principio emerso nella legge 328/00, che prevede, come ho detto prima, l’adozione di
piani regionali e piani di zona in modo coerente su tutto il territorio nazionale; il
piano nazionale oltre che essere coerente su tutto il territorio deve svilupparsi nel
rispetto degli impegni europei in un rapporto di coesione sociale con politiche di tipo
macro-economiche.
Riprendendo l’art. 1 delle L.Q. 328/00 vi si introduce il principio di
sussidiarietà.
Questo principio valorizza la diversità e a ciascuno è concesso di realizzarsi
secondo le proprie possibilità.
I presupposti filosofici del principio di sussidiarietà derivano da una precisa
visione dell’individuo, inteso come singolo, e della società, la quale luogo all’interno
del quale si individuano le singole individualità.
126
Il principio di sussidiarietà, nel primo comma dell’art.118, è invocato al criterio
regolatore nell’allocazione delle funzioni tra i diversi livelli di governo (sussidiarietà
verticale). Nel quarto comma è invocato quale criterio di distribuzione delle
126
Il principio della sussidiarietà è molto antico e trova le sue origini nello spirito greco, nella filosofia cristiana
medievale e nella visione germanica della società. Il problema Aristotelico di come “governare uomini liberi” veniva
risolto chiamando in causa la questione della sovranità individuale, dimostrata nella sua coincidenza con il principio
della libertà di autonomia. Questo ultimo principio contemplava già qualcosa di vicino alla sussidiarietà, quando
affermava che compito del potere era di permettere la felicità nella diversità, rimanendo non creatore della società. Con
l’approfondimento della Scolastica, il concetto di sussidiarietà connetteva la libertà di autonomia e giustizia sociale,
mostrandone implicazioni idonee con la “ questione pubblica” del bene comune. In questo modo la sussidiarietà
acquisiva una connotazione da cui deriva la dicotomia tra individuo-Stato. Con Tommaso D’Acquino si riprese e si
sviluppò il principio della libertà d’autonomia all’interno di un ambiente culturale in cui l’individuo non era
prescindibile da legami sociali in cui nasceva e si sviluppava. Sarà nella Weltanschauung di Althusius che il principio
ottenne una formulazione più vicina a quella attuale anche se legata al pensiero medievale. Dopo Tocqueville il
principio di sussidiarietà traduceva nella filosofia sociale il riconoscimento dell’autonomia della persona umana come
soggetto di darsi norme del proprio agire. Da qui il ruolo sussidiario dello Stato, legittimato solo in quei casi in cui, il
singolo o la comunità a lui più vicina non è in grado di autoregolarsi e gestirsi da soli. Giovanni Paolo II disse in un
discorso: “Se prevalesse la tendenza ad attribuire allo Stato e alle altre espressioni territoriali del potere pubblico una
funzione accentratrice ed esclusiva di organizzazione diretta dei servizi o di rigidi controlli che finirebbe con lo
snaturare la funzione legittima loro propria di promozione, di propulsione, di integrazione e anche di sostituzione
dell’iniziativa delle libere formazioni sociali secondo il principio di sussidiarietà”. Cfr. G. VITTADINI E
L.ANTONINI, Sussidiarità, Vitadossier,in Vitanon profit, Anno II, n.15, p.16.
competenze tra i diversi enti pubblici e le formazioni sociali (sussidiarietà
orizzontale), quest’ultimo diverso da un spontaneismo sociale.
127
Infatti esso
valorizza le entità inferiori, quali soggetti responsabili e creativi, in un ottica di
organizzazione gerarchica, ma che rispetta e valorizza la diversità, un organizzazione
in cui a ciascuno è concessa la possibilità di realizzarsi in ambiti e forme diverse,
secondo le proprie esigenze e possibilità. Così il nuovo articolo118 rappresenta un
movimento di apertura progressiva che apre le formazioni intermedie a quelle
successive.
128
In questo contesto, al principio inviolabile di unità ed indivisibilità della
Repubblica, si uniscono i principi di sussidiarietà, di differenziazione ed adeguatezza,
nuovi strumenti per attuare un diverso modo di intendere la distribuzione del potere
tra centro e periferia. La sussidiarietà diventa uno dei cardini del diritto e della
politica
129
, i quanto dovrebbe assicurare un processo decisionale cooperativo.
Questo processo cooperativo tra le istituzioni pubbliche e società civile però è
introdotto con suoi relativi meccanismi di realizzazione, ma si tratta di meccanismi
che, in quanto maturati in epoca antecedente alle riforme del Titolo V, non hanno
internalizzato il nuovo quadro istituzionale interno ed esterno.
130
Quindi saranno
influenzati i meccanismi di sussidiarietà, contenuti nella legge quadro 328/00,
127
Tesi di Laurea, A. Delli Zolli, Il principio di sussidiarietà nel nuovo Titolo V, Parte II della Costituzione,
www.federalismi.it n. 14/2004.
128
Cfr. F. PIZZOLATO, Il principio di sussidiarietà, in T.GROPPI, M. OLIVETTI, La Repubblica delle
autonomie.Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, 2003, Giappichelli, p.206.
129
Cfr. S. GAMBINO, in A.PIRATINO (a cura di), La funzione normativa di Comuni, Province e Città metropolitane
nel nuovo sistema Costituzionale, Atti del Convegno di Trapani, Palermo, 2002, Quattrosoli.
130
Ibidem, p.29.
dall’evoluzione dei cambiamenti che ci sono e ci saranno a livello europeo e
dall’applicazione del medesimo Titolo V della Costituzione, Parte II.
“L’attuale conformazione del Titolo V di impronta solidaristica, ha disegnato,
per lo Stato, un ruolo di salvaguardia dell’eguaglianza sociale in un contesto
improntato a quella che è stata definita la diversità accettabile”
131
, in questo modo
tutto il sistema amministrativo appare inscindibilmente legato. In effetti
dall’applicazione del Titolo V, lo Stato gode del diritto di legislazione in materia dei
livelli essenziali i quali fanno riferimento ad un insieme di principi generali e ad una
griglia articolata su aree di intervento, con direttrici per la costruzione della rete di
interventi e dei servizi.
132
Importante è fare alcune constatazioni su problematiche
sorte dall’analisi delle leggi sull’integrazione del sistema sanitario in particolare sul
problema dei confini amministrativi tra i settori sociali, sanitario e sociosanitario.
Nella più recente normativa sull’integrazione sociosanitaria importante è
l’aspetto che concerne i livelli essenziali delle prestazioni (LEA). Con queste si
intendono le prestazione definite nei loro aspetti quantitativi e qualitativi, che devono
essere garantite su tutto il territorio.
131
A. SANDULLI, Il sistema nazionale di istruzione, Bologna, 2003, Il Mulino,p.128.
132
Cfr. P.GIANGASPARO, La disciplina delle funzioni e i controlli sugli enti locali, Atti del Convegno regionale
“Analisi ed effetti per la Regione Friuli Venezia Giulia e per gli enti locali delle riforme di cui alla legge
costituzionale”, n.3 del 2001, Codroipo (UD), 9 novembre 2002.
3. Tra la rete formale dei servizi e quella informale
Il problema della non autosufficienza degli anziani e il bisogno di cura che essi
esprimono viene tradizionalmente affrontato in Italia con il ri-accoglimento
dell'anziano nella famiglia dei figli o comunque all’interno di una rete familiare di
aiuto anche quando non vi è vera e propria coabitazione. Questa soluzione – di gran
lunga la più praticata - comporta un sovraccarico funzionale per la famiglia, e in
particolare per le donne, che spesso non ha le risorse economiche e temporali per
farvi fronte. L’alternativa della completa istituzionalizzazione è praticata in un
numero molto esiguo di casi, soprattutto quando ci sono anche complicazioni di
carattere sanitario o nel caso di anziani senza figli. La filosofia assistenziale
dell’ospizio è quella di offrire un ricovero per le persone molto anziane e malate, per
le quali non esistono più trattamenti medici appropriati per il recupero della salute e
la cura lascia il posto al prendersi cura (cure and care), offrendo sostegno psicologico
e cure palliative per l’alleviamento del dolore a chi si trova in una fase terminale della
vita (vedi per esempio la legge n. 39 del 1999). Al di là di questi casi,
l’istituzionalizzazione è poco praticata, anche perché, oltre ai fattori culturali, gioca il
fatto che le residenze sanitarie assistenziali pubbliche per anziani sono poche mentre
quelle private sono costose e di qualità variabile.
Il modello prevalente è dunque quello dell’integrazione in una rete familiare di
aiuto che se da una parte limita fortemente i casi di esclusione e marginalità
dell’anziano, dall’altra sottopone la famiglia ad un sovraccarico funzionale a cui fa di
norma fronte la donna, che spesso è costretta a rinunciare all’inserimento nel mondo
del lavoro o a limitare fortemente le sue aspirazioni professionali e la propria vita
sociale e relazionale. D’altro canto non va sottovalutato l’aiuto che gli anziani danno
spesso alle famiglie dei figli, finche possono, sotto forma di custodia dei piccoli,
disbrigo di affari e pratiche amministrative, aiuto domestico, lavori di manutenzione
e molto altro ancora.
La direzione verso cui ci si dovrebbe muovere – e in parte lo si sta facendo – è
quella di differenziare maggiormente i servizi, in modo da consentire agli anziani di
rimanere a casa propria alleggerendo e sostenendo quanto più possibile il lavoro di
supporto e di cura delle famiglie.
Non è semplice trovare un collegamento tra le cure formali (i servizi pubblici)
e le cure informali (familiari e vicinato).
In Italia il concetto di assistenza è spesso stato legato all’assistenza pubblica o
volontaria, ed risultava difficile riconoscere il ruolo del lavoro di cura informale
come risorsa da educare al fine del sostegno al malato attraverso un programma
individualizzato sul cliente.
Il concetto di comunity care ha segnalato il passaggio della filosofia
assistenziale dall’istituzionale al comunitario, determinando un peso gravoso per la
comunità.
159
“ Il compito primario dei servizi pubblici e dell’associazione di volontariato è
di sostenere l’assistenza informale fornita dai parenti e dagli amici in modo tale che
queste relazioni di cura continuino a far fronte ai bisogni più pressanti
159
Cfr. W. HARBERT,The nature of community care, in HARBERT E ROGERT,Community-Based social care: The
Avon experience, London Bedford Square Press, p.5.
dell’utente”
160
. Infatti nello stesso concetto di community care è intesa
quell’assistenza fornita localmente dai servizi pubblici volontari, ma anche informali
che operano in diverse maniere per sostenere persone in situazione di dipendenza
assistenziale.
161
Per informali indichiamo la famiglia intesa come fonte di social
care.
162
Anche in Italia oggi la cura professionale e quella familiare non vengono più
considerate come soluzioni alternative, ma attività che devono essere rese
complementari attraverso una combinazione di misure di sostegno alla cura familiare
e di misure finalizzate ad offrire servizi professionali.
163
Perciò il care familiare
viene considerato esplicitamente come un elemento importante nella valutazione dei
casi e delle misure assistenziali da realizzare come risorse da utilizzare. L’aspetto
negativo è che non vi sono ancora per i caregiver alcun riconoscimento esplicito
della propria attività, che spesso porta a fare delle scelte nella propria vita. Philip
Abrams sostiene che “le basi effettive della community care sono la parentela, […].
La parentela rimane la più solida base dell’attaccamento e la base più sicura di
assistenza che noi abbiamo. Questo è particolarmente vero per le donne.”
164
Infatti Abrams afferma che l’assistenza in gran parte è fornita da parenti di
sesso femminile. Di norma sono le donne a doversi occupare dell’assistenza; un
160
HARBERT W., The nature of community care, op.cit.p.6.
161
M. BULMER, Le basi della community care, Edizioni Erickson, Trento, 1992,p.27.
162
Il termine care è riportato nel significato inglese di assistenza e cura sia come aiuto informale che come aiuto
formale; in italiano indica un assistenza di tipo istituzionale.
163
C. RANCI, I mercati sociali della cura: un modello valido per l’Italia?, in L’assistente sociale, Rivista trimestrale
sulla prospettiva del Welfare, n.4, Ottobre/Dicembre 2001, Ediesse, p. 49 e ss.
164
P. ABRAMS, Community care, some research problems and priorities, in BARNES E CONNELLY, Social
Research, London, Policy Studies Institute e Bedford Square Press. Pp. 86-87.
assistenza che passa invisibile ed è data per scontata.
165
Anzi Bulmer arriva a
sostenere che la community care sfrutta “il lavoro familiare non pagato”,
166
e per
eseguirlo bisogna rinunciare ad un pezzo della propria vita. Infatti l’impegno è così
grande che bisognerebbe riservare maggiore attenzione a chi presta assistenza ad un
malato. Se, tra i membri di una famiglia, il peso dell’assistenza ricade su una
persona, allora sono necessari sforzi più sistematici per assistere chi assiste, qualche
volta con servizi di tregua, oppure con il ricovero temporaneo dell’assistito.
167
La
parentela è vista come risorsa indispensabile, in quanto appare un elemento e
un’articolazione di rete fondamentale della vita sociale su cui si sviluppa quella che è
la vita quotidiana.
168
È anche vero che uno studio inglese ha potuto mettere a
confronto i dati di ricerca sulle relazioni di sostegno parentale in una stessa comunità
a diversi anni di distanza e ha documentato sia le rilevanze di queste reti di sostegno
che mutamenti all’interno di tali sostegni. Gli autori di questa ricerca concludono che
per quanto importante sia la parentela nella vita quotidiana e nel benessere
psicofisico degli anziani, quest’ultimi non possono contare sui parenti per vari
motivi, come quello della lontananza geografica o gli impegni di lavoro ecc. Inoltre
coloro che sono veramente coinvolti in questo tipo di assistenza sono sempre
meno.
169
165
Cfr. M.BULMER, Le basi della Community care, op. cit., p. 48.
166
Ibidem, p.79.
167
Cfr. F. FOLGHERAITER E P.DONATI, Community care, Edizione Centro Studi Erickson, Trento, 1991, p.98-99.
168
Cfr. C. SARACENO, M. NALDINI, Sociologia della Famiglia, Il Mulino, Bologna 2001, p.66-67.
169
Cfr. BERNARD, M.PHILLIPS, J. PHILLIPSON, C. OGG, Continuity and Change the family and community life of
older people in the 1990s, in Arder e Attias -Donfut, p.209-227.
Tenendo conto di ciò bisognerebbe trovare nella pratica un intreccio o legame
tra queste due tipi di cura aldilà dell’assistenza economica che lo Stato fornisce
attraverso la pensione di invalidità o di accompagnamento.
Come afferma Bulmer i carers informali rimangono il principale punto di
riferimento per le persone che necessitano aiuto. La rete sociale di ciascuno
individuo costituisce un riferimento sicuro per cercare e ottenere un aiuto urgente per
soddisfare i bisogni più immediati. Le situazioni che riesce a coprire non sono
uniformi poiché dipendono da legami personali e dalla densità della rete sociale in
cui si trova l’individuo. Esse possono essere forti in una determinata zona e deboli in
un'altra ed anche in un territorio con reti forti, un particolare individuo privo di
parentela o amici può rimanere isolato.
Un servizio che rappresenti un certo grado di intercambiabilità tra il settore
formale e quello informale è per esempio il servizio di assistenza domiciliare. Gli
studi sull’assistenza domiciliare hanno mostrato ripetutamente che gli anziani che
abitano da soli ricevono più aiuti di quelli che vivono con le loro famiglie. Il fatto di
vivere da soli viene considerato un criterio convenzionale per stabilire una priorità
nell’assegnazione del servizio, indipendentemente da una esatta valutazione della
situazione della persona. Un altro criterio potrebbe essere quello di fornire supporto
ad una famiglia che è sottoposta ad un impegno assistenziale continuativo.
Sul nostro territorio, nel campo oncologico, per quel che concerne ASL LE/2,
il coordinamento del servizio è stato affidato all’Unità di Oncologia Medica
dell’ospedale di Casarano, struttura che segue oltre tremila pazienti neoplastici.
Nel territorio ASL LE/1, invece, sono attivate due équipes: la prima basata
presso il Servizio di Oncologia dell’Ospedale di Nardò, e la seconda presso la Lega
Tumori di Copertino. Il servizio AOD mira a garantire al malato e ai suoi familiari
una continuità di rete tra ospedale e domicilio.
170
Questo servizio si rivolge a pazienti
che non sono più in grado di raggiungere le strutture sanitarie trovandosi nella fase
terminale della malattia. Grazie a questo servizio si potrebbe superare quella
mancanza di collegamento tra prestazioni effettuate durante il ricovero e quelle che
si svolgono in fase di de-ospedalizzazione. Naturalmente il collegamento
dell’assistenza domiciliare con il territorio non può essere programmata, ma dipende
dai singoli assistenti domiciliari e dalle caratteristiche del territorio, cioè in genere
sono le risorse disponibili a determinare “quanto” servizio viene fornito.
171
Questa idea di un continuum tra il formale e l’informale è molto difficile da
attuare, poiché difficile è trasformare l’assistenza nella comunità in assistenza dalla
comunità, soprattutto se ciò significa far cooperare strettamente carers formali e
quelli informali.
172
Tutto ciò è scaturito da vincoli organizzativi esistenti nelle due
forme di cura. Il primo vincolo è rappresentato dal fatto che gli operatori formali e
quelli informali differiscono per la quantità di tempo che possono dedicare
all’impegno assistenziale. Mentre i primi prestano un servizio con aspettative
determinate e a tempo determinato, i secondi nella loro prestazione non hanno né un
inizio né una fine. Il secondo vincolo rappresentato dal fatto che l’operatore formale
170
LEGA ITALIANA PER LA LOTTA CONTRO I TUMORI, Un anno di attività, Sede Provinciale Lecce, 2002,
p.11.
171
Cfr. M.BULMER, Le basi della Community Care, op.cit., p.219-220.
172
Ibidem, p.230.
ha abilità specifiche ed informazioni specializzate; mentre i carers informali basano
le loro azioni su coscienze personali, acquisite dall’esperienza e dall’ambiente in cui
vivono. Essi danno vita a legami che sono molto particolari ed un aspetto importante
è il carico di stress che devono subire, dovuto ad un grosso “carico familiare”.
173
Spesso questa differenza tra gli operatori e i carers informali porta ad un
giudizio di superiorità dei primi verso i secondi, non dando la possibilità di mettere
una vera e propria collaborazione tra le due forme, ma si verifica una supervisione
del servizio pubblico su quello privato.
174
Tutto ciò porta ad una forma di natura
sommersa del “care” privato, la cui assistenza si sviluppa al di fuori della rete di
sostegno a favore degli anziani non auto sufficienti, con frammentarietà e vuoto di
relazioni e di coordinamento con lo sviluppo dei servizi pubblici territoriali.
175
La necessità di tagliare la spesa pubblica fa apparire la community care più
economica rispetto ad altre modalità di assistenza. Però l’intrecciamento è molto
difficile da attuare; forse sarebbe più opportuno, come afferma Bulmer, parlare di “
strutture di mediazione” che vanno in contro a punti di debolezza presenti nelle cure
informali. Non è realistico aspettarsi che le famiglie forniscano servizi di carattere
professionale.
176
Una funzione potrebbe avere il terzo settore.
173
Questo termine ha origine nel campo della salute mentale. Cfr. J. GRAD E P. SAINSBURY, The effects that patients
have on their families in a community care and a control psychiatric service: A two years follow-up, British Journal of
Psychiatry, n.114, pp.265-278.
174
Cfr. E.M. GOLBERG E N.CONNELLY, The effectiveness of Social Care for the Elderly, London, Heineman
Educational Book, 1982, p.169.
175
Cfr.,Un sistema inadeguato, 10 Gennaio 2003, in Stato Sociale. www.rassegna.it
176
Cfr. A GRAYCAR, Informal voluntary and staturary services: the complex relationship in British Journal of Social
Work, vol.13, 1983, p.385.
Infatti un importante “momento” del processo di sviluppo che ha portato alla
attuale configurazione del sistema di welfare va visto nella nascita e nel
consolidamento di un terzo settore «moderno», come soggetto centrale della
produzione di servizi sociali. La trasformazione ha inizio a partire dagli anni Settanta,
in una fase politica e sociale dominata da una forte ambivalenza. Da una parte si
affermano concetti di “bisogno” e di “disagio” più articolati e multidimensionali,
rispetto ai quali gli interventi standardizzati delle strutture pubbliche tradizionali
appaiono sempre più inadeguati. Anche sulla scorta delle innovazioni culturali portate
dai movimenti degli anni sessanta-settanta, si apre la strada della critica all’approccio
burocratico di gestione del welfare. Si profilano nuovi diritti. Da questa prospettiva,
l’emergenza del terzo settore viene messa in relazione all’emergere di nuovi bisogni e
alla modificazione di alcuni bisogni tradizionali (generalizzazione dello status di
madre lavoratrice, invecchiamento della popolazione, tossicodipendenza etc.). Sono
richieste nuove culture di intervento, più flessibili modalità di erogazione, di
conseguenza una diversa collocazione istituzionale dei servizi sociali, modalità di
gestione più innovative, e dunque si profila nell’agenda politica la necessità di
ampliare, modernizzare e sviluppare il novero dei soggetti abilitati a fornire i servizi.
Il terzo settore, rispetto al sistema pubblico e anche rispetto al privato for profit, viene
ritenuto in grado – a torto o a ragione – di assicurare una maggiore capacità di
partecipazione e coinvolgimento, sia nella “lettura” dei bisogni, sia anche nella
formulazione delle risposte. In questa fase il campo dell’assistenza si apre anche a
nuovi approcci professionali, in particolare a quelli tipici del sociale, distinti da quelli
tradizionali di tipo medico o burocratico. I paradigmi professionali del sociali, più
deboli, si presentano come più predisposti ad una pratica dell’ascolto, della
complessità, meno orientati ad un approccio paternalistico o tutelare.
Dall’altra parte, più o meno negli stessi anni si palesa quella che viene
chiamata in letteratura la crisi fiscale dello stato e la conseguente richiesta di
ridimensionamento delle risorse destinate ai programmi di welfare. Da questa
seconda prospettiva, l’opzione del terzo settore viene spesso interpretata come un
tentativo, più o meno velato di esternalizzare al privato funzioni che prima erano
svolte da organismi pubblici con lo scopo primario di ridurre le spese.
Con il termine di «terzo settore» si intendono una pluralità di soggetti, molto
diversi per natura, configurazione organizzativa e dimensioni. Si tratta in effetti di
una definizione residuale che include tutti quei centri di iniziativa la cui attività non è
mossa né dall’obiettivo specifico di perseguire profitto economico né da programmi
amministrativi. Il terzo settore va altresì definito rispetto ad un altro centro di
iniziativa che opera negli spazi tra mercato e istituzioni pubbliche, sebbene in questo
caso la distinzione sia meno agevole dal punto di vista formale. Si tratta delle reti
sociali che operano in modo informale: famiglia innanzi tutto, gruppi di vicinato e
amicali, reti parentali estese e via dicendo. E’ evidente che questi gruppi svolgono
una importantissima funzione assistenziale, per lo più non riconosciuta, e che sono
importantissimi fornitori di servizi (custodia, funzioni informative, sostegno
economico e socio-psicologico). Non è facile delimitarli rispetto al terzo settore
propriamente detto e i momenti di passaggio dall’informalità alla formalità sono
spesso di difficile definizione. Basta pensare ai gruppi di auto-aiuto (self-help) che si
attivano nella terapia delle dipendenze e che possono avere talvolta una struttura
formalizzata e tal’altra operano in modo assolutamente spontaneo senza alcuna natura
giuridica. Allo stesso modo e con la stessa ambiguità, nell’ambito del terzo settore
troviamo piccole associazioni prive di una attività strutturata, e grandi cooperative o
associazioni di volontariato con migliaia di iscritti e di dipendenti. Anche quanto alla
cultura di provenienza, gli enti del terzo settore differiscono molto tra di loro: talvolta
sono una emanazione del mondo cattolico, altre volte espressione di solidarietà nate
in seno al movimento operaio e altre ancora sono iniziative mosse da sentimenti di
benevolenza e carità della borghesia.
Un ulteriore punto di criticità riguarda il ruolo che devono assumere
rispettivamente strutture ospedaliere e strutture assistenziali nei riguardi del
trattamento dei pazienti cronici non autosufficienti. Da una parte c’è chi ritiene che le
strutture ospedaliere dovrebbero concentrarsi sulla diagnosi e sul trattamento delle
fasi acute, specializzandosi per così dire nella funzione tecnologica. Di conseguenza i
malati cronici dovrebbero essere trattati in strutture residenziali di tipo assistenziale o
dovrebbero permanere presso le famiglie con il sostegno dei servizi territoriali. Al
contrario c’è chi ritiene che il trattamento dei malati cronici dovrebbe essere
effettuato negli ospedali, dunque anche in casi di lunga degenza, e che dunque spetti
al SSN sostenerne i costi. Comunque a queste due opinioni rimane il fatto della reale
e presente mancanza di strutture adeguate per questa tipologia di cura.