Dinamiche interne a ciascun litorale e internazionali hanno inevitabilmente
determinato, come si sottolinea nel terzo capitolo, un’alternanza di contrasti e
convergenze nelle relazioni intra-mediterranee. Inizialmente mossa da logiche di
profitto e sempre più spinta da interessi di stabilità in una cornice che dal campo
economico all’ambito sociale fino al settore politico si è caratterizzata per una
crescita esponenziale delle asimmetrie, l’Europa ha svolto senza dubbio una funzione
decisiva nel fissare con il mondo arabo, nonostante le difficoltà, un canale di dialogo
permanente. Con la fine della guerra fredda e la diffusione dell’emergenza
terroristica dopo l’11 settembre, un insieme di fattori- dall’annoso conflitto in
Palestina alla stabilizzazione dell’Iraq post-Saddam, dal ruolo di Turchia ed Iran, due
pedine fondamentali della periferia non araba, al complesso rapporto tra Washington
e Bruxelles nelle azioni verso il bacino- ha acquisito, come evidenziato nel quarto
capitolo, una notevole importanza sull’avvenire della cooperazione tra le due rive.
Nell’era dell’interdipendenza globale e della costruzione di unioni macro-
regionali non è possibile pensare il Mediterraneo come area di nuove e rigide
spartizioni. Il mare interno è stato spesso vittima della sua ricchezza storica,
prigioniero di miti che hanno distorto la memoria collettiva, producendo un circolo
vizioso, dove la cultura del sospetto e l’idea di vulnerabilità si sono alimentati
reciprocamente. Le diversità non hanno tuttavia mai scalfito il desiderio di contatto
tra gli attori rivieraschi e il loro senso di co-appartenenza al bacino. Nella
conformazione geografica e nella stessa radice etimologica del nome questo mare-
frontiera riflette una capacità di mediazione che ha solo bisogno di esprimersi per
consentire al Mediterraneo di tornare ad essere motore di sviluppo dei popoli delle
due sponde e in generale di un nuovo progresso umano.
6
2.2 Novità e limiti del programma EuroMed
2.2.1 Il cosviluppo, una meta da inseguire
Con il lancio del Partenariato Europa, Maghreb e Machrek dimostrarono di aver
compreso che la condivisione di un insieme di problematiche, dallo squilibrio
demografico alla pressione migratoria, dall’emergenza ambientale alle
disuguaglianze economiche, imponeva loro una politica di corresponsabilità
regionale per portare stabilità e sviluppo nel bacino mediterraneo. Il progetto
promosso a Barcellona evidenziava un salto di qualità nell’impianto concettuale, in
quanto veniva spezzato il legame con il passato coloniale, affermando un principio
d’integrazione fondato sulla pari dignità di ciascun attore partecipante. Mentre “la
Politica globale o rinnovata si limitava ad una polverizzazione dello statuto degli
interlocutori”
1
, la nuova filosofia di dialogo ne richiedeva invece il pieno
coinvolgimento. A una linea di collaborazione incerta e dominata da logiche
assistenziali-mercantiliste subentrava un disegno politico più impegnativo, orientato
a mobilitare le risorse materiali e umane dei Ptm in un piano di rilancio delle
relazioni tra le due sponde. L’obiettivo ambizioso di rendere il mare interno uno
spazio comune di pace, stabilità e benessere rappresentava un sogno collettivo da
realizzare con un approccio ad ampio raggio, per garantire una gestione migliore
delle sfide che si profilavano all’orizzonte. Al termine della Conferenza fu adottata
una Dichiarazione di Principi accompagnata da un Programma di Lavoro che,
riprendendo l’ormai collaudato modello a ‘cesti’ della Csce, articolava l’attuazione
della cooperazione in tre settori d’intervento:
- Capitolo politico e di sicurezza, promosso per favorire un dialogo regolare e
trasparente, basato sul rispetto e lo sviluppo dello stato di diritto, della democrazia e
dei diritti umani,
- Capitolo economico e finanziario, volto ad assicurare ai Ptm una crescita socio-
economica equilibrata e a sostenere la loro integrazione sub-regionale attraverso il
sostegno finanziario europeo allo scopo di creare una zona di libero scambio entro il
2010,
1
B.Khader, Dalla Cooperazione al Partenariato, in <<Politica Internazionale>>, n.4/5 1995, p.22.
97
- Capitolo culturale, sociale e umano, pensato per avvicinare i popoli del bacino e
facilitarne la comprensione reciproca, incoraggiando le iniziative di dialogo tra le
società civili delle due rive.
Assunta come modello l’esperienza integrativa europea, il partenariato puntava sulla
forza motrice del progresso economico, confidando negli effetti spill over che esso
avrebbe generato in termini di stabilità politica. Con il passaggio da un sistema di
concessioni tariffarie settoriali a una strategia regionale di liberalizzazione si
proponeva ai paesi della sponda sud-orientale una graduale apertura dei loro mercati
alla competizione con gli stati produttori comunitari per quanto riguarda i beni
industriali, concedendo invece il mantenimento di un regime di accesso preferenziale
su basi reciproche per il settore agricolo
2
. Assecondare il nuovo trend fissato in
materia di scambi dall’Omc risultava una scelta pressoché obbligata per evitare di
essere esclusi dalle logiche dell’economia globale e risolvere il problema del
pagamento del debito, beneficiando del sostegno finanziario predisposto dalla Banca
Mondiale (BM) e dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). La conversione dei
Ptm ai principi del libero mercato costituiva un netto rovesciamento di tendenza
rispetto alla tradizionale impostazione dei rapporti e comportava un vasto
programma di riforme: occorreva non solo favorire il riorientamento dei sistemi
produttivi attraverso la diversificazione industriale, ma anche arrestare il forte
interventismo pubblico con la definizione di una rete d’infrastrutture amministrative
e giuridiche trasparenti e in grado di agevolare l’afflusso di investimenti diretti esteri
(Ide). L’Ue s’impegnava a promuovere trasferimenti tecnologici e risorse finanziarie
per creare alternative occupazionali, ridurre i differenziali di reddito e frenare di
riflesso la spirale migratoria e la presa di consensi dell’estremismo islamico. Il
progresso tecnico e l’afflusso di capitali avrebbero contribuito infatti alla formazione
di un ceto imprenditoriale capace di stimolare l’apertura della società e di sollecitare
il rinnovamento democratico. L’insieme degli obiettivi venne fissato tra Bruxelles e
ciascun partner in un quadro di accordi di associazione euro-mediterranea (AAEM).
Il traguardo di una zona di libero scambio rappresentava un obiettivo ambizioso che
2
Per lo smantellamento delle barriere, tariffarie e non, veniva concesso ai Ptm un periodo
transitorio di dodici anni in vista della data-obiettivo del 2010 per la creazione della zona di libero
scambio.
98
avrebbe reso il ‘mare interno’ il polo economico più grande su scala mondiale, ma la
sua realizzazione dipendeva dal rafforzamento sia della cooperazione Nord-Sud, sia
dell’integrazione inter-araba. Occorreva incoraggiare la creazione di mercati sub-
regionali in modo da aumentare l’interdipendenza orizzontale attraverso la mobilità
di capitale umano e finanziario e incrementare il potere contrattuale arabo nei fori
internazionali. Esponendo i paesi della riva meridionale a una trasformazione così
radicale, il Partenariato rischiava di generare contraccolpi negativi nel breve-medio
termine, causando un approfondimento degli squilibri esistenti. Furono di
conseguenza assicurate misure compensative per coprire i costi della liberalizzazione
e contenere le possibili frizioni socio-economiche. Considerando la vastità delle
iniziative previste venne deciso infatti un incremento sostanziale degli aiuti,
integrando i prestiti concessi dalla Bei e i contributi bilaterali dei governi europei con
i fondi del programma MEDA
3
. A differenza della tradizionale formula dei protocolli
la nuova linea di bilancio offriva su basi multilaterali un pacchetto di risorse, la cui
distribuzione era subordinata alla performance dei paesi beneficiari in termini di
progressi compiuti sul piano degli interventi strutturali e di rispetto dei principi di
democrazia e dei diritti umani. Impegno finanziario dell’Ue e volontà di riforma dei
Ptm costituivano perciò i due capisaldi da cui dipendeva la realizzazione di relazioni
più competitive e stabili tra le due sponde.
Con il superamento delle preferenze commerciali la reciproca apertura
all’interscambio e la promozione degli investimenti esteri diventavano le nuove
coordinate della strategia comunitaria nel bacino. Privatizzazioni, flessibilità e
profitto rappresentavano dei punti fermi per raggiungere il traguardo di una zona di
libero scambio, ma la prosperità di un mercato inter-regionale non poteva
prescindere dalla completa pacificazione dell’area e dalla formazione di un modo di
pensare e di agire comune tra gli attori rivieraschi. La conformità alla Carta Onu, al
diritto internazionale e alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo espressa
alla Conferenza di Barcellona dimostrava come la tutela della legalità costituisse il
prerequisito per fare del Mediterraneo una comunità non solo di produttori e
3
Circa il 90% delle risorse era destinato alle iniziative bilaterali in tema di libero scambio, mentre
il restante 10% copriva i programmi regionali che riguardavano tutti e tre i settori d’intervento. Per il
periodo 1995-‘99 il budget fissato ammontava a 4.685 milioni di euro, pari al doppio della cifra messa
a disposizione nei precedenti protocolli finanziari.
99
consumatori, ma prima ancora di cittadini responsabili. Il Partenariato rifletteva una
strategia di compartecipazione volta ad interessare tutte le sfere di attività umana e
valorizzare una prossimità spesso compromessa da una conoscenza limitata e pervasa
da pericolosi stereotipi. La presa di coscienza che le spinte al riarmo, le migrazioni di
massa e le derive integraliste erano determinate anche dall’assenza di spazi di
dialogo democratico e di rispetto dei diritti spinse ad aprire la cooperazione sul piano
politico e sociale. Ampliando i contenuti del discorso tra le due sponde, l’Ue
dimostrava di avere una nuova visione strategica del ‘mare interno’ ed esprimeva la
volontà di affrontare le sue problematiche su un piano realmente globale.
Trasformare in profondità le relazioni nel bacino significava assumere una
cognizione più matura del concetto di sviluppo e considerarne come fattore
costitutivo non solo la crescita economica, ma anche l’istruzione, la sicurezza, il
benessere sociale e la partecipazione politica. Bruxelles s’impegnava a garantire una
collaborazione a tutti i livelli con i partner del litorale meridionale, pretendendo però
da quest’ultimi che si dotassero, nel rispetto delle loro diversità culturali, di
istituzioni di governo trasparenti e responsabili, capaci di garantire libertà e
pluralismo. Per rafforzare il carattere regionale del progetto di cooperazione, al
classico sistema dei rapporti bilaterali previsto per la definizione degli accordi venne
affiancata una cornice di discussione multilaterale. A livello governativo fu elaborata
una struttura informale basata su riunioni periodiche dei ministri degli affari esteri e
su conferenze tematiche condotte da esperti, accompagnata dalla creazione di un
Comitato euro-mediterraneo, composto da rappresentati della troika dell’Unione e di
ciascun Ptm ed incaricato di aggiornare l’agenda di lavoro, beneficiando
dell’assistenza della Commissione europea
4
. L’istituzionalizzazione di un dialogo
politico regolare rispondeva all’esigenza di accorciare le distanze ideologiche,
favorendo un clima di maggior fiducia reciproca e di avvicinare le percezioni
strategiche attraverso l’adozione di un linguaggio comune. Alla competitività
richiesta dal mercato occorreva però associare anche la solidarietà civile per
assicurare carattere duraturo e trasparente alle relazioni tra i popoli del bacino e
allontanare le insinuazioni disgreganti delle frange estremiste. In quest’ottica negli
4
Per le questioni relative al primo capitolo fu istituito uno specifico Comitato di alti funzionari,
coadiuvato periodicamente dal Consiglio dei Ministri dell’Ue.
100
stessi giorni della Conferenza il governo regionale catalano e le autorità spagnole
appoggiarono l’istituzione di un Forum civile Euromed, allo scopo di coinvolgere i
vari attori, dal settore imprenditoriale a quello sindacale, dai circoli universitari alle
organizzazioni non governative, in progetti destinati ad esercitare una spinta
propulsiva nella transizione democratica dei paesi del litorale meridionale e in
generale a rafforzare la coesione tra le due sponde. I canali di contatto nei quali la
società civile diventava “soggetto a pieno titolo”
5
a sostegno del quadro d’azione
politica costituivano la novità più interessante del progetto inter-regionale ed
aprivano orizzonti inediti per le relazioni nel mare interno. Assumendo la
cooperazione decentrata come variabile strutturale del processo di collaborazione
intrapreso, si spostava decisamente l’attenzione sulle comunità locali, confidando
nella loro capacità di escogitare nuove dinamiche di conoscenza e proporre soluzioni
originali per restituire centralità al bacino. Solo superando il carattere assistenziale
dei rapporti con la promozione di uno scambio in senso lato, ossia una saldatura di
contenuti economici, politici e sociali, si poteva offrire al Partenariato la possibilità
di porsi come “l’anticamera del cosviluppo”
6
. Ue e Ptm erano perciò chiamati a uno
sforzo congiunto nel coniugare risorse e bisogni, sinergie produttive e culturali per
consentire al Mediterraneo di raggiungere quella stabilità, che gli avrebbe permesso
di affermarsi come polo strategico sulla scena mondiale.
2.2.2 Le ambiguità irrisolte
La strategia euro-mediterranea segnò indubbiamente un momento di rottura
rispetto alle tradizionali politiche unilaterali comunitarie, in quanto la sua filosofia
d’azione nei contenuti e nella stessa terminologia modificava profondamente la
natura dei rapporti tra gli attori rivieraschi. Il Processo di Barcellona, pur
sottolineando l’avvento di una concezione qualitativamente diversa da quella fino ad
allora dominante, costituiva il frutto di una dichiarazione politica, per cui la
realizzazione della sua piattaforma di principi poggiava solamente sulla volontà degli
stati partecipanti. Con l’estensione del progetto dal Maghreb al Machrek l’Ue aveva
espresso l’intenzione di evitare cooperazioni differenziate che potessero ripercuotersi
5
R.Pepicelli, 2010: un nuovo ordine mediterraneo?, Mesogea, Messina, 2004, p.42.
6
A.Amato, La <<svolta>> di Barcellona, in <<Politica Internazionale>>, n.4/5 1995, p.49.
101
sulle già fragili relazioni orizzontali. Rinunciando a fissare un accordo quadro
comune a tutti i Ptm, Bruxelles aveva tuttavia privato il Partenariato dell’opportunità
di esprimersi in un’ottica effettivamente regionale e confermava la tendenza a
privilegiare la verticalità dei rapporti, favorendo uno sviluppo individualistico che
rischiava di indebolire ulteriormente l’interscambio Sud-Sud. I decenni di
cooperazione trascorsi nel bacino avevano risentito delle profonde disparità tra le due
sponde in termini di coesione interna: mentre l’Ue costituiva un polo d’integrazione
avanzato e con un potere d’influenza notevole, gli stati del litorale meridionale erano
legati tra loro da relazioni fragili e discontinue. Anche se la Dichiarazione di
Barcellona rappresentava la prima intesa comune raggiunta tra i paesi delle due rive,
i suoi contenuti riassumevano le proposte elaborate dalla Commissione e il fatto che
a quest’ultima fosse affidata in sostanza la ‘regia istituzionale’ del Processo
dimostrava il ruolo trainante comunitario e l’inesistenza negoziale dei Ptm per via
delle loro divisioni. D’altra parte lo stesso appellativo euro-mediterraneo, ‘isolando’
la componente europea dal resto del bacino, contribuiva a legittimare una relazione
asimmetrica al suo interno, alimentando molti dubbi sulla prospettiva di fare del
Partenariato un dialogo su basi paritarie. In un contesto caratterizzato da un’Europa
proiettata verso il traguardo di un’unione economica e monetaria e da una sponda
Sud priva invece di omogeneità al suo interno, gli sforzi di Bruxelles avrebbero
dovuto concentrarsi sull’obiettivo di riunire i paesi arabi, rivieraschi e non, in una
cornice di dialogo che favorisse tra loro la formazione di una rete di fiducia, per
raggiungere quella solidarietà conquistata dalle potenze continentali nel corso della
loro esperienza comunitaria. Il Processo di Barcellona limitò invece la sua proiezione
strategica e preferì dare priorità alle aree più prossime, lasciando a margine
l’hinterland arabo non mediterraneo, in particolare gli stati del Golfo con i quali le
relazioni erano entrate in una fase di stallo dopo l’accordo di cooperazione siglato
alla fine degli anni Ottanta. La loro esclusione era ingiustificata sia per il forte
rapporto d’interdipendenza esistente nel settore energetico sia per le implicazioni che
questo esercitava in termini di sicurezza sul bacino. Si trattava di una scelta
incoerente non solo per l’adesione al Partenariato di paesi membri dell’Ue distanti e
spesso indifferenti alle dinamiche del ‘mare interno’, ma anche per il rischio di
frammentare ulteriormente i legami inter-arabi tramite un piano di cooperazione che,
102
vincolando solo gli stati litorali, ignorava la continuità geo-economica e culturale
esistente tra questi e i paesi dell’entroterra. L’assenza di Libia e Mauritania
7
, membri
dell’Uma, contribuiva a rafforzare nei Ptm l’idea che l’iniziativa europea
contrariamente alle dichiarazioni ufficiali fosse mossa dall’intento di spezzettare il
mondo arabo, annullandone la capacità propositiva negli obiettivi d’integrazione sub-
regionale
8
. Bruxelles mancò sostanzialmente di lungimiranza, poiché non riuscì ad
approfittare dei rivolgimenti geopolitici innescati dal tramonto della competizione
bipolare per stabilire un quadro d’interdipendenze più ampio, assottigliando quindi le
opportunità di affermazione unitaria per il mondo arabo.
L’incapacità di formalizzare giuridicamente la dinamica regionale contribuì
anche a limitare il quadro istituzionale incaricato di monitorare l’evoluzione del
progetto, poiché impedì di creare organi autonomi e permanenti, ad eccezione del
Comitato euro-mediterraneo, determinando in generale lo slittamento a una modalità
di cooperazione tradizionale, affidata agli strumenti della diplomazia. Nonostante la
formazione del Forum civile EuroMed contribuisse a diversificare i canali di
comunicazione e a compensare parzialmente il deficit della struttura governativa, la
debolezza dell’impegno multilaterale agevolava la conferma del bilateralismo nella
gestione delle relazioni nel bacino, ostacolando l’emergere di un senso di
responsabilità collettiva. Di fronte all’assenza di un pieno consenso sul piano degli
interessi e delle prospettive il Partenariato rappresentava la soluzione di dialogo più
flessibile per inserire in un contesto di solidarietà l’evoluzione dei rapporti tra le due
sponde. La difficile composizione della conflittualità mediorientale e il rischio
avvertito dai paesi arabi, in particolare da Siria e Libano, che la cornice di
cooperazione fissata con Bruxelles si rivelasse una cornice negoziale ‘mascherata’,
costrinsero tuttavia a ridurre gli obiettivi politici e di sicurezza per non entrare in
competizione con il Processo di pace arabo-israeliano. Nonostante l’allargamento dei
7
La Mauritania faceva parte del quadro di cooperazione fissato dalla Convenzione di Lomé con i
paesi Acp e la sua partecipazione al Partenariato era limitata allo status di osservatore in quanto
membro del’Uma. La Libia fu invece totalmente esclusa dal Processo di Barcellona ufficialmente per
la mancanza di relazioni contrattuali con l’Ue, anche se nel concreto avevano inciso i dissapori
esistenti con i governi europei a causa delle relazioni del governo di Tripoli con il terrorismo
internazionale.
8
Anche la Lega Araba e l’Uma, uniche istituzioni di carattere regionale presenti nella sponda Sud,
partecipavano in effetti al Partenariato solo a titolo di osservatori.
103
contenuti di cooperazione alle tematiche politiche e sociali dimostrasse l’intenzione
di valorizzare positivamente la prossimità, il fattore economico continuava ad essere
il principale motore della strategia dell’Ue nel mare interno. L’impegno comunitario
era però segnato da alcune contraddizioni di fondo, in quanto Bruxelles da un lato
sponsorizzava il passaggio ai principi del libero mercato, ma dall’altro non riusciva a
svincolarsi da una logica protezionistica nel settore agricolo, asse portante
dell’economia dei Ptm, determinando per quest’ultimi un prezzo non indifferente in
termini di crescita della disoccupazione e dei flussi migratori. L’assenza non solo di
un accordo globale d’integrazione regionale ma anche di una completa
liberalizzazione rischiava infatti di provocare la costruzione di aree segmentate di
libero scambio. Gli interventi previsti poggiavano su uno schema semplicistico di
relazioni meccaniche tra aggiustamento strutturale, investimenti e crescita che
tendeva a sopravvalutare la capacità di adattamento dei partner mediterranei,
accentuando i dubbi sulle possibilità di risolvere concretamente gli squilibri esistenti.
Occorreva dare maggior coerenza alle politiche economiche comunitarie,
modellando le scelte di riforma sulla base di orientamenti condivisi per raggiungere
un’effettiva complementarietà tra i modelli di sviluppo delle due sponde. Pur avendo
l’obiettivo di superare le incomprensioni del passato e migliorare le immagini
reciproche, l’iniziativa di Bruxelles continuava poi ad alimentare scetticismo, perché
dimostrava di essere motivata più dalla necessità di difesa contro le tensioni
provenienti dal fianco meridionale, che dalla effettiva volontà di sostenere i paesi
arabi in una soluzione di sviluppo funzionale ai loro bisogni. L’esclusione della
libertà di movimento delle persone rappresentava in effetti un limite imbarazzante
per un progetto di cooperazione che affidava al dialogo tra le società civili il ruolo di
favorire una più efficace comprensione tra le due sponde. Nel bacino erano
obiettivamente concentrati i maggiori squilibri: tendenze demografiche esplosive e
prospettive economiche modeste avevano trasformato la questione migratoria in una
minaccia, che veniva rafforzata dall’avanzare prepotente dell’Islam radicale. Il
timore di un allargamento del fascio d’instabilità al Vecchio Continente rafforzava il
dilemma di sicurezza europeo, innescando un protezionismo culturale incoerente con
il principio di compartecipazione promosso dal Processo di Barcellona. Inoltre
mentre verso l’Est europeo l’Unione era portata a nutrire sentimenti di solidarietà
104
nonostante le esperienze politiche ed economiche profondamente divergenti causate
dalla guerra fredda, nei confronti dei paesi della sponda sud-orientale si avvertiva un
senso di preoccupazione, poiché l’apertura ad essi significava avvicinarsi a non
europei, a popoli con un costume politico e sociale estraneo. Per evitare che il
Partenariato rimanesse solo uno ‘scudo’ utile a proteggere un’Europa attraversata da
un forte senso d’insicurezza, era quindi necessario imprimere maggior incisività alle
iniziative sul piano multilaterale, rendendo ciascuna sponda consapevole di “una
interdipendenza di destino”
9
da cui trarre opportunità concrete di cosviluppo per
costruire una stabile comunità politica ed economica inter-regionale.
2.3 La difficile costruzione di un legame di fiducia
2.3.1 La Carta per la Pace e la Stabilità
Dal nazionalismo arabo alla causa palestinese, dalla questione petrolifera alle
ingerenze americana e sovietica durante l’epoca bipolare, diversi fattori avevano
ostacolato la crescita della cooperazione politica tra le due sponde. Con il lancio del
Processo di Barcellona si presentò l’opportunità di aprire un dialogo strutturato per
favorire la stabilizzazione dell’area mediterranea. Il deterioramento del quadro
negoziale arabo-israeliano
10
consumò tuttavia ben presto il clima di ottimismo che
aveva circondato l’avvio del Partenariato, ponendo per quest’ultimo il rischio di una
precoce paralisi. Di fronte al riacutizzarsi delle tensioni Europa e Ptm erano chiamati
al difficile compito di attenuare gli inevitabili contraccolpi dello stallo diplomatico,
dimostrando una ferma volontà di pacificazione. Il blocco delle trattative
11
spinse
durante la II Conferenza ministeriale a Malta nel 1997 a fissare alcune misure di
confidence e security building (CSBMs), allo scopo di creare tra gli attori rivieraschi
una struttura normativa comune capace di aprire un discorso in tema di limitazione e
controllo degli armamenti, in attesa nel lungo periodo di tradurre i principi della
Dichiarazione di Barcellona in una Carta Euro-Mediterranea per la Pace e la
9
A.Badini, I compiti dell’UE nel Mediterraneo, in <<Politica Internazionale>>, n.6, 1998, p.117.
10
Il blocco del Processo di Pace fu causato soprattutto dal cambio di governo avvenuto in Israele
con l’ascesa della destra nazionalista di Netanyahu.
11
L’arresto della ‘macchina’ diplomatica era grave in particolare per il venir meno del forum
multilaterale sul controllo delle armi e della sicurezza regionale (Acrs) che, ad eccezione di Siria,
Libano, Iraq ed Iran, comprendeva tutti i paesi dal Nord Africa al Golfo.
105
Stabilità
12
, ossia un patto di sicurezza analogo a quello realizzato nel Vecchio
Continente con gli stati dell’ex blocco sovietico
13
. Si trattava di un progetto molto
ambizioso, la cui attuazione si scontrava però con il gap esistente tra le culture di
sicurezza delle due sponde: i paesi europei provenivano da una preziosa esperienza
di collaborazione, maturata principalmente in ambito Nato e poi con la Csce, mentre
i Ptm continuavano ad essere dominati da logiche di equilibri di potenza ereditati
dalla guerra fredda e rafforzati da rivalità regionali e violenze interne, che
contribuivano a fare della difesa degli interessi nazionali la priorità delle loro agende
di governo. Le classi dirigenti arabe nonostante la crescente perdita di consenso
associata alla debole performance economica sfruttavano il protrarsi del contenzioso
mediorientale per mantenersi al vertice e vincolavano alla sua soluzione politica e al
relativo raggiungimento di una parità strategica con Israele la possibilità di aderire a
una rete di cooperazione in tema di sicurezza. L’esclusione dalla sfera d’azione del
Partenariato non solo della questione palestinese ma anche di quei paesi del Golfo,
come Iran e Iraq, la cui corsa al riarmo esercitava una forte influenza sulle dinamiche
di comportamento dei paesi del bacino, rafforzava poi la percezione di una
sostanziale unilateralità degli obiettivi fissati a Barcellona. I Ptm rivendicavano
infatti un principio d’indivisibilità della sicurezza mediterranea, nella convinzione
che le problematiche Sud-Sud dovessero essere comprese nel quadro delle esigenze
di stabilizzazione delle due sponde. La tendenza dell’Ue a presentarsi come potenza
civile, priva della necessaria competenza in campo politico-militare e l’influenza
esercitata su Bruxelles dagli interessi americani nell’area costituivano indubbiamente
un limite per i progressi nel primo capitolo del dialogo euro-mediterraneo. Si
avvertiva inoltre nei confronti del Partenariato un senso di estraneità, in quanto la
12
Inizialmente si era pensato di tradurre i principi del Partenariato in un Piano d’Azione, un’agenda
di misure operative riguardanti sei settori di attività:
- rafforzamento della democrazia,
- diplomazia preventiva,
- misure di confidence e security building (CSBMs),
- disarmo,
- terrorismo,
- crimine organizzato.
13
Occorre però ricordare che l’adesione dei paesi dell’Europa centro-orientale al patto di stabilità
promosso da Bruxelles costituiva una condizione implicita per la futura membership comunitaria, per
cui le loro motivazioni erano ovviamente superiori a quelle che potevano nutrire i Ptm nell’aderire al
modello di sicurezza europeo.
106