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seconda della consistenza del prodotto può essere svolta secondo
varie modalità, di apporre direttamente sul bene il nome del paese
di cui quel bene è originario. L’espressione “indicazione di origine”
richiama, invece, maggiormente il contenuto della dicitura apposta
1
.
Effettuato questo chiarimento circa il significato da attribuirsi
all’espressione “marchio di origine”, è d’uopo, a mio modo di
vedere le cose, svolgere una serie di considerazioni in relazione
alla terminologia utilizzata dal legislatore nazionale, quanto quello
comunitario che internazionale.
Il marchio di origine, come abbiamo visto consiste
nell’apposizione della dicitura “made in” o simili seguita dal paese
di provenienza. All’espressione, di regola, non viene data alcuna
caratterizzazione qualitativa, tanto da farla rientrare nella
classificazione delle indicazioni di origine o provenienza semplici.
Vista la confusione terminologica all’interno della disciplina
delle indicazioni di origine occorre, come accennato svolgere delle
considerazioni.
Oggi siamo abituati a parlare di denominazioni di origine e
indicazione geografiche, mentre si parlava un tempo di
1
Laura Carola Beretta, in Oltre le violazioni della proprietà intellettuale: la violazione del
marchio di origine “Made in Italy”. Le risposte italiane ed europee, pubblicato in Jullion M.,
Mandrieux L., “Mediare e rimediare: la contraffazione nella prospettiva franco-italiana ed
internazionale”Aracne Editrice, Roma.
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denominazioni di origine e indicazioni di provenienza. Aldilà della
diversa connotazione terminologica è chiaro che il concetto che si
vuole considerare è quello dei nomi geografici o che comunque
evochino un luogo geografico.
Questa è una materia che per molti anni è stata, e continua ad
essere confusa. Abbiamo avuto un'unica volenterosa dottrina nel
nostro paese che si è occupata del tema, ma nonostante lo sforzo di
quest’ultima il dibattito sul tema è stato e rimane aperto. Il
problema principale risiedeva nel fatto che i termini indicazioni di
provenienza e denominazioni di origine, si prestavano a vari
significati, e venivano utilizzati in diverse accezioni. Soprattutto le
prime si sono prestate a diverse interpretazioni e secondo alcuni si
potevano riferire alla provenienza geografica, secondo altri ad una
provenienza aziendale.
Dovendo ora affrontare il problema, bisogna tener conto che
delle indicazioni geografiche se ne erano occupate anche civiltà
dell’antichità tra cui i greci e i latini ma nell’ambito di questo
lavoro sarà presa in considerazione l’evoluzione normativa a partire
dal XIX secolo in poi
Le indicazioni geografiche in relazione ai prodotti vengono in
considerazione con la Convenzione di Parigi per la protezione della
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proprietà industriale che risale al 1883. Nel 1883 questa celebre
convenzione, tutt’ora in vita, nella sua prima redazione prevedeva
agli articoli 9 e 10 delle disposizioni sulla falsità o fallacità delle
indicazioni. Quando tali denominazioni venivano apposte su dei
prodotti, se le stesse risultavano mendaci, si prevedeva che i paesi
aderenti disponessero il sequestro; era prevista, apparentemente,
poi vedremo perché una sanzione di diritto pubblico. Ma la
convenzione all’ art 10, riferendosi poi alle indicazioni false
relative alla provenienza dei prodotti dispone che “le disposizioni
dell’articolo relative al sequestro saranno applicate in caso di
utilizzazione diretta o indiretta di una indicazione falsa della
provenienza del prodotto” e in relazione a questo divieto si
riconosceva come parte interessata, quindi conferiva legittimità
processuale, ad ogni produttore, fabbricante o commerciante
stabilito nel luogo espressamente indicato come luogo di
provenienza.
Questo da occasione di dire che l’importanza delle
denominazioni è inerente al discorso in cui ci si trovi di fronte a
prodotti il cui luogo di produzione influenza la qualità del prodotto.
La Convenzione di Parigi è la prima nella società proto-
industrializzata che tenta di occuparsi del binomio origine-qualità.
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Tuttavia a questo stadio, ossia quello in cui se ne interessa
detta Convenzione, anche se probabilmente il legislatore
internazionale era stato influenzato da considerazioni di tutta lealtà,
nulla si dice sulla specifica natura dei nomi geografici che sono
state imitati, ma ci si limita ad introdurre un divieto cui i Paesi
unionisti dovranno in qualche modo ottemperare. Dunque questo
divieto è un divieto generalizzato. Ciò che la convenzione si limita
a dire è che non si può comunque usare una indicazione di
provenienza del prodotto che non sia vera. Non importa ancora, per
esempio, che la denominazione che si adopera sia particolarmente
qualificata, ma siamo ancora nel campo delle denominazioni di
origine semplici.
L’aspetto finora preso in considerazione dalla Convenzione
ancora non è ancora assestato su un binomio di origine e qualità che
sarà sviluppato solo successivamente, e che qui troviamo in una
fase, per così dire, primitiva.
La fase successiva è quella dell’ Accordo di Madrid del 1891
relativa alla repressione delle indicazioni di provenienza false o
fallaci. Sembra anche qui che la considerazione della natura
specifica della denominazione imitata, o usata fallacemente, non
sia presa in considerazione. Ciò che importava anche qui era che si
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dicesse il vero circa le denominazioni tralasciando la qualificazione
delle stesse.
Nel regime di queste due convenzioni, peraltro ancora in
vigore, sembrerebbe che non si possano usare indicazioni di
provenienza nel caso in cui non siano rigidamente vere. Ciò ha un
influsso sul fatto viceversa normalmente si riconosce che certe
denominazioni geografiche che non hanno palesemente nulla a che
fare con la qualità del prodotto, o più generalmente con il prodotto
in generale, possano essere liberamente usate. Il discorso è utile per
inserire il concetto denominazioni usate in funzione di fantasia.
Sono molti i casi in cui è stata usata una denominazione geografica
in funzione di fantasia, e sono rari i casi in cui si sia discussa la loro
liceità ( per esempio, nel nella dicitura “Caramelle Timbuctù”,
l’associazione del prodotto con il luogo di fantasia che viene
associato a queste, non sta ad indicare alcuna connessione con una
qualità intrinseca del prodotto).
In entrambe le Convenzioni la sanzione era quella del
sequestro in dogana. Prima si accennava alla natura pubblicistica
del sequestro in dogana. Una natura in realtà fittizia, in quanto non
tutti i Paesi aderenti conoscevano allora la misura del sequestro in
dogana; quindi si auspicava che questi Paesi adottassero una
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sanzione simile o al limite arrivassero addirittura a soluzioni
civilistiche.
Passiamo ora all’Accordo di Lisbona del 1958. Rispetto alla
legislazione precedente prevede due svolte. Da una parte prevede
un regime di registrazione di queste denominazioni come
condizione per la loro tutela da parte del Paese aderente. Mentre
prima, invece, si diceva , indicazioni geografiche di provenienza
(che potevano essere per l'appunto quelle di una ignota e di pura
fantasia fabbrica di sci di Caltanissetta o della fabbrica di Caramelle
Timbuctù). L’Accordo di Lisbona invece sancisce che se si vuole
esser protetti il prodotto deve essere registrato.
La seconda svolta è quella che qualifica invece i requisiti di una
denominazione geografica per accedere alla protezione. E qui la
formula è interessante e sta alla base di tutta l’evoluzione
successiva. L’art. 2 dell’Accordo di Lisbona sancisce che la
denominazione geografica di un paese, di una regione o di una
località, è quella utilizzata per indicare un prodotto che ne è
originario e di cui le qualità o i caratteri sono dovuti
esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico
comprendente i fattori naturali e i fattori umani .
La definizione di denominazione di origine, con Lisbona, è sempre
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più vicina a quella dei giorni nostri. Quello che viene richiesto, è un
nesso inscindibile (da notare gli avverbi essenzialmente o
esclusivamente, usati in maniera incontrovertibile) tra le qualità del
prodotto, e la sua origine geografica. Il significato di “appellation of
orgin” dunque assume un significato tecnico giuridico, e si stacca
da quello corrente in cui poteva esprimere varie realtà.
La convenzione aggiungeva, inoltre, che fosse vietato non
solo imitare queste denominazioni e cioè apporle su prodotti non
provenienti da un determinato paese, regione o località , ma che
fosse vietato altresì farvi riferimento in maniera tale da non creare
confusione nelle scelte del consumatore. La protezione era, ed è,
garantita contro qualsiasi usurpazione o imitazione ancorché
l’origine vera del prodotto sia indicata; per quindi escludere le
possibilità di errore, si ha usurpazione del prodotto anche quando
siano utilizzate espressioni quali “genere”, “tipo”, “modo” ,
“imitazione” o simili
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Per quanto riguarda l’inganno, a questo punto, la legislazione
si sdoppia in due direzioni diverse. L’una che continua ad essere
ancorate all’essenzialità dell’ingannevolezza, l’altra che viceversa
2
È sulla base di queste considerazioni che la Corte del Lussemburgo, nella recente sentenza del
26 febbraio 2008, causa C-132/05, ha sancito che il marchio “parmesan” viola la
denominazione di origine protetta “Parmigiano Reggiano” e pertanto non può essere utilizzato
in quanto traduzione della denominazione stessa.
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ne prescinde. Queste due direzioni sono rappresentate oggi dai
Trips elaborati nel 1994 a Marrakech e dal Codice della proprietà
industriale che ai Trips si è ispirato; dall’altra parte è rappresentato
dal regolamento 510/2006 relativo alle denominazioni di origine e
indicazioni geografiche dei prodotti agroalimentari.
I Trips, vincolanti per tutti i Paesi aderenti all’
Organizzazione mondiale del commercio, in proposito alle
indicazioni di origine fanno una scelta terminologica chiara; non si
parla più di denominazioni di origine né di indicazioni di
provenienza, ma viene introdotta una locuzione che è quella di
indicazioni geografiche ( geographical indications).
Ai sensi dei Trips si chiamano indicazioni geografiche le
indicazioni che identificano un prodotto come originario del
territorio di un membro, o di una regione o località, quando una
determinata qualità, la notorietà o altre caratteristiche del prodotto
siano essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica.
La formula deve essere paragonata con quella di Lisbona.
Secondo la disciplina dell’Accordo di Lisbona abbiamo visto che il
prodotto doveva possedere delle qualità o dei caratteri dovuti
esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico
comprensivo di fattori umani o naturali. Stando ai fattori naturali,
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si possono prendere in considerazione, per esempio, le arance di
Sicilia, il cui colorito rosso viene dato dalla natura della terra ricca
di ferro che ne conferisce le qualità apprezzate dal pubblico. Mentre
nel caso delle vetrerie di Murano si può parlare di fattori umani, in
quanto ciò che caratterizza le produzioni vitree sono le tradizioni e i
procedimenti umani.
Negli accordi Trips invece si dice che quando una
determinata qualità, la notorietà, (che però con la qualità non ha
molto a che fare) , o altre caratteristiche del prodotto siano
essenzialmente attribuibili alla sua origine geografica, allora si ha
una indicazione geografica. Intanto manca l’utilizzo dell’avverbio
esclusivamente, mentre si conserva essenzialmente, ma soprattutto
si inserisce l’elemento della notorietà. In definitiva qui si abbassa il
limite della protezione, ma paradossalmente, nello stesso tempo, si
amplia anche la possibilità di protezione ad un più alto numero di
prodotti, poiché si abbassa il livello di qualità richiesto.
Il concetto che qui si cerca di esplificare, è quello, per usare
un francesismo, di milieu. Esso nasce con l’Accordo di Lisbona ed
è rappresentato da quegli elementi determinanti di carattere naturale
o umano che sono essenziali del prodotto e lo influenzano a livello
tale da conferire a questo una qualità migliore. Il milieu
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corrisponde all’ambito geografico e deve presentare da sé le
caratteristiche che danno qualificazione al prodotto.
Il milieu cui si riferiscono i Trips è un milieu di livello
inferiore in quanto basta meno per poter ottenere la protezione.
Passiamo ora al regolamento 2081/92/CEE relativo alle
denominazioni di origine e alle indicazioni geografiche, novellato
nel 2006, senza che la struttura normativa originaria fosse
modificata notevolmente.
Anche il legislatore comunitario, considerando che era
ormai entrata all’interno del linguaggio giuridico e comune,
utilizza l’espressione indicazione geografica, ma, allo stesso
tempo, ripristina le denominazioni geografiche a norma di Lisbona
e introduce un sistema di registrazione in cui ha messo insieme
tanto i Trips quanto l’Accordo di Lisbona, subordinando, e per le
denominazioni di origine e per le indicazioni geografiche, la tutela
ad una registrazione ed istituendo un esame preventivo per stabilire
se il milieu esistesse per i prodotti per i quali si chiedeva la
registrazione.
A livello terminologico, da una parte ha recepito il termine
del milieu di Lisbona riservando a questo il termine più prestigioso,
se cosi possiamo dire , di denominazione di origine; dall’altra parte
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invece ha introdotto l’indicazione geografica sulla base di quanto
stabilito negli accordi Trips, recependo un milieu inferiore.
In realtà questa complessa terminologia è stata fonte di
confusione, anche se si può ritenere che ormai ci si sia stabilizzati
con questi due termini, ed i loro rispettivi significati diversi:
denominazioni di origine ed indicazioni geografiche.
Siccome le indicazioni geografiche si pongono ad un livello
inferiore rispetto alla denominazione, e siccome nel maggiore stato
di tutela delle indicazioni geografiche è presente anche la
denominazione di origine, a fortiori tutte le indicazioni geografiche
rientrano nell’indicazione geografiche dei Trips.
Essendo la tutela identica, identici le procedure di esame
preventivo nonché i controlli, e la procedura di registrazione, ci si è
chiesti per quale ragione non si siano accontentati di parlare delle
indicazioni geografiche che comprendevano anche le
denominazioni.
Il nostro codice della proprietà industriale agli artt. 29 e 30
ha fatto una unificazione del tipo di quella del regolamento
comunitario, inserendo le denominazioni di origine e le indicazioni
geografiche all’interno dei diritti c.d. non titolati. La formula
utilizzata dal nostro legislatore è unica, tanto per le une che per le
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altre: sono protette le indicazioni geografiche e le denominazioni
che identificano un paese, una regione o una località quando siano
adottate per designare un prodotto che ne è originario, e le cui
qualità, reputazione o caratteristiche sono dovute esclusivamente o
essenzialmente all’ambiente geografico di origine, comprensivo di
fattori umani e naturali e di tradizioni.
Però rispetto alla definizione del regolamento, inserisce tra le
qualità e le caratteristiche, la reputazione, che è poi, forse, la
traduzione della “notorietà” usata nell’Accordo Trips. Non è
previsto nel c.p.i. un sistema di registrazione , né alcun esame
preventivo.
L’inserimento di queste denominazioni di origine ed
indicazioni geografiche, nel novero degli oggetti di proprietà
industriale, secondo autorevole dottrina (A. Vanzetti), non è
giustificata, nel senso che non si può parlare di proprietà, in senso
stretto, nel caso delle denominazioni di origine o indicazioni
geografiche. Non vi è nessuno proprietario. È una “strana” forma di
proprietà senza un titolare. La verità è che il legislatore si è fatto
influenzare dalla terminologia dei Trips in cui compariva il termine
“property”, e dal fatto che nell’oggetto di “property” comparissero
16
anche le denominazioni e le indicazioni di origine
3
.
Tornando ora all’oggetto di questa tesi, il discorso si fa
ancora più confuso, ma allo stesso tempo stimolante, se
consideriamo che il “marchio di origine” nella sua veste giuridica
di semplice indicazione di origine , può rivestire un ruolo chiave
all’interno dell’economia dei Paesi. La domanda se la dicitura
“made in Italy” possa fare la differenza rispetto a quella “made in
China” o “made in Korea” è di fondamentale importanza e sta alla
base della convinzione di coloro che propugnano, nel nostro paese,
una lotta in difesa dei prodotti italiani colpiti dall’ondata di
falsificazione. Una risposta evidentemente c’è, ma questa può
essere data solo dai singoli consumatori, che possono percepire di
migliore qualità un prodotto proveniente dagli Usa, piuttosto che
dalla Cina.
A ben vedere, un argomento di tanto interesse ed importanza
ancora non ha trovato una sua sistemazione legislativa adeguata. E
3
A. Gambaro, in “Property-Propriété-Eigentum”, Cedam, 1992, p. 12, “..parlando di traduzioni non ci si
riferisce solo alle traduzioni in senso stretto, cioè alla versione da una lingua all’altra. Può anche trattarsi
di un processo di traduzione mentale. Il senso di smarrimento (…) coglie soprattutto quei giuristi che
sono abituati a parlare la lingua inglese, ma mentalmente traducono le parole inglesei nel supposto
equivalente espresso dalla loro lingua materna. Con ciò capita che il termine Property sia spesso tradotto
con Proprietà, Propriété, Eigentum etc. Una delle ragioni che induce a traduzioni affrettate è che la radice
della parola Property è uguale a quella delle parole proprietà, propriété, propriedade che si usano nelle
lingue neolatine. Tuttavia come termine tecnico giuridico essa non contiene il concetto di appartenenza
esclusiva nel senso per cui una cosa può dirsi propria di qualcuno; come categoria giuridica essa indica
una classe di situazioni molto diversa da quella implicata mediante il termine proprietà, perché
comprende tutti i diritti che comportano l’uso ed il godimento di un bene sulla base di un rapporto diretto
ed inoltre tutti i diritti sui beni anche incorporali di cui il titolare può disporre; infine come elemento
strutturale della sistematica giuridica la law of property non comprende quelle materie che costituiscono
parte integrante del diritto di proprietà nei sistemi romanistica, ad esempio, le azioni a tutela della
proprietà..”
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la difficoltà di cui si parlava prima, che è stato anche l’elemento di
stimolo nella mia ricerca, è collegata al fatto che ci si deve
necessariamente rifare a disposizioni “sparse” di diritto nazionale,
comunitario ed internazionale.
Per dare risposta al quesito se un’indicazione di origine
semplice potesse essere tanto importante al punto di veramente
influenzare le scelte del consumatore medio, è stato necessario
avvalersi di un bagaglio giuridico comprendente tanto la disciplina
delle indicazioni geografiche, brevemente ripercorsa in questa
introduzione, la disciplina generale dei marchi individuali e dei
marchi collettivi, la disciplina della concorrenza sleale
comprensiva delle pratiche commerciali sleali ai sensi della dir.
29/05/CE, quanto il fondamentale apporto fornito dal diritto
doganale per ricostruire le regole sull’origine dei prodotti. Non
mancano poi osservazioni sui profili penalistici in relazione alla
falsità o fallacità delle indicazioni di origine sui prodotti, e quindi
la considerazioni di disposizioni fondamentali quali l’art. 517 c.p.,
nonché la legge finanziaria 2004 che ha introdotto delle
disposizioni a tutela del “made in Italy”, le quali hanno creato
difficoltà interpretative e molto spesso l’insorgere di pronunce
“ribelli” della Corte di Cassazione.