1.2 Modello medico
1.2.1 Modello Biomedico e Modello Medico Forte
Si intende per Modello Bio-medico lo sforzo di un approccio medico alla vita,
quando con medicina si intende la scienza che ha per oggetto studio, cura e prevenzione
delle malattie. Quindi uno studio, una cura e una prevenzione nel campo della vita, che
ragiona a partire dalla malattia. Il focus è sugli aspetti biologici che permettono la
diagnosi e il trattamento della condizione in cui la persona si trova. Viene applicato da
quegli operatori sanitari che non indagano sulla storia psicologica o sociale del paziente,
escludendo, dal processo di diagnosi e poi di trattamento, influenze psicologiche,
ambientali o sociali. Si cercano e si analizzano malfunzionamenti genetici o biofisici, e
ci si affida a test di laboratorio oggettivi per riuscire a dare una diagnosi ben precisa
circa la struttura danneggiata. Tecnologie di indagine strumentale come la Risonanza
Magnetica Nucleare (R.M.N.) o la Tomografia Assiale Computerizzata (T.A.C.), oltre a
velocizzare la diagnosi, ne garantiscono una certa accuratezza. Seguendo questo
modello, ogni malattia ha una causa sottostante, che, una volta rimossa, renderà il
paziente di nuovo sano, liberandolo dal dolore, dalla malattia o dal difetto.
Proviamo a rievocare la situazione in cui da pazienti ci siamo rivolti a un medico:
probabilmente ci siamo recati in uno studio, con una serie di lamentele e riferendo
sintomi più o meno sconnessi. Ci si aspetta dal medico la diagnosi di una malattia che
ne spieghi i sintomi (e che ci curi!); ce l’aspettiamo noi e il professionista se l’aspetta da
sé stesso, di essere capace di fornire una diagnosi. La domanda sul perché ci siamo
ammalati li sul momento ci preme meno. La ricerca medica si occupa di cercare risposte
anche a questo tipo di domanda. Quello che ci ha fornito negli anni, sono schemi di
spiegazione della malattia.
Attraverso Ippocrate, siamo passati da uno schema che metteva in relazione
l’intervento divino, sintomi, decorso e appello alla divinità o alla magia, ad un
approccio naturalistico alla medicina che nel suo schema metteva in relazione clima,
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regime, eredità, sintomi e decorso, bilanciamento umorale e terapia, passando per
Galeno, Pasteur (e la teoria sui germi), le malattie nutrizionali (e l’incidenza delle
vitamine), le malattie autoimmuni (e il ruolo del sistema immunitario), la genetica
molecolare, e l'approccio multifattoriale, arriviamo a uno schema esplicativo medico del
tipo:
Obiettivo della spiegazione :
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Perché un Paziente ha una Malattia con Sintomi associati?
Modello esplicativo:
Il Paziente è o è stato soggetto a Fattori Causali
I Fattori Causali producono la Malattia e i Sintomi
E quindi, a una struttura causale per il concetto di «malattia» che mette in
relazione: Causa e Malattia, quindi Decorso e Sintomi, e, Trattamento, che interviene
sulla Causa (Thagard, 2018, p.21 per schema).
Riconosciamo la capacità della teoria umorale di Ippocrate (che faceva
riferimento a sangue, catarro, bile gialla e bile nera come costituenti dell’organismo) di
opporsi al paradigma «tradizionale» del suo tempo facendo riferimento ai 4 elementi
fondamentali (terra, aria, fuoco, acqua) in cui credevano i suoi contemporanei, per
spiegare la salute come quello stato in cui queste sostanze e le loro caratteristiche si
trovano nella giusta proporzione. Ma, per iniziare a parlare di malattia bisogna fare
riferimento più precisamente a un chimico francese e a un chirurgo britannico. Louis
Pasteur e Joseph Lister, che indipendentemente, superata la metà del 1800, videro
un’analogia tra la fermentazione e la malattia. La prima era causata da lieviti e batteri, la
seconda era causata di microorganismi (Thagard, 2018). Un’analogia che ha dato
un’indirizzo ben preciso al meccanismo di spiegazione causale che già si andava
affermando e che sarebbe andato sempre più assottigliandosi nel corso dei secoli.
I termini in corsivo andranno sostituiti con termini e entità meno generali, e diverse versioni
11
dello schema prevedono maggiori dettagli.
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Gli studi di L. Pasteur sfidavano le idee del suo tempo sulla generazione
spontanea (di processi come la putrefazione e la lievitazione). Il chimico rivolse la sua
attenzione prima alla birra, accorgendosi di poter considerare il lievito come
l’organismo vivente che causava la fermentazione della bevanda; poi all’acido lattico, e
individuando questa volta particolari organismi come i responsabili della fermentazione
(i batteri); e infine dimostrando che la fermentazione non avveniva in assenza di
contaminazione da parte dell’aria migliorò la produzione di birra e vino. La sua
indagine si sarebbe spostata sulle malattie delle piante e delle persone, con l’ausilio
delle tecniche microscopiche che gli erano familiari dai suoi studi sulla fermentazione.
Tutto questo portò nella seconda metà del secolo a individuare in piccoli organismi i
responsabili delle malattie umane come la peste, la tubercolosi o il colera. Oltre alla
scoperta di microbi e batteri, che potevano essere osservati al microscopio, si inizia a
teorizzare l’esistenza di organismi ancora più piccoli che avrebbero spiegato l’insorgere
di altre malattie, solo più avanti verranno scoperti i virus (organismi 20 volte più piccoli
dei batteri) e il loro ruolo nel decorso di malattie come la poliomielite o il vaiolo.
Diventa evidente, nei casi delle malattie infettive, come sia possibile effettuare un
passaggio che ci sposta dal piano di sintomi e prognosi, a quello dell’identificazione
dell’agente patogeno, batterio o virus, da indicare come causa della malattia.
La malattia (parola riassuntiva per una relazione causale) è intesa come il fulcro
del problema clinico, per provare a risolverlo bisogna comprenderne natura e sviluppo
prestando attenzione a segni e sintomi. Diventano dati su cui indagare i reclami del
paziente, qualora contengano storie di malattie precedenti (personali o familiari), o
risultati di esami passati. Fenomeni clinici caratterizzati da: tempo di insorgenza, durata,
estensione, qualità, intensità, cambiamenti anatomici o chimici… (Guze, 1978).
Studiare una malattia vorrà dire rintracciarne i denominatori comuni su gruppi
ragionevolmente omogenei. Uno schema esplicativo di questo tipo è assunto dalla
medicina, in generale, e per estensione da chi assegna alla «scienza» il compito di
scoprire la struttura causale del mondo. È anche la prospettiva assunta da chi vede nella
comprensione della struttura causale la convalida di una diagnosi, una validazione che si
basa su esperimenti e osservazioni condotti con i mezzi delle scienze biologiche che
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portano ad identificare un processo biologico. É, infine, la prospettiva del Modello
Medico Forte che assegna alla psichiatria l’indagine delle «reti di relazioni causali
basate su statistiche che vengono scoperte utilizzando metodi epidemiologici e
sperimentali» (Guze, 1978; Murphy, 2020). Posizione sostenuta da chi vede nella
psicopatologia la manifestazione di una funzione disturbata dall’interno del corpo, nello
specifico, nel cervello. I «disturbi mentali», possono iniziare ad essere chiamati
«malattie del cervello», nel loro essere processi distruttivi che si originano a partire da
sistemi biologici.
Sarebbe impossibile per la «scienza» enumerare tutti i singoli casi, come sarebbe
impossibile non mirare alla comprensione: quello che si può fare è ricavare dai dati
disponibili «un’etichetta generale». Quando si passa ad usarla, lo scienziato deve
scommettere che una volta applicata, l’inferenza su comportamenti osservati o meno,
basterà a giustificare l’uso dell’etichetta. È una scommessa che crede nel realismo del
costrutto (Murphy, 2014).
Le malattie, in quanto somatiche vanno indagate nel loro processo patologico
attenzionando i sistemi corporei, ma per autori come Dominic Murphy questo non vuol
dire che il Modello Medico ci debba portare a privilegiare un livello di spiegazione
piuttosto che un altro (cita il lavoro di David Marr sulla visione), non limitarci alle
risorse della biologia molecolare vorrebbe dire riconoscere nella psichiatria «una
scienza a più livelli», (Murphy, 2020). Non è però il caso del Modello Medico Forte che
può comunque essere considerato un modello riduzionista quando assume che la mente
può venire scomposta in componenti dai quali si può ricavare che dal modo in cui
lavorano insieme si origina un certo comportamento (normale o anormale) piuttosto che
un altro (Lalumera & Amoretti, 2018).
Chi si impegna nella ricerca di fisiopatologie specifiche da identificare come
cause della «malattia mentale» vede nella psichiatria un ramo della neuroscienza
cognitiva e si inserisce sulla scia di quegli autori che con Carl G. Hempel aspettano che
la psichiatria elabori una classificazione basata su dati oggettivi ed escluda fattori
pragmatici.
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Una via per argomentare a favore del Modello Medico Forte, consiste nel
sottolineare che per rintracciare le cause della malattia, ci serve una conoscenza delle
funzioni normali, dalle quali, diventando anormali, la malattia ci fa allontanare.
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Questo perché la malattia è un processo distruttivo che avviene a livello dei sistemi
biologici (Murphy, 2014).
È possibile un’interpretazione del Modello Medico Forte in psichiatria, che, pure
ammettendo la difficoltà nel rintracciare le cause delle «malattie mentali» in modo
riduttivo , assegna la responsabilità della causa ultima di queste condizioni tra i diversi
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fattori ambientali e genetici. In quest’ottica, si può benissimo continuare a pensare che
dall’espressione genica dipende, in tutto, anche se non sappiamo ancora spiegare come,
la malattia.
Riconoscere alla malattia un proprio statuto ontologico, è comunque il passo
preliminare che permette l’avviarsi di un’indagine che la assume come proprio
oggetto , da indagare in modo affidabile, senza riserve ontologiche, e senza fretta,
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perché anche se la nostra comprensione (oggi) è incompleta l’esistenza della malattia
non è in dubbio (Keeley, 2014).
Torniamo brevemente alla rievocazione iniziale di questo paragrafo: perché, io
paziente, voglio una diagnosi? Perché il medico vuole fare diagnosi?
Del resto, «la diagnosi è il segno distintivo della medicina clinica, e lo è da oltre
2500 anni» e «diagnosi [è] il termine medico per classificare i pazienti» (Guze, 1978,
p.299), così lavora il buon senso della medicina. Si può facilmente ipotizzare che
l’obiettivo ultimo che ci muove verso la comprensione del perché un meccanismo, in
questo caso un sistema biologico, sia guasto, o uscito dal suo stato funzionale, sia che,
identificarne i componenti, in ogni caso, ci permette il tentativo di una manipolazione,
Di come si concettualizzano le «funzioni» e di conseguenze le «disfunzioni» nell’organismo
12
umano si dirà in seguito §1.4.
La difficolta che si riscontra nel misurare variabili ambientai in termini puramente molecolari,
13
risiederebbe nel fatto che si tratterebbe di «un progetto a lunghissimo termine», non altro
(Murphy, 2020, §2.3).
È la posizione secondo cui anche i «disturbi mentali» sarebbero tipi naturali, o al massimo a
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tipi naturali riconducibili. Un tipo naturale è un’entità discreta e indipendente dallo stato della
nostra conoscenza della stessa.
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che, senza sindacare sulle buone intenzioni, mira ad aggiustare il meccanismo, o al
ritorno al suo stato funzionale. Per altri autori l’idea del riduzionismo molecolare, non
avrebbe un obiettivo manipolativo: la spiegazione molecolare sarebbe soltanto il livello
di spiegazione preferito della natura (vedi Murphy, 2020, §2.3).
Va però notato che tutte le volte in cui per una particolare condizione, prima
considerata «disturbo psichiatrico», si è arrivati a individuare una lesione e a collegarla
alla condizione del paziente, questa è entrata a far parte della «malattie neurologiche», e
non la si considerava più un «disturbo mentale» (J. Pierre, 2012).
Che l’oggetto della psichiatria siano malattie sembra ad oggi più un assunto di
base di chi sceglie di seguire il Modello Medico. Come anche il fatto che in psichiatria
ci si riferisca a entità simili a malattie somatiche che quindi andrebbero indagate con gli
stessi metodi (studi sperimentali ed epidemiologici, ovvero affidarsi alla neurofisiologia
del cervello). Idee che portano a concettualizzare cause, decorso e terapie guardando in
una direzione piuttosto che in un’altra (Lalumera & Amoretti, 2018).
Non che il concetto di «malattia» sia meno problematico. Come riporta Maria
Cristina Amoretti in Filosofia e medicina. Pensare la salute e la malattia (2015, p.20),
Björn Hofmann rintraccia una settantina di modi diversi di renderne conto, e valuta che
sia un concetto complesso che non si presta a una definizione semplice. V oler
caratterizzare le condizioni di cui si occupa la psichiatria come «malattie», garantisce
che la disciplina non possa arrivare a una «definizione semplice». Per di più, Elisabetta
Lalumera e M. C. Amoretti (2018), facendo notare che nella «medicina non psichiatrica
contemporanea, … il più delle volte si procede ancora senza identificare la malattia con
una o più specifiche disfunzioni di meccanismi, perché sono troppi o troppo variabili»,
argomentano che il Modello Medico Forte in psichiatria, offre una rappresentazione non
realistica e fuorviante persino dello statuto della medicina. E aggiungono che per le
condizioni sistemiche o a eziologia variabile quello a cui aspira il Modello è un ideale
«inutilmente irraggiungibile».
Seguendo l’intuizione anti-essenzialista il pieno successo del Modello Medico
Forte non è raggiungibile (Lalumera, 2018), perché non siamo destinati a trovare
qualcosa come le “essenze” delle «malattie psichiatriche». Anche nei casi in cui si
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riesce a individuare un meccanismo patogeno, la correlazione tra questo e l’insorgere
del disturbo è comunque in relazione ad altri fattori (genetici o meno), che rendono
evidente il problema del tentativo di un’applicazione del metodo causale: la linearità.
Ci dice D. Murphy nel suo articolo Philosophy of Psychiatry (2020) che per gli
autori che concordano con Samuel B. Guze e con l’interpretazione del Modello Medico
Forte in psichiatria:
… there are distinct mental illnesses with characteristic symptoms and natural
histories. … they go further. If psychiatry is really a branch of medicine, they
suspect, we should see the specific causal hypotheses emerge about mechanisms
that cause the symptoms of mental illness (§2.3).
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Viene da chiedersi se seguire questo Modello non rischi di diventare un modo per
estromettere la psichiatria dalla medicina perché “non scientifica”.
Infine, dire che esistono processi mentali, realizzati nella scatola cranica, e
riconoscere che esiste, o potrebbero esistere, una serie di disfunzioni di questi processi
cui scegliere di dare il nome (per esempio), di «disturbi mentali» (o «malattie»), sembra
più la proposta di un modello di organizzazione grammaticale che un modello
conoscitivo. Ma, «se non ci sono questioni importanti nella controversia, oltre a quale
parola usare per riferirsi a determinati stati psicologici o comportamentali, vale la pena
continuare la discussione?» . Questo se lo chiedeva Samuel B. Guze nel 1978.
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«… ci sono distinte malattie mentali, con sintomi caratteristici e storie naturali … vanno oltre.
15
Se la psichiatria è davvero una branca della medicina, sospettano, dovremmo vedere emergere
le ipotesi causali specifiche circa i meccanismi che causano i sintomi della malattia mentale»
(trad. mia).
«If there are no important issues in the controversy other than which word to use to refer to
16
certain psychologic or behavioral states, is the discussion worth continuing?
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1.3 Classificazione Medica
Una classificazione può prendere diverse forme, dare vita a raggruppamenti di
enti, creare regole e principi che guideranno raggruppamenti futuri, o generare i prodotti
di questi raggruppamenti.
German E. Berrios (1999, p.147), rintraccia diverse definizioni di classificazione
che attraversano i secoli dal XVII al XX, con molti punti in comune. Per farci un idea
riportiamo la più recente:
La classificazione è l'identificazione della categoria o del gruppo a cui appartiene
un individuo o un oggetto sulla base delle sue caratteristiche osservate. Quando le
caratteristiche sono un numero di misurazioni numeriche, l'assegnazione ai gruppi
è chiamata da alcuni statistici discriminazione e la combinazione delle misurazioni
utilizzate è chiamata funzione discriminante.
Quello in cui ci guida l’autore è la possibilità di scegliere tra due alternative:
classificare quello che studiamo, o studiare le classificazioni, per metterne in luce limiti
o aspetti problematici.
Che come specie umana abbiamo la tendenza a classificare, oltre che
dall’osservazione del comportamento quotidiano, è un dato che emerge dai libri di
storia. È stato fatto in ogni campo di studio della cultura occidentale, e tra questi nel
campo della medicina.
Nell’Occidente del XVII si classificavano piante, animali e lingue; sul finire del
XVIII la classificazione era riconosciuta come parte della natura umana, mancava (e
manca) solo da mettersi d’accordo su come farlo. A partire dal XVIII si inizia a riferirsi
alle classificazioni come naturali o artificiali (aspetto che riguarda anche gli oggetti cui
si riferiscono). Si riconoscono metodologie di classificazione differenti top-to-bottom o
bottom-up (riguarda l’organizzazione interna dei componenti classificati). E le
classificazioni possono inoltre presentarsi come strutturate, gerarchiche, di pretese
esaustive o parziali, idiografiche o nomotetiche (Berrios, 1999).
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Già Michel Foucault individuava nel XVII quell’impulso alla catalogazione che si
sarebbe diffuso su tutti i campi, e collegava la questione a quella del (nuovo) rapporto
che si andava istaurando tra le parole e le cose (Foucault, 1966/2020). Inoltre, per
questo autore l’atto fondamentale della conoscenza (medica) per i classificatori,
«consisteva nello stabilire un’individuazione: situare un sintomo in una malattia, una
malattia in un insieme specifico, e orientare quest'ultimo all'interno del piano generale
del mondo patologico», e «la struttura fondamentale che si dà la medicina classificatrice
è lo spazio piatto del perpetuo simultaneo» (Foucault, 1963/1969, p.42 e p.18).
Le classificazioni delle malattie si susseguono nella storia. Laënnec le divideva in
due grandi classi: organiche e nervose (le prime caratterizzate da lesioni evidenti, le
altre senza questa evidenza); intanto Bayle classificava tra organico e vitale,
(contrapponendo lesioni organiche e disordini vitali); Cruveilhier distinguerà tra: due
diversi tipi di lesioni, cioè affezioni accompagnate da lesioni profonde o superficiali, e
malattie vitali senza lesioni; e Bichat distingueva tra disturbo funzionale e alterazione
organica (Foucault, 1963/1969).
Applicare la classificazione alle malattie nel XVIII secolo era possibile sulla base
di due considerazioni: che i concetti che ne permettevano la messa in atto erano
strumenti sortali, e che la spinta classificatoria umana fosse naturale . Già dal XIX
17
secolo queste due considerazioni iniziano ad essere più problematiche, meno diffuse
(Berrios, 1999).
«Crediamo che una classificazione valida sia un passo essenziale nella scienza. In
medicina, e quindi in psichiatria, la classificazione è diagnosi» . Con queste parole nel
18
1970 esordiva un articolo che aveva lo scopo di proporre criteri di validazione
diagnostici che avrebbero permesso di riconoscere a certe condizioni lo statuto di
«malattia psichiatrica». Gli autori, Eli Robins e Samuel B. Guze, impostano una sorta di
equazione tra classificazione e diagnosi, alla quale sarà difficile riconoscere più del
La classificazione è vista come l’espressione di una funzione cognitiva umana, è incorporata
17
nella grammatica e i predicati si rivelano meccanismi sortali naturali (ai due estremi: si può
sostenere questa tesi sia da un punto di vista creazionista che evoluzionista).
«We believe that a valid classification is an essential step in science. In medicine, and hence
18
in psychiatry, classification is diagnosis» (trad. mia) (p.983).
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potere di una metafora. L’articolo procede elencando le cinque fasi dello schema
diagnostico (perché seguendo il rapporto di identità è possibile dire che “diagnosi è
classificazione”) una volta scelto, tra i tanti possibili, quello che si basa su studi
sistematici perché «facilita lo sviluppo di una valida classificazione». E concludono
applicandolo al caso della «schizofrenia» da separare nei due gruppi: quelli con
prognosi buona o quelli con prognosi sfavorevole. Giustificano «l’incapacità di ottenere
il 100% di successo nella previsione dell’esito e la sovrapposizione dei risultati degli
studi familiari», ritenendo che «i criteri utilizzati per la separazione necessitano di
ulteriore perfezionamento» . I criteri cui si fa riferimento sono quelli che dovrebbero
19
permettere la diagnosi/classificazione.
Solo S. Guze nel 1978 pubblica un articolo sul perché la psichiatria sia una branca
della medicina, ovviamente, dipende dalla natura della «malattia psichiatrica». Si è già
detto che il concetto di «malattia» può essere non così trasparente anche nel campo
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della medicina, però sembra essere pacifico che della malattia si occupi la medicina e
che alla malattia si possa applicare il Modello Medico. Anche in questa occasione
l’autore dirà: «diagnosi, [è] il termine medico per classificare i pazienti» (p.299). Pratica
e progresso medico si basano sul fatto che possono esistere denominatori comuni per le
malattie e che questi forniscano le basi dell’esperienza, della conoscenza, della
comunicazione e della formazione, e quindi del progresso scientifico. Come abbiamo
visto, nel Modello Medico è cardine «la convinzione che ogni malattia derivi da un
insieme unico di cause»: domande e risposte circa epidemiologia, eziologia, patogenesi,
prognosi, trattamento, prevenzione, ci aiutano a comprendere la natura della malattia, ne
permettono la classificazione. E, dalla classificazione, una volta applicata, ci facciamo
guidare nella pratica. S. Guze trova ispirazione in una pubblicazione del tassonomista
Robert R. Sokal, tanto da citarlo nel suo articolo quando dice che «tutte le
classificazioni mirano a realizzare un’economia di memoria» (p.300), quello che
possiamo raggruppare e poi classificare sono «taxon».
«The failure to achieve 100 percent success in predicting outcome and the overlap in the
19
result of the family studies indicate that the criteria used for the separation need further
refinement». (trad. mia) (p.986).
si veda C. Amoretti (2015) sulla possibilità di «malattia» in senso medico e non medico in
20
dipendenza alla trattabilità” medica.
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