insomma evidenziare il carattere di
medium non trasparente, di luogo privilegiato nel quale la mediazione riflette se
stessa e su se stessa. Le procedure tecnologiche che operano su e con l’immagine
3
Il tema della «vita» delle immagini è affrontato in modo interessante da W. J. T. Mitchell (2005)
con particolare e ampio riferimento alla declinazione che esso conosce alla luce di una teoria dei
media. Cfr. Mitchell, 2005, 198-221.
5
dovrebbero salvaguardare questo aspetto, piuttosto che dissimularne i segni,
cancellarne le tracce. Proprio il concetto di traccia mi sembra fornire
un’indicazione e un correttivo importanti per estendere in modo produttivo quella
che possiamo definire, alla luce di queste premesse, una comprensione mediale
dell’immagine. In questa sede tale concetto è utilizzato con un esplicito
riferimento al pensiero di Derrida, ma anche assimilato a quell’insieme di segni,
impronte, indizi, sintomi, che, se seguiamo la Semiotica di Peirce, appartengono
alla classe degli indici e mantengono con il loro referente un rapporto di
continuità fisica. Anticipando brevemente il tema sul quale mi soffermerò nelle
conclusioni, diciamo che l’immagine pensata come medium e come traccia è
un’immagine che esorbita dall’economia dello scambio reciproco e continuo,
senza residui, tra il segno e un referente che ne esaurisce il significato rendendolo
fungibile e integralmente intelligibile; non solo, essa non presenta
immediatamente il suo referente, dal momento che il referente di un’immagine
così ripensata non appartiene, per dirla con Derrida, all’ordine della presenza.
Un’immagine-traccia mantiene inoltre un legame costitutivo con il dispositivo
tecnico che presiede alla sua produzione nella misura in cui la tecnica, forma di
registrazione esatta, è ciò che le conferisce il carattere di impronta, di traccia
appunto, di qualcosa che resta tuttavia attingibile solo a posteriori, nella sua
ripetizione, nella sua ricostruzione après coup.
2. Questi dunque i temi sui quali il presente lavoro si propone di riflettere nei
tre capitoli che lo compongono.
Il primo capitolo prenderà in esame i concetti di mimesis, immagine e
rappresentazione nel tentativo di evidenziare in che modo e in che misura la
diffusione dei dispositivi tecnici di riproduzione dell’immagine -fotografia e
cinema- può aver contribuito all’estensione e a al rinnovamento, attestato dalla
produzione artistica dei primi decenni del XX secolo, della loro comprensione.
L’interesse dal quale l’analisi prende le mosse è quello di indagare il contesto
storico nel quale il rapporto tra arte, intesa in senso estetico moderno, e tecnica
schiude inedite complessità e sollecita nuove problematizzazioni; questo contesto
è stato identificato con il periodo -in fondo breve, una manciata di decenni tra la
prima e la seconda guerra mondiale- nel quale risuonano i proclami dei manifesti
delle avanguardie storiche. La lettura dei manifesti e una ricognizione, certo
6
sintetica, della produzione di questi movimenti hanno richiesto però, in via
preliminare, l’approfondimento di alcune delle teorie degli studiosi che, più o
meno in concomitanza con lo sviluppo delle correnti che contrassegnano la fase
inaugurale dell’arte contemporanea, hanno su di esse lungamente riflettuto. Per
questa ragione la ricerca esordisce con un riferimento alla tradizione modernista
inaugurata dal lavoro del critico americano Clement Greenberg e ad essa guarda
inizialmente nel tentativo di individuare quali questioni siano in quel momento
riconosciute centrali dalla teoria dell’arte. La questione dell’autonomia dell’arte e
l’atteggiamento critico e riflessivo che essa assume, facendo delle leggi formali
dettate dai media che ne delimitano i diversi ambiti di produzione il criterio
esclusivo di realizzazione delle opere, sono indicati da Greenberg, e da tutti coloro
che condividono l’impostazione formalista delle sue teorie, come i tratti specifici
dell’arte modernista. Il critico americano ha individuato nel tendere verso
l’astrazione e la non figuratività l’opportunità, tutta moderna, per le arti -egli
pensa soprattutto alla pittura- di rielaborare, una volta emancipatesi dal vincolo
del riferimento mimetico alla ‘realtà’, le proprie modalità di rappresentazione a
partire dai limiti imposti dalla purezza del medium che ne delimita rigorosamente
lo specifico campo di operazione e ne garantisce l’autonomia (nel caso della
pittura Greenberg individua questo medium specifico nella «piattezza» della
superficie della tela).
Tanto i critici legati all’ambiente modernista quanto i teorici formatisi in
tutt’altro contesto (è il caso di Arnold Gehlen che a questi temi dedica un
importante saggio pubblicato nel 1960) o che dal modernismo hanno preso una
polemica distanza (pensiamo per esempio a Leo Steinberg e a Rosalind Krauss)
hanno indagato a più riprese la crisi della dimensione mimetico-rappresentativa
registrata dalle arti in concomitanza con il diffondersi della fotografia e hanno
riconosciuto nella tendenza all’astrazione, contrapposta a ogni forma di realismo e
di naturalismo, il contrassegno di un’arte, quella moderna appunto, che torna
riflessivamente a se stessa concentrandosi sulle proprie condizioni di possibilità. Il
riconoscimento di un nesso tra il diffondersi delle procedure di riproduzione
fotografica del visibile e il progressivo esonerarsi delle arti tradizionali
dall’obbligo del riferimento mimetico e rappresentativo alla realtà sembra dunque
essere l’elemento dal quale partire e sul quale riflettere con più attenzione nel
tentativo di indagare la configurazione contemporanea del rapporto tra arte e
7
tecnica e le trasformazioni che investono alcuni dei concetti centrali dell’estetica
moderna.
Risolvere la tensione tra arte tradizionale e media di riproduzione tecnica
delle immagini nella divaricazione tra il mimetismo e la presunta immediatezza
del riferimento offerta dal medium fotografico e la soluzione non figurativa
adottata dalle arti si dimostra tuttavia insoddisfacente, perchè non offre, a mio
avviso, una tematizzazione esaustiva della questione della tecnica. Ho ritenuto
opportuno, a questo proposito, approfondire lo statuto del concetto di mimesis, al
fine di recuperarne quella valenza performativa e riflessiva che la sua origine
etimologica conserva e che il privilegio accordato a una comprensione in senso
meramente imitativo e riproduttivo ha invece marginalizzato e di concentrare
l’attenzione sulla funzione di mediazione produttiva che la mimesis svolge
esibendo, e non piuttosto occultando, i segni della differenza rispetto a ciò cui
rinvia. La posta in gioco di una comprensione allargata del concetto di mimesis,
capace anche di accoglierne produttivamente i significati che la filosofia antica le
aveva attribuito, è la possibilità di ripensare il suo rapporto con la tecnica in
termini di vantaggiosa interazione. L’ipotesi che intendo avanzare, cioè, è che le
procedure dei dispositivi tecnici possano incrementare il lavoro della mimesis
nella misura in cui non ne potenziano le capacità di riproduzione immediata, ma
piuttosto nella misura in cui ne denunciano il carattere finzionale ed esibiscono lo
spazio intermedio tra i due poli di physis e techne, potremmo anche dire, tra dato
improducibile e procedure di costruzione, nella cui tensione reciproca il lavoro
della mimesis sempre si istalla.
Prima di vedere in che senso le procedure tecniche (quelle di montaggio in
opera nel cinema innanzitutto) operino in questa direzione, mi soffermerò su
alcuni aspetti della produzione delle avanguardie storiche. L’obiettivo è quello di
mostrare come, a differenza di quanto ha sostenuto Greenberg, il loro lavoro si
articoli all’insegna dell’ibridazione e della contaminazione dei media specifici
delle arti tradizionali con l’orizzonte plurale delle tecniche che innervano
l’ambiente nel quale esse si sviluppano, e di evidenziare la funzione di «modelli
operativi», per dirla con Rosalind Krauss (1985), che i dispositivi tecnici di
fotografia e cinema svolgono nella trasformazione delle modalità rappresentative
e di messa in immagine. Questa ricognizione della produzione delle avanguardie,
nel corso della quale alcuni lavori della Krauss si sono rivelati di grande utilità, è
8
orientata a rinvenire le tracce del cortocircuito tra procedure della tecnica e
procedure dell’arte. Un particolare rilievo è accordato all’analisi del rapporto tra
Surrealismo e fotografia nel tentativo di mettere in evidenza la funzione di vero e
proprio dispositivo semiotico (di procedura discorsiva) che questo medium svolge
nell’assetto teorico del movimento surrealista.
Nell’ultima parte di questo capitolo rivolgerò infine l’attenzione a due
figure, Lazslo Moholy-Nagy e Dziga Vertov, il primo legato principalmente
all’esperienza di docenza al Bauhaus e pioniere della sperimentazione con la
fotografia, il secondo celebre cineasta russo attivo soprattutto negli anni Venti
dello scorso secolo, e proporrò un confronto tra le loro vicende alla luce del
rapporto di sperimentazione che essi, rispettivamente, intrattengono con il
medium tecnico approfondendone le specifiche funzioni e prestazioni. Sullo
sfondo di una consonanza reciproca, che abbraccia tanto il ripensamento del
rapporto tra arte e tecnica, dal quale si evince la vicinanza di entrambi al
Costruttivismo, quanto il comune riconoscimento di una funzione protetica del
medium tecnico, estensione e supplemento percettivo, si delineano però differenze
significative, differenze che argomenterò con l’obiettivo di mostrare come il
progetto cinematografico di Vertov operi proprio nella direzione
dell’approfondimento del carattere produttivo, e non meramente riproduttivo, e
riflessivo della mimesis fornendo, tra l’altro, l’inedita opportunità di osservare il
ruolo -vedremo, tutt’altro che accessorio, piuttosto costitutivo- svolto dal
dispositivo tecnico. L’analisi del lavoro di Vertov inoltre riporterà in primo piano
la questione dell’immagine e permetterà di trarre alcune importanti conclusioni
circa la trasformazione del suo statuto e delle sue funzioni.
Walter Benjamin è stato senz’altro il primo a riflettere in modo penetrante
sull’impatto che la diffusione di immagini che nascono già predisposte alla
riproduzione, già intrinsecamente multiple, registra sull’opera d’arte. Il secondo
capitolo è interamente dedicato all’approfondimento di alcuni dei momenti
salienti della riflessione di quest’autore intorno al tema del rapporto tra immagine
e principio di riproducibilità, tra immagine e, potremmo dire più in generale,
questione della tecnica, anche nel tentativo di far emergere la trama dei legami
che il saggio, che più direttamente e più esplicitamente affronta queste tematiche,
intrattiene con altre due importanti opere, le Tesi «Sul concetto di storia» e il
9
Passagenwerk, nonché con la costellazione di problemi sui quali Benjamin torna,
in modo discontinuo, ma con insistenza negli anni Trenta.
Il percorso che ho scelto di tracciare prende le mosse dall’ipotesi che una
riflessione sull’immagine (che senz’altro affonda le sue radici nella fase
inaugurale del pensiero del filosofo, quella più marcatamente segnata
dall’interesse teologico e per la questione del linguaggio) possa vantaggiosamente
prendere le mosse dal concetto di allegoria, ampiamente trattato nel Dramma
barocco tedesco e successivamente ripreso in considerazione nell’ampio lavoro
che egli ha svolto sulla figura di Baudelaire. I caratteri di frammentarietà e
convenzionalità propri dell’allegoria, l’installarsi di questa nell’abisso che si
spalanca tra immagine e sfera del significato, quest’ultima riconosciuta come del
tutto inattingibile, descrivono un’immagine che sempre più tende ad identificarsi
con un segno il cui rimando implode nella superficie caotica e arbitraria del
significante. Nel contrapporsi all’unità del simbolo estetico di cui parlano i
romantici, principale obiettivo polemico dell’ultima parte del Dramma barocco,
l’allegoria denuncia la lacerazione cui l’espressione è condannata e contrassegna
la modalità comunicativa che meglio corrisponde alla modernità. Nel saggio Di
alcuni motivi in Baudelaire, pubblicato nel 1940, dodici anni dopo il Dramma
barocco, l’allegoria è indagata nel suo rivolgersi verso l’interiorità della memoria
e del ricordo, nel suo confermarsi, nella tarda modernità di cui Baudelaire saluta
con lucido disincanto la fase inaugurale, come la modalità più appropriata per
descrivere le mutate condizioni dell’esperienza e della sua comunicabilità nella
dispersione della grande metropoli. È interessante notare che il potenziale critico
che la negatività della forma allegorica conserva ancora nelle liriche del poeta
francese, sembra esaurirsi ormai senza rimedio nella contemporaneità, in ragione
della catastrofe, innanzitutto sensibile e simbolico-comunicativa, di cui il progetto
tecnocratico, e il suo esponenziale sviluppo favorito dai due conflitti mondiali, è il
principale responsabile. Quale immagine è, a queste condizioni, ancora possibile e
in che termini è lecito riprogettarne gli specifici compiti, le specifiche funzioni?
Per rispondere a queste domande e introdurre il tema che principalmente mi
preme approfondire, ho ritenuto opportuno rivolgere l’attenzione agli scritti nei
quali Benjamin si dimostra attento interprete delle questioni che i movimenti
d’avanguardia portano criticamente in primo piano. Il saggio sul Surrealismo del
1929 mi è sembrato, a questo proposito, particolarmente significativo e ad esso
10
farò riferimento per cominciare a delineare il profilo del rapporto tra immagine,
tecnica e politica quale si viene abbozzando in questa fase del pensiero
benjaminiano.
Ma il capitolo si concentra principalmente sul saggio L’opera d’arte
nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del quale si tenta di restituire le
coordinate tematiche principali affrontando comparativamente due delle quattro
versioni che di esso sono state rinvenute: quella sulla quale si basa la prima
traduzione italiana e una versione precedente (la Zweite Fassung), scritta
probabilmente tra il 1935 e il 1936, oggetto di tagli e censure ad opera dell’Institut
für Sozialforschung. Analiticamente verrà preso in considerazione il concetto di
«aura», il cui complesso significato verrà declinato alla luce dei differenti contesti
in cui compare, mostrando come le evidenti oscillazioni che la sua interpretazione
ad opera di Benjamin manifesta abbiano a che fare con un’altrettanto complessa e
oscillante comprensione del fenomeno tecnico. Anche della questione della
tecnica si analizzeranno, per questa ragione, le diverse declinazioni, concentrando
l’attenzione sugli aspetti, talora discordanti, che della tecnica moderna vengono da
Benjamin di volta in volta presi in considerazione. Soprattutto si tenterà di rendere
maggiormente visibili le occasioni nelle quali l’autore suggerisce, o persino
tematizza, le opportunità connesse all’utilizzo delle procedure tecniche di
riproduzione dell’immagine; si tratta delle occasioni nelle quali Benjamin, in
stretta continuità con le posizioni di Bertolt Brecht, riflette sulla coimplicazione di
arte, tecnica e politica, mostrandone da un lato gli effetti degenerativi, dall’altro
accennando alla possibilità di rinvenire in essa le radici di un movimento di
emancipazione e produttiva trasformazione.
La questione del montaggio diviene, a questo proposito, centrale.
Nell’ultima parte del capitolo l’attenzione si concentrerà sulla specifica funzione
critico-decostruttiva nei confronti della tradizione che è possibile attribuire alle
procedure del montaggio, al tipo di immagine che esse producono e al tipo di
fruizione che esse prescrivono. Il montaggio, che non solo è oggetto della
riflessione di Benjamin, ma è anche da lui riconosciuto e adottato come metodo
compositivo più adeguato alla realizzazione del lavoro sui passages della Parigi
del XIX secolo -l’opera cui dedica, seppure discontinuamente, gli ultimi dieci
anni della sua vita- acquista infine un rilievo decisivo nei confronti del problema
della storia. A quest’ultimo tema, complesso e denso di problematiche che non
11
sarà possibile approfondire in questa sede, mi accosterò svolgendo alcuni
suggerimenti provenienti dagli studi dello storico dell’arte e filosofo Georges
Didi-Huberman, il quale ha meditato negli ultimi anni sul significativo rapporto
tra immagine, tempo storico e montaggio quale si configura nell’opera di Walter
Benjamin, dedicando particolare attenzione al concetto, tanto ampio quanto
sfumato, di «immagine dialettica».
Tecnica, immagine, storia sono i poli la cui reciproca risonanza le riflessioni
di Benjamin ci sollecitano a prendere in seria considerazione. Il capitolo si chiude
sulla questione, che per il momento si è solo affacciata all’attenzione, ma che gli
esiti più recenti del processo di tecnicizzazione imporranno come inaggirabile, del
problematico rapporto al passato e alla tradizione, rapporto che si ridefinisce oggi
in termini di accesso e di adozione e del quale occorre approfondite a questo
punto le specifiche condizioni tecniche.
Le possibilità e i modi dell’archiviazione di immagini e informazioni
determinate dall’attuale sviluppo delle tecnologie digitali, l’accesso analitico che
ad esse le medesime tecnologie consentono, i processi di traduzione tra media che
supportano le immagini e tra formati dell’immagine, operati dal codice binario,
costituiscono solo alcuni degli aspetti più eclatanti dello sviluppo delle tecnologie
informatiche. Tali innovazioni assumono un rilievo non trascurabile, esse
mediano, non senza lasciare tracce della loro mediazione, le condizioni d’accesso
e di trasmissione dei contenuti della tradizione e del passato storico e, al tempo
stesso, registrano un impatto decisivo sul lavoro delle facoltà umane di memoria e
immaginazione. Bernard Stiegler ha fatto di questi temi l’oggetto privilegiato
delle sue indagini, i cui primi importanti risultati sono raccolti nei tre volumi
attualmente pubblicati dell’opera dal titolo La technique et le temps. Nell’ultimo
capitolo tenterò di ripercorre le tappe salienti del pensiero, ancora in pieno corso
di elaborazione, di questo autore contemporaneo, il quale, svolgendo in modo
originale la lezione di Jacques Derrida, del quale è stato allievo, riconosce nel
fenomeno tecnico il grande rimosso del pensiero occidentale e da un
aggiornamento radicale della sua comprensione fa dipendere la possibilità stessa
di investigare in modo critico il nostro presente.
Il capitolo verrà articolato nel tentativo di presentare in modo esaustivo la
pluralità di tematiche che Stiegler affronta e di rendere conto della molteplicità di
autori con i quali egli intrattiene un fecondo colloquio. Particolare rilievo è
12
accordato all’interpretazione dell’opera dell’antropologo e paletnologo francese
André Leroi-Gourhan, dalla quale Stiegler mutua la tesi di una cooriginarietà di
antropogenesi e tecnogenesi, di un’originaria ‘tecnicità’ e ‘proteticità’ del modo
d’essere dell’uomo, e all’opera di un altro filosofo francese contemporaneo che
ampio spazio ha dedicato alla possibilità di indagare le autonome dinamiche di
sviluppo di una tecno-logia: Gilbert Simondon.
Ne emerge una comprensione della tecnica il cui tratto inedito consiste non
solo nell’affrancamento dai limiti di un’interpretazione antropocentrica in termini
di mezzo, strumento a disposizione dell’uomo, ma anche nel profilare il ruolo
costitutivo che la tecnica, in quanto supplemento originario, innanzitutto in
quanto supplemento di memoria, svolge nel determinare il rapporto al tempo. La
lettura decostruttiva della Fenomenologia della coscienza interna del tempo di
Husserl e dell’analitica esistenziale dello Heidegger di Essere e tempo appare a
Stiegler come il passaggio obbligato per introdurre quest’ultima, dirimente
questione: quella, che dà il titolo alla sua opera, del rapporto tra tecnica e
temporalità.
La questione della tecnica viene così riformulata nei termini di una
mnemotecnologia, in virtù della quale il rapporto al tempo appare
sovradeterminato dalle protesi tecniche (o mnemotecniche), delle quali la scrittura
costituisce un modello esemplare, ma che oggi possiamo identificare con la
molteplicità di supporti di memoria, immagini innanzitutto, diffusi dal sistema
mediatico della telecomunicazione audiovisiva, che del tempo sono traccia e
iscrizione. Due sono i temi che la riformulazione della questione della tecnica
proposta da Stiegler sottopone all’attenzione: il primo riguarda l’inevitabilità
dell’adozione dei supporti di memoria, che mediano non solo il rapporto al
passato vissuto e non-vissuto in essi tracciato, alla memoria individuale e
collettiva in essi iscritta, ma anche l’apertura progettuale all’avvenire; il secondo
si concentra sull’azione di ritorno che questa mediazione esercita sulle facoltà
umane di immaginazione e memoria. Di questa azione di ritorno il secondo e il
terzo volume di La technique et le temps sondano gli effetti degenerativi in
termini di progressiva «sincronizzazione» e uniformazione dei processi elaborativi
delle coscienze, indicando tuttavia nell’inaggirabilità della questione della tecnica,
in quanto mediazione non superabile, il terreno nel quale soltanto può e deve
maturare un’indagine critica capace, al tempo stesso, di evidenziare eventuali
13
aspetti emancipativi. Individuare quali siano tali aspetti è compito del quale
Stiegler riconosce l’improrogabilità e che, tuttavia, egli non assolve del tutto in
prima persona.
Non tenterò, nelle battute conclusive della tesi, di proseguire il gesto
inaugurato e lasciato incompiuto dalla ricerca di Stiegler, quello di indagare
analiticamente ed esemplificare le eventuali opportunità custodite nella
progressiva mediatizzazione dei modi di produzione, diffusione, fruizione delle
immagini, piuttosto tenterò di indicare le condizioni alle quali -e a questo scopo
mi è sembrato pertinente il riferimento al concetto derridiano di traccia- questo
processo può evitare un esito esclusivamente e radicalmente riduzionistico.
14
CAPITOLO I
IMMAGINE, MIMESIS E RAPPRESENTAZIONE NELL’EPOCA
DELLA RIPRODUCIBILITÀ TECNICA
I. 1 La vicenda modernista
Con il termine «modernismo» ci si riferisce a quella fase dell’arte moderna
che, inaugurata dal lavoro di Manet, culmina nella pittura astratta di artisti come
Kandinskij e Mondrian fino ad arrivare a coinvolgere il lavoro di Pollock e
Rothko, ma anche allo specifico orientamento che la teoria dell’arte adotta sotto la
spinta di colui che del termine modernismo può a buon diritto essere considerato
l’inventore: il critico americano Clement Greenberg. Abbiamo scelto di prendere
le mosse da qui, dal tentativo cioè di illustrare brevemente le coordinate teoriche
della posizione modernista, sia perché è perlopiù in un rapporto di continuità o di
aperta rottura con essa che si articolano le domande che la critica quanto la storia
dell’arte non smettono di porsi a fronte delle eterogenee declinazioni intraprese
dalle pratiche artistiche contemporanee, sia perché ci sembra che in essa, o
attraverso le reazioni polemiche che essa ha suscitato, vengano alla luce i
principali nodi problematici che il sistema dell’arte si trova a dover affrontare nel
ridefinire il proprio statuto e nel riprogettare i propri compiti.
Sebbene l’obiettivo di questa prima parte della ricerca sia quello di indagare
la peculiare configurazione dei rapporti che si intrecciano tra l’arte e le tecniche di
produzione e riproduzione dell’immagine nei decenni di nascita e diffusione dei
movimenti d’avanguardia, ci è sembrato opportuno, in via preliminare, accennare
15
alla costellazione di problematiche che questo particolare momento della storia
delle arti porta in primo piano. Non potendo entrare nel dettaglio delle questioni
che impegnano da tempo tanto la critica quanto la storia dell’arte contemporanea,
proponiamo di concentrare l’attenzione sul rapporto tra figurativo ed astratto,
nell’ipotesi che il fragile e mutevole assetto che esso va assumendo nei decenni a
cavallo tra il XIX e il XX secolo fornisca un’occasione interessante per indagare i
significativi spostamenti che il processo di rielaborazione dei concetti di mimesis
e di rappresentazione registra in questo particolare momento storico. Quel che è in
gioco è il problema dell’autonomia dell’arte e la messa in questione dei modi e
delle condizioni del suo rapporto con la ‘realtà’. Nello sconvolgimento che
l’assetto del sistema delle arti in questa fase denuncia, l’orizzonte plurale ed
eterogeneo dei dispositivi tecnici che innervano le forme di vita svolge un ruolo
centrale, riconosciuto fin da subito dalla riflessione teorica, ma non sempre
individuato -Walter Benjamin sarà il primo a farlo- come la condizione a partire
dalla quale è non solo possibile, ma anche doveroso interrogare lo statuto
dell’opera d’arte. Ci sembra del tutto perspicuo il suggerimento di Fabrizio
Desideri (2002) di interpretare il fenomeno, descritto e più volte ripreso da
Benjamin, del declino dell’«aura» dell’opera nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica come dotato di un’autentica «risorsa dialettica» (ivi, 20), capace di
vivificare e rinnovare la motivazione per l’arte di continuare a riflettere sulle
proprie specifiche modalità di investigazione del reale e sulle condizioni di
possibilità del rapporto ad esso. Individuare tale risorsa consente di concentrare
l’attenzione sul nodo aporetico che traspare in controluce in ogni esperienza
dell’opera d’arte: il nodo di mimesis e techne, di immediatezza, irripetibilità, e
mediazione delle procedure costruttive, che apre e descrive lo spazio intermedio
nel quale l’opera si installa e del quale sperimenta e perlustra le molteplici
traiettorie di percorribilità, ridisegnando sempre di nuovo la propria cornice
4
.
L’impatto delle nuove tecnologie di registrazione e riproduzione del visibile,
la fotografia in primo luogo, sulle arti tradizionali non poteva certo essere di lieve
entità; è sufficiente pensare ai toni pungenti con i quali Baudelaire
5
nel 1859
4
Il tema della cornice ha attratto gli sforzi di tanta parte della riflessione, ci limitiamo a segnalare
gli importanti interventi di Louis Marin (1987a) e di Jacques Derrida (in Id., 1978, pp. 41-81) e
l’esaustiva ricognizione che del tema fornisce Andrea Pinotti (in Id., 2007, pp. 225-236).
5
Cfr. Baudelaire, Il pubblico moderno e la fotografia (in Id.,1992, pp. 217-222): «In questi nostri
tempi tristi, è sorta una nuova industria che ha contribuito non poco a rafforzare la stupidità nella
16
salutava l’alba della rivoluzione tecnica dei mezzi di messa in immagine per avere
un saggio dell’accoglienza che, anche nei decenni successivi, buona parte del
panorama intellettuale avrebbe riservato alla loro piena diffusione; ma la reazione
-se così è lecito definirla, dal momento che una pluralità di fattori furono coinvolti
nel determinare i rivolgimenti di quella particolare fase della storia delle arti- alla
diffusione delle procedure tecniche di produzione delle immagini fu estremamente
complessa e tutt’altro che univoca.
La tesi più largamente diffusa, e a più riprese rielaborata, è che la comparsa
e la diffusione dei mezzi di riproduzione tecnica delle immagini provochi una crisi
profonda della funzione mimetico-rappresentativa tradizionalmente attribuita alle
arti figurative. Nel caso dell’Impressionismo
6
la consapevolezza della distanza tra
percezione e realtà
7
, che il dispositivo fotografico sollecita e acuisce, spingerebbe
le arti a concentrare l’attenzione sull’oggetto esterno così come i sensi lo
percepiscono, dando forma e concretezza all’immagine retinica
8
. Nei decenni che
propria fede e a distruggere quanto poteva restare di divino nello spirito francese. (…) Nella
pittura e nella scultura, il Credo attuale della società altolocata (…) è il seguente: “Credo che l’arte
sia e non possa essere se non la riproduzione fedele della natura (…). Perciò l’industria che ci
desse un risultato identico alla natura sarebbe l’arte assoluta”. Un Dio vendicatore ha esaudito i
voti di questa moltitudine. E Daguerre fu il suo messia. E allora la folla disse a se stessa: “(…)
l’arte è la fotografia”» (ivi, 219-220). In realtà ciò che in queste pagine Baudelaire condanna è
l’atteggiamento ottuso del pubblico, la massa che allora cominciava ad assumere la sua fisionomia,
che innanzitutto fraintende cosa sia l’arte («la riproduzione fedele della natura») e quali siano i
suoi compiti e che su questo primo equivoco fonda il secondo, quello sulla fotografia, alla quale
viene riconosciuta la possibilità tecnica di una riproduzione immediata dell’apparenza. In questo
stesso saggio Baudelaire non esita a considerare la fotografia, e l’accoglienza fortunata che le
riserva il pubblico, responsabile del declino dell’arte, da essa gradualmente soppiantata, e di una
progressiva e pericolosa atrofia del lavoro dell’immaginazione.
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Del rapporto tra fotografia e Impressionismo si è occupata buona parte dei teorici dell’arte
contemporanea. In un saggio della metà degli anni 70, successivamente pubblicato nella raccolta
dal titolo Le Photographique (Krauss, 1990, 53-66), Rosalind Krauss ce ne propone
un’interessante declinazione. La critica americana analizza il primo capitolo del modernismo,
l’opera pittorica di Manet, Monet, Degas, alla luce di una categoria esogena, il «fotografico»
appunto, prendendo una definitiva distanza rispetto ai concetti centrali del formalismo
modernista: «purezza» e «autonomia». La fotografia rivela «la distanza che esiste tra percezione
e realtà» (ivi, 65) e vi si installa riflessivamente, questa esperienza induce pittori come Monet e
Degas a mostrare sulle loro tele «lo scarto tra ciò che l’occhio vede della natura e ciò che la
natura vede di se stessa» (ivi, 62) e sollecita in loro l’interrogazione serrata delle problematiche
specifiche dell’arte e del suo rapporto con la ‘natura’.
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Arthur C. Danto teorizza, con un gesto dichiaratamente hegeliano, che la complessità del
rapporto tra percezione e realtà, che si impone in modo evidente in concomitanza con la diffusione
dei dispositivi tecnologici di rappresentazione, segna il compimento dell’arte storica, il cui motore
di sviluppo era stato il progresso delle tecniche della rappresentazione, capaci di ridurre sempre
più e sempre meglio la distanza tra stimolazione ottica reale e stimolazione pittorica. La sua tesi
storica sostiene, detto in estrema sintesi, che «il compito dell’arte di produrre equivalenze di
esperienze percettive sia passato, alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo, dalle attività della
pittura e della scultura a quelle della cinematografia» (Danto, 1986, 123).
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Sul concetto di immagine retinica, in quanto oggetto della pittura impressionista e sulla
possibilità dell’occhio impressionista, emancipatosi dalla tradizione accademica, di recuperare una
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