VIII
Una trasformazione che, come fu per il mercato unico incentrato sullo svi-
luppo della libertà di circolazione di persone, merci e capitali, poggia su un pre-
ciso sostrato culturale, in particolare sul principio del reciproco riconoscimento
delle decisioni penali, la cui sempre più precisa definizione a tutti i livelli (norma-
tivo, dottrinario e giurisprudenziale) rappresenta la precondizione per una reale
progressione nella creazione di vincoli solidali tra i membri dell’Unione europea.
Eppure, sono stati alcuni dei livelli che dovrebbero contribuire a riempire
di contenuti un concetto che rischia altrimenti di restare relegato nel mondo delle
idee, a creare alcune delle maggiori difficoltà alla piena attuazione del MAE.
Per quel che riguarda l’elaborazione dottrinale, la strenua difesa della
sfera di prerogative statali o una prospettiva di superamento della dottrina, deci-
samente troppo risalente e non più rispondente alla situazione dell’attuale epoca
storica, che ha assegnato un ruolo predominante all’organizzazione dello Stato-
Nazione conduce, necessariamente, a dare diverse risposte ai due quesiti di aper-
tura, prediligendo gli scettici (quando non apertamente avversari) dipingere un
“quadro a tinte fosche” che attribuisca un significato rivoluzionario e sovvertito-
re non solo dei classici principi internazionalistici della cooperazione in materia
penale, ma anche (e soprattutto) delle norme costituzionali di garanzia dei diritti
del soggetto interessato da un procedimento penale (tanto nella fase delle indagi-
ni e del giudizio, quanto in quella dell’esecuzione di una sentenza di condanna).
Diametralmente opposto è, invece, il giudizio di chi vede nel MAE
un’importantissima occasione per far compiere alla cooperazione tra Stati mem-
bri dell’Unione europea quel salto di qualità che consentirebbe una reale e sem-
pre più efficace integrazione anche rispetto alla protezione del diritto di libera
IX
circolazione. È essenzialmente questa la sfida che si pongono gli autori che po-
tremmo definire “progressisti”, rispetto all’apporto teorico che tentano di offrire
alle iniziative concretamente portate avanti dalle istituzioni europee: equilibrare
nell’interpretazione dei testi normativi vigenti – che diventerà poi la base cultura-
le e giuridica sulla quale sviluppare le proposte future – esigenze di efficacia nel-
la repressione del fenomeno criminoso e garanzie del soggetto sottoposto a pro-
cedimento penale, ossia il “giusto processo”, volendo utilizzare quest’espressione
nel significato onnicomprensivo che le si può attribuire (e che comprende, pertan-
to, non solo le garanzie tipicamente processuali, ma anche quelle afferenti al di-
ritto penale sostanziale, precondizione per l’impostazione di un processo equo).
Ma non possiamo trascurare il contributo (anche negativo) che hanno da-
to i legislatori e la giurisprudenza, anch’essi divisi, non orizzontalmente, ma in
modo “longitudinale”, ovvero in ragione della diversa collocazione nel sistema di
“governo multilivello” dell’Unione: da un lato i Parlamenti e le Corti statali che
hanno tentato di ridurre gli aspetti più innovativi della disciplina (in alcuni casi,
come l’Italia, fino a tradire lo spirito stesso sotteso alla d. q. 2002/584/GAI);
dall’altro gli organi dell’Unione, nella specie la Commissione europea, con i suoi
rapporti di valutazione sullo stato di attuazione della d. q., e la Corte di giustizia
delle Comunità europee (quest’ultima con la sentenza Advocaten voor de Wereld
relativamente al MAE, ma anche con la sentenza Pupino che ha statuito un obbli-
go di interpretazione da parte dei giudici statali del diritto interno quanto più
conforme alle norme, pur non direttamente efficaci, poste dalle decisioni quadro).
La d. q. 2002/584/GAI potrà passare alla storia come “alba di una nuova
era” nella cooperazione in materia penale all’interno dell’Unione, ma solo nella
X
misura in cui sarà in grado di costituire un “trampolino” per ulteriori progressi
nella costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.
Un primo frutto sembrava essere, nella complessiva opera di ristruttura-
zione istituzionale dell’Unione europea compiuta dal Trattato di Roma, la “costi-
tuzionalizzazione” del principio del reciproco riconoscimento e l’ampliamento
della sfera di intervento degli organi europei (ad es., con la promozione di parti-
colari percorsi formativi per i magistrati statali o con la possibilità di stimolare
in modo più incisivo l’armonizzazione delle disposizioni legislative penali sostan-
ziali).
Tuttavia, la storia ci ha dimostrato come quel progetto sia stato giudicato
eccessivo, volendo anche “follemente visionario”; ma evidentemente questa follia
non riguardava l’ambito della cooperazione giudiziaria, se i contenuti in materia
del primo trattato sono stati trasfusi anche nel meno ambizioso Trattato di Lisbo-
na. Un trattato che sembrava essere destinato a migliori fortune e a riuscire lad-
dove con la Costituzione europea si era fallito, specie in termini di rassicurazioni
agli Stati circa la loro decisività nei processi di costruzione della nuova Europa.
Ma che oggi sembra più che mai vacillante, stante la prima bocciatura dovuta
all’esito negativo del referendum popolare nella Repubblica d’Irlanda.
Ancora una volta, nonostante le valutazioni tecniche che si possono dare
dell’assetto della cooperazione interstatale disegnato dal nuovo testo normativo,
saranno solo gli avvenimenti politici a indicare la concreta via che l’integrazione
europea, anche sotto questo aspetto, è destinata a compiere negli anni a venire.
CAPITOLO I
LE TRADIZIONALI BASI DELLA
COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IN MATERIA PENALE
Sommario: 1. Cenni storici. - 2. Principi generali e limiti in materia estradizionale. – 2.1. I reati estradi-
zionali. – 2.2. Il principio della doppia incriminazione (o della previsione bilaterale del fat-
to). – 2.3. La natura del reato: i reati politici. – 2.4. (segue): i reati fiscali. – 2.5. La naziona-
lità dell’estradando. – 2.6. La minore età.
1. Cenni storici. – La cooperazione internazionale in materia penale rap-
presenta, senz’ombra di dubbio, una delle principali questioni inerenti i rapporti
interstatuali, con le quali dovettero fin dalla loro nascita
(1)
confrontarsi gli Stati
moderni per un duplice ordine di ragioni: da un lato, sancire la vigenza del diritto
penale interno e dare dimostrazione dell’efficacia ed efficienza del proprio siste-
ma repressivo, anche qualora il condannato o imputato si fosse sottratto alla giuri-
sdizione statale fuoriuscendo dal territorio di riferimento; dall’altro, operare,
nell’assicurare il fuggitivo alla propria giustizia, nel pieno rispetto, comunque,
della sfera di prerogative sovrane della quale è titolare ogni altro membro della
comunità internazionale, presso il quale il soggetto avesse trovato rifugio.
(
1
)
Convenzionalmente, si fa risalire, tra gli storici, tale momento fondativo delle comunità statali
moderne alla Pace di Westfalia del 1648, trattato stipulato a seguito della conclusione della Guerra
dei Trent’anni. Tuttavia, bisogna pur sempre tener presente che si tratta di una data convenzionale
e che esigenze di collaborazione in materia penale erano avvertite già in precedenza dai diversi
ordinamenti pre-moderni: infatti, già a partire dal XII sec. possiamo riscontrare l’esistenza di ac-
cordi finalizzati alla consegna di autori di crimini politici o religiosi (cfr. PASCALE, La estradizione
dei delinquenti, Napoli, 1880).
2
Il tradizionale strumento al quale si è ricorso, per bilanciare le due opposte
necessità, è stato quello dell’estradizione:
(2)
un meccanismo in base al quale il
soggetto accusato o condannato è consegnato allo Stato richiedente (competente a
giudicare o punire l’estradando) dallo Stato richiesto (nel cui territorio
l’estradando si è rifugiato) ai fini, rispettivamente, della celebrazione del processo
o dell’esecuzione della pena.
(3)
Inizialmente configurato come uno strumento di collaborazione politica e,
comunque, scarsamente utilizzato, a partire dal XIX sec. l’estradizione è oggetto
di un cambiamento in senso qualitativo e quantitativo: anzitutto, viene stipulato un
gran numero di trattati bilaterali; in conseguenza di ciò, il meccanismo estradizio-
nale assurge al rango di vero e proprio istituto di carattere tecnico-giuridico, con
una propria rilevanza tanto interna quanto internazionale; infine, interviene un
cambiamento di rapporto nella tipologia di reati per i quali l’estradizione può es-
sere richiesta. Infatti, mentre originariamente uno Stato poteva richiedere la con-
segna di un soggetto autore di reati politici ed era esclusa la consegna per i reati
comuni, dal 1800 l’ambito privilegiato di operatività dell’estradizione diventa
proprio quello dei reati comuni, essendo, invece, espressamente esclusa la possibi-
lità di procedere per reati di matrice politica o militare.
(4)
(
2
)
Per un punto di vista, se non apertamente critico, quantomeno dubbioso sulla utilità dello stru-
mento estradizionale, cfr. BECCARIA, Dei delitti e delle pene, § XXXV, Milano, 1807. Ad ogni
modo, l’Autore nella sua riflessione, prendendo atto dell’esistenza dell’istituto in questione, sareb-
be propenso a riconoscergli la natura di strumento di prevenzione generale, piuttosto che di mera
repressione, laddove afferma che «(…) la persuasione di non trovare un palmo di terra che per-
doni ai veri delitti sarebbe un mezzo efficacissimo per prevenirli».
(
3
)
La plurisecolare dottrina prodottasi in tema di estradizione suole parlare, a proposito di tali due
distinte finalità perseguite con l’estradizione, di estradizione processuale ed estradizione esecutiva.
A seconda, invece, che si faccia riferimento alla posizione dello Stato richiesto o dello Stato ri-
chiedente si ripartisce il genus nelle due species, rispettivamente, dell’estradizione passiva (o verso
l’estero) e dell’estradizione attiva (o dall’estero).
(
4
)
La clausola di esclusione dell’estradizione per reati politici venne esplicitamente formulata
nell’art. 5 del Trattato franco-belga del 1834.
3
Un ulteriore salto di qualità, se così può dirsi, è compiuto nel XX sec.: ac-
canto ai già numerosissimi trattati bilaterali vigenti, vengono stipulate anche delle
convenzioni multilaterali, che ad oggi rappresentano lo strumento di regolazione
privilegiato e ciò almeno per due motivi attinenti alla natura dei reati e
all’omogeneità culturale di determinate aree regionali.
Per quel che concerne la natura dei reati, tramite le convenzioni aperte alla
firma di tutti gli Stati si intende combattere precipuamente due categorie delittuo-
se: reati che per loro natura offendono beni giuridici dei quali è titolare l’intera
comunità internazionale
(5)
oppure reati che si manifestano in forme particolarmen-
te complesse e che, ormai da diversi anni, si avvalgono di una rete organizzativa
internazionale.
(6)
Attraverso tali trattati non si persegue il solo scopo di regolare i
diversi punti dei rapporti estradizionali, ma si inseriscono, altresì, delle specifiche
clausole che vincolano gli Stati firmatari a procedere obbligatoriamente
all’estradizione o al giudizio dei responsabili per i crimini previsti.
I patti conclusi tra Stati omogenei sotto il profilo ordinamentale-culturale
rappresentano, nell’intento delle Parti contraenti, un gradino ulteriore di quella
che potremmo definire la “scala evolutiva” della cooperazione internazionale: al-
cuni si pongono l’obiettivo di disegnare delle procedure di consegna sempre più
(5)
Si pensi al genocidio, ai crimini contro l’umanità, ai crimini di guerra e al crimine di aggressio-
ne (figura peraltro assai controversa e politicamente problematica), tutte figure delittuose persegui-
te dall’art. 5, Stat. Corte pen. intern.
(6)
Il riferimento è ai crimini di terrorismo, tratta degli esseri umani, riduzione in schiavitù, circola-
zione e traffico di pubblicazioni oscene, traffico degli stupefacenti, ecc.
4
snelle e agevoli;
(7)
altri, invece, gettano le basi per un avvicinamento (tendente
all’uniformazione) delle normative interne.
(8)
2. Principi generali e limiti in materia estradizionale. – Passiamo ora in
rassegna i principi posti a fondamento dell’istituto in esame e i limiti che lo carat-
terizzano. In particolare, ci occuperemo nei prossimi paragrafi dei reati estradizio-
nali, del principio della doppia incriminazione, dei reati politici e di quelli fiscali,
delle questioni concernenti la nazionalità e la minore età dell’estradando. Ciò è
finalizzato a porre dei punti fermi che ci guideranno nel corso dell’indagine sugli
sviluppi interpretativi in materia estradizionale e che ci forniranno la prospettiva
adatta, di carattere sostanziale, per analizzare la decisione quadro sul mandato
d’arresto europeo e la legge italiana d’attuazione.
2.1. I reati estradizionali. – Generalmente possiamo affermare che i reati
estradizionali sono per lo più fattispecie di una certa gravità e rilevanza, per il per-
seguimento delle quali gli Stati ritengono opportuno avviare un procedimento co-
operativo molto impegnativo, anche dal punto di vista dei costi, quale è, appunto,
l’estradizione.
Due sono i metodi di identificazione di tali reati, che la prassi ha nel tempo
sviluppato: il metodo enumerativo, più risalente nel tempo, consiste, come facil-
mente intuibile dal nome stesso, nell’elencazione dei comportamenti criminosi
estradizionali; il metodo eliminativo è, al contrario, quello di più recente utilizzo e
(7)
Basti pensare alla Convenzione europea di estradizione, alla Convenzione del Benelux, alle
Convenzioni interamericane, alla Convenzione OCAM.
(8)
Gli esempi, a tal proposito, ci sono forniti dalle leggi uniformi degli Stati scandinavi e dallo
schema adottato dai Paesi del Commonwealth. Appartengono, per evidenti ragioni, alla storia pas-
sata gli accordi estradizionali uniformi adottati tra i Paesi dell’ex-blocco socialista.
5
non fa altro che individuare una certa soglia minima della pena concretamente in-
flitta o del termine massimo della cornice edittale legalmente stabilita e al di sotto
della quale non è possibile procedere (rectius, il più delle volte il trattato, specie
se multilaterale, non prevede l’obbligo di estradare, ma nulla vieta che una Parte
possa, a mezzo di una comunicazione preventiva o di un accordo con altre Parti
contraenti, decidere di riservarsi l’opzione della concessione facoltativa
dell’estradizione). Pur trattandosi di due metodi che presentano evidenti elementi
di diversità, ciò non impedisce, come accade di fatto, che siano tra loro perfetta-
mente cumulabili: tale è la scelta operata in diverse convenzioni stipulate
dall’Italia.
(9)
Ovviamente, successivamente alla stipulazione di un accordo è pos-
sibile modificare l’ambito di applicabilità aumentando o riducendo il numero di
reati e/o il limite di pena.
Se il trattato fa genericamente rinvio alla categoria dei “fatti penalmente
sanzionati” si ritiene che sia data la possibilità di richiedere e di concedere
l’estradizione anche per fattispecie contravvenzionali. Infine, nulla osta
all’estradizione per reati colposi a condizione, però, che il comportamento colposo
sia ricompreso in uno dei nomina juris elencati, se il trattato è modellato secondo
il metodo enumerativo, oppure che sia rispettato il limite edittale previsto, nel ca-
so di clausola eliminativa. Determinate Convenzioni, tuttavia, escludono espres-
samente l’estradabilità delle fattispecie colpose.
(10)
2.2. Il principio della doppia incriminazione (o della previsione bilaterale
del fatto). – Sulla base del principio della doppia incriminazione (o della previsio-
(9)
Un esempio per tutti ci è fornito dall’art. II del Trattato di estradizione con l’Australia del 1973.
(10)
Si pensi ai Trattati con il Messico (1899), con Panama (1930) e con il Venezuela (1930).
6
ne bilaterale del fatto), un certo fatto può dar luogo a richiesta di estradizione, solo
nell’ipotesi in cui esso sia previsto come reato da entrambi gli ordinamenti nazio-
nali coinvolti. La doppia incriminazione è stata tradizionalmente considerata quale
principio avente natura accessoria e una funzione servente rispetto al principio
primario della reciprocità di condizioni. Con l’emergere di una tendenza interpre-
tativa maggiormente rispondente ai principi dello Stato liberaldemocratico di di-
ritto e il conseguente ridimensionamento dell’importanza attribuita alla reciproci-
tà, è stato possibile autonomizzare il principio de quo e consentire uno sviluppo
dell’estradizione nel senso di strumento di cooperazione tra Stati maggiormente
sensibile anche rispetto al tema della tutela dei diritti dell’uomo.
(11)
Il meccanismo di comparazione delle previsioni penali non comporta par-
ticolari difficoltà qualora la fattispecie sia modellata in entrambi gli ordinamenti
secondo uno stesso schema descrittivo e presenti lo stesso nomen juris, oppure
presenti un diverso nomen juris, ma conservi pur sempre lo stesso modello de-
scrittivo.
(12)
Qualora, al contrario, si verifichi una situazione nella quale le due
previsioni siano costituite da diversi elementi costitutivi, le soluzioni fornite dalla
dottrina si dividono: per alcuni, sarà necessario un riscontro circa la concreta rea-
lizzazione di un fatto previsto come reato nei due ordinamenti; altri ritengono, in-
vece, che non sia la dimensione fattuale a dover fornire il punto di partenza
(11)
Non è un caso, infatti, che la doppia incriminazione, nelle ricostruzioni dommatiche, faccia
oramai il paio con il principio di legalità. Ed è proprio il rispetto di tale principio garantista che
osta alla consegna da parte dello Stato richiesto per un fatto non previsto nell’ordinamento interno
come reato.
(12)
Per le opinioni della dottrina cfr. PISA, Previsione bilaterale del fatto nell’estradizione, Milano,
1973, 46. Dal punto di vista della giurisprudenza in proposito cfr. Cass. pen., 14/2/1972, Klicker,
in Cass. pen. Mass., 1974, 1336, 878 e Cass. pen., 9/4/1984, Kirkaldy, in Giust. pen., 1985, III,
274.
7
dell’indagine, quanto, piuttosto, il dato normativo.
(13)
In sostanza, si dovrà proce-
dere a verificare se il fatto così come qualificato dallo Stato richiedente sia previ-
sto dall’ordinamento dello Stato richiesto, valutazione che, forse, per certi aspetti
potrebbe essere tacciata di eccessivo formalismo, ma che in realtà, a nostro avvi-
so, evita – per quanto possibile – che l’operatore del diritto (in questo caso il giu-
dice), il quale si troverà a diretto contatto con il caso concreto, si perda nelle insi-
die che il confronto trilatero tra il fatto concreto, la normativa nazionale e quella
straniera (che potrebbe anche non conoscere così bene e saper decifrare in manie-
ra opportuna) nasconde in sé.
Altre pregnanti questioni, sul piano del diritto penale sostanziale, sono po-
ste dal rilievo che alcuni elementi possono avere nella valutazione dell’effettivo
rispetto del principio della doppia incriminazione. Esse riguardano essenzialmente
le condizioni obiettive di punibilità, le cause di giustificazione, l’elemento psico-
logico, le condizioni di procedibilità, le cause estintive e il tipo della pena.
La rilevanza delle condizioni obiettive di punibilità è riconosciuta da quel-
la parte della dottrina che le considera elementi costitutivi della fattispecie crimi-
nale.
(14)
A differente conclusione (che, peraltro, ci sembra inquadrare in modo più
efficace la problematica) si dovrebbe giungere qualora si condivida
l’impostazione di quegli autori che ritengono le condizioni di non punibilità quali
semplici eventi che pongono un limite alla punibilità del fatto e, pertanto, del tutto
estranei rispetto al piano dell’offesa.
(15)
Esse, pertanto, non contribuirebbero in
(13)
A favore della prima tesi cfr. PISA, op. cit., 49; contra DE FRANCESCO, Il concetto di «fatto»
nella previsione bilaterale e nel principio del «ne bis in idem» in materia di estradizione, in Indice
pen., 1981, 634.
(14)
PISA, op. cit., 79.
(15)
PADOVANI, Diritto penale, Milano, 2004, 335 e ss. A parere dell’Autore, infatti, le condizioni
obiettive di punibilità non potrebbero formare nemmeno oggetto di dolo, dato che il legislatore,
8
alcun modo alla sussunzione di una certa fattispecie concreta ad una fattispecie
legale. L’esempio classico è quello del comportamento che il nostro ordinamento
incrimina all’art. 564 c. p., l’incesto: la condizione obiettiva di punibilità del
«pubblico scandalo» se non venisse realizzata in concreto non renderebbe certo il
fatto lecito, dal momento che la fattispecie legale si incentra, ai fini della tipicità,
sul solo atto sessuale (o la relazione) con l’ascendente o il discendente o con il
fratello o con la sorella. In sostanza, si tratta solo di un parametro attraverso il
quale l’ordinamento giuridico valuta l’opportunità di intervenire con la sua autori-
tà, in una situazione che già relegata al contesto privato comporta sconvolgimenti
dei rapporti familiari, scegliendo di limitare il suo ruolo ai soli casi in cui il reato
(già integrato) venga percepito e accertato con relativa sicurezza.
Anche rispetto alle cause di giustificazione è possibile riscontrare in dot-
trina un contrasto di posizioni. Il campo è sostanzialmente diviso tra due linee in-
terpretative contendenti. Da un lato, vi è chi sostiene che la rilevanza poggerebbe
sulla modalità di funzionamento stessa delle cause di giustificazione: escludendo
l’antigiuridicità obiettiva del fatto, esse impedirebbero l’integrazione della fatti-
specie tipica e, in ultima analisi, non si potrebbe ritenere soddisfatto il requisito
della doppia incriminazione.
(16)
Dall’altro lato, invece, si attesta la posizione di
quella dottrina, la quale sostiene che sarebbe sufficiente, ai fini del rispetto del
principio della doppia incriminazione, la sussunzione del fatto alla semplice fatti-
specie legale.
(17)
In verità, tale ultima impostazione soffre, a nostro avviso, di un
importante difetto: anche qualora non si volesse accogliere la nuova analisi bipar-
all’art. 44 c. p., prevede per esse una sorta di forma obiettiva di imputazione. Inoltre, «il legislato-
re potrebbe, in linea di principio, prescindere dalla condizione, ed affermare la punibilità del rea-
to a prescindere dalla condizione, senza disattendere l’esigenza di una responsabilità colpevole».
(16)
PISA, op. cit., 72.
(17)
DE FRANCESCO, op. cit., 643.
9
tita, la quale nega una rilevanza dogmatica autonoma al piano dell’antigiuridicità
obiettiva, riconducendo il tutto nell’ambito del fatto tipico (che pertanto si confi-
gurerebbe come una somma algebrica di elementi positivi e negativi), essa, co-
munque, commette l’imprudenza di non considerare il reato, almeno nella dimen-
sione oggettiva
(18)
della sua tripartizione ormai classica, come un sistema compo-
sto di diversi elementi che necessariamente concorrono tutti al suo corretto fun-
zionamento. Senza contare poi che una simile interpretazione rischia di porsi in
contrasto anche con un principio costituzionale quale quello di eguaglianza ex art.
3 Cost.: infatti, in cosa potrebbe ravvisarsi la ragionevolezza della discriminazione
tra il soggetto che commetta il reato in territorio italiano in presenza di una causa
di giustificazione e che, per tale motivo, andrebbe esente da pena, e il soggetto
che invece, commesso il reato all’estero pur nelle stesse condizioni fattuali, venga,
ciononostante, consegnato allo Stato richiedente? Certo il punto non è di agevole
soluzione: a quest’ultimo rilievo si potrebbe obiettare che, in realtà, si tratterebbe
di due situazioni del tutto diverse, dal momento che, comunque, il soggetto estra-
dato non sarebbe automaticamente condannato, ma semplicemente sottoposto a
processo e che il vero “cortocircuito” del principio di eguaglianza si verifichereb-
be qualora si trasformasse la causa di non estradabilità in una condizione di vera e
propria impunità. È anche vero, però, (a onore della buona fede che sostiene la
nostra opinione e che certo non vuol giustificare una situazione ordinamentale a
(18)
Il fatto tipico e l’antigiuridicità obiettiva. A questa dimensione, che abbiamo definito oggettiva
poiché la sua analisi prescinde da ogni indagine sull’atteggiamento psicologico dell’agente – im-
postazione teorica che trova il suo fondamento normativo nell’art. 591 c. p. –, si aggiunge la di-
mensione soggettiva della colpevolezza, che invece è tutta incentrata sul giudizio di rimproverabi-
lità del presunto reo.
10
macchia di leopardo), che è operativo il principio dell’aut dedere aut iudicare,
(19)
il quale dovrebbe aiutare ad evitare tutte le situazioni di incertezza derivanti
dall’obiezione precedentemente esposta.
Continuando nella trattazione, si pone ora all’attenzione il problema con-
cernente l’elemento psicologico. Una prima tesi considera inammissibile
l’estradizione in due ipotesi: quando un fatto commesso con colpa sia incriminato
solo a titolo di dolo; quando la condotta sanzionata, qualificata da uno dei due or-
dinamenti come dolosa o colposa, non integri gli estremi del dolo o della colpa
così come concepiti nel sistema penale dello Stato richiesto.
(20)
A questa ricostru-
zione, che forse pretenderebbe un po’ troppo dall’operato dei giudici, giudichiamo
sia preferibile la tesi per la quale, fermo restando il primo caso della divergenza
del titolo psicologico di incriminazione, non si potrebbe rifiutare una richiesta di
estradizione nell’ipotesi in cui i due ordinamenti differiscano sul piano del conte-
nuto degli elementi psicologici dolo e colpa: infatti, ai fini della verifica del rispet-
to del principio di doppia incriminazione si dovrebbe, in tale ipotesi, ritenere suf-
ficiente la valutazione della tipicità del fatto, senza doversi necessariamente spin-
gere oltre.
(21)
A proposito delle condizioni di procedibilità e delle cause estintive, parte
della dottrina e la prevalente giurisprudenza ritengono che esse non ricoprano nes-
sun ruolo rispetto alla previsione bilaterale del fatto, non afferendo al piano degli
elementi costitutivi del reato, ma semplicemente rappresentando “accidenti” che
possono ostacolare la perseguibilità della condotta criminosa, ma non certo la sua
(19)
Il principio di groziana memoria per il quale lo Stato richiesto ha l’obbligo di sottoporre a giu-
dizio il reo di un delitto commesso all’estero, qualora decida di respingere la richiesta di estradi-
zione.
(20)
PISA, op. cit., 75.
(21)
DE FRANCESCO, op. cit., 645.