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Introduzione
“Nel momento stesso in cui dubitate di poter volare, cessate anche di essere in grado
di farlo”, scriveva lo scrittore e drammaturgo inglese Sir James Matthew Barrie nella
sua opera Peter Pan.
La conoscenza di sé è un elemento imprescindibile ai fini della piena
realizzazione personale, dal momento che, così come bisogna essere coscienti dei
propri limiti e delle proprie debolezze, allo stesso modo – se non in misura più
importante – risulta fondamentale conoscere quei tratti che ci rendono unici e speciali
nella nostra individualità. Tratti che, nell’accezione più ottimistica possibile, vengono
considerati positivi. E che, colpevolmente o meno, il mondo degli adulti tende a metter
da parte quando si tratta di individuare le esigenze educative dei più piccoli.
La psicologia classica, d’altronde, si occupa della sofferenza e ne indaga le
cause, oltre che sondarne le possibili soluzioni. Seppur ciò non costituisca, in sé, una
problematica, ciò comporta una mancata valorizzazione di quella che è
etimologicamente considerata come l’opposto della sofferenza. Secondo Aristotele, la
felicità è associata al concetto di Eudaimonia, la quale deriva dall’identificazione delle
proprie virtù, dal loro sviluppo e dal vivere la vita in armonia.
In accordo con la teoria aristotelica dell’Eudaimonia, negli anni Duemila
prende avvio un filone in materia psicologica che vede in Martin Seligman uno dei
suoi padri fondatori, la psicologia positiva. Essa, incentrata sullo studio delle emozioni
positive e sui tratti del temperamento positivo, si fa portatrice della teoria secondo la
quale ai fini dell’innalzamento della qualità della vita risulta necessario coltivare le
proprie virtù, dopo averle identificate.
Al fine di indagare la valenza morale del cinema d’animazione, il presente
lavoro di tesi si propone di individuare una connessione concettuale con il sopracitato
filone, e in particolare con le sei virtù classificate da Martin Seligman e Christopher
Peterson all’alba degli anni Duemila.
Il cinema d’animazione si configura da sempre come quello strumento
figurativo rivolto prettamente a un pubblico infantile, che ne fruisce in maniera più o
2
meno consapevole e che lo “riutilizza” nel suo quotidiano, reinventandosi e scoprendo
ogni volta qualche nuova sfumatura del mondo intorno a sé.
I personaggi del cinema d’animazione – buoni o cattivi che siano – forniscono, come
ogni favola o fiaba che si rispetti, una morale, e rispecchiano nell’immaginario
collettivo il modello – anch’esso più o meno esplicito – di ciò che è lecito o meno
lecito perseguire.
Il presente elaborato si presenta suddiviso in quattro capitoli.
Il primo capitolo è dedicato all’inquadramento teorico della psicologia
positiva, ne individua i concetti fondamentali e li analizza, facendo particolare
riferimento al mondo infantile e scolastico.
Nel secondo capitolo viene condotto un excursus storico a partire
dall’ideazione dei dispositivi del cosiddetto pre-cinema, ossia quegli strumenti
tecnologici con i quali l’uomo ha tentato di ricreare il movimento tramite il susseguirsi
di immagini disegnate. Dopo aver concluso l’analisi dei dispositivi ottici del pre-
cinema, il capitolo prosegue con un approfondimento a riguardo del cinema
d’animazione, a partire dalla sua nascita per finire con il contributo ad esso fornito da
Walt Disney e dai suoi lungometraggi.
Il terzo capitolo prende avvio dalla considerazione che esistono dei film che si
possono dire positivi, nel senso che si collegano direttamente e intimamente con i
concetti fondamentali della psicologia positiva. Individuati sei di questi film, essi
vengono associati alle sei virtù della psicologia positiva, secondo un’approfondita
analisi degli atteggiamenti e comportamenti dei personaggi dei lungometraggi.
Il quarto e ultimo capitolo, oltre a esporre le considerazioni di accademici e
studiosi a riguardo della valenza educativa, didattica e formativa dello strumento
cinematografico, si occupa di presentare una proposta di intervento didattico nella
scuola primaria, in linea con gli argomenti teorici esposti nell’intero elaborato.
3
1. Capitolo 1
La Psicologia positiva
1.1 Quadro generale
Quando la cinquenne Nikki Seligman disse al padre Martin di dover parlare con
lui, quest’ultimo non si sarebbe mai aspettato di ricevere quella che lui stesso definisce
un’epifania. La giovane figlia dello psicologo affermò che «da quando avevo tre anni
[…], ero una piagnucolona. Piagnucolavo ogni giorno. Quando compii cinque anni,
decisi di non piagnucolare più. È stata la cosa più difficile che abbia mai fatto. E se io
riesco a smettere di piagnucolare, tu puoi smettere di essere così brontolone!»
1
.
Fu allora che lo studioso americano si convinse di un semplice concetto: crescere i
propri figli non vuol dire correggerne il lamento – a quello ci pensano da soli, e la
piccola Nikki ne è la prova – quanto nutrire le loro qualità e possibilmente rafforzarle.
Per rendere la giovane Nikki un’adulta responsabile, realizzata, felice, avrebbe
dovuto insegnarle a “vedere nella sua anima”
2
, ad esplorare la sua mente, a rendersi
conto di ciò che davvero volesse dire essere sé stessa.
È proprio questo lo scopo che si prefigge la prospettiva che vede in Martin
Seligman uno dei suoi fondatori, la psicologia positiva. Essa prende avvio da una
riflessione che lo stesso Seligman pronuncia in aperta critica nei confronti della
psicologia classica, la quale nasce come quella disciplina che si pone tre obiettivi:
curare la malattia mentale; migliorare la qualità della vita; individuare e coltivare i
talenti
3
. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, tuttavia, due di questi tre
obiettivi cominciano gradualmente ad essere trascurati dagli psicologi americani.
In occasione della fondazione dell’Ente Nazionale dei Veterani (1946) e del
National Institute of Mental Health (1947), infatti, l’unica preoccupazione dei
professionisti era curare la malattia mentale. La psicologia divenne una scienza in
1
M. E. P. Seligman, M. Csikszentmihalyi, “Positive Psychology: An Introduction”, in American
Psychologist, vol. 55, n.1, 2000, p. 6.
2
Cfr. Ibidem.
3
Cfr. Ibidem.
4
gran parte dedita alla guarigione, ed avvenne quello che Seligman definisce il
passaggio da psicologia a vittimologia
4
.
La disciplina psicologica tendeva, in quel particolare periodo storico, a
concentrarsi sulla “riparazione dei danni”, riferendosi in ogni momento a un modello
di funzionamento umano basato sulla malattia.
Il risultato fu una quasi totale attenzione alla patologia, a scapito dell’idea secondo cui
esiste e va perseguita la possibilità di creare una comunità fiorente e di rendere le
persone felici
5
.
E questo avvenne per un semplice motivo: i sopravvissuti a una sequela di avvenimenti
terribili quale il secondo conflitto mondiale avevano molti eventi negativi da
affrontare. Non solo: si ritrovavano, spesso, senza una casa, senza un lavoro, senza
quell’aiuto sociale che li rendeva sicuri di poter affrontare qualsiasi difficoltà gli si
fosse presentata davanti.
Tuttavia, dice Mihaly Csikszentmihalyi, tendevano a spiccare le figure di uomini e
donne che, nonostante avessero perso tutto o fossero semplicemente circondate dal
caos, erano riuscite a mantenere «la loro integrità e il loro scopo […]. La loro serenità
era un faro che ha permesso agli altri di non perdere la speranza. E questi non erano
gli uomini e donne che ci si sarebbe aspettati sarebbero emersi indenni. Non erano
necessariamente i più rispettati, i meglio istruiti […]. Questa esperienza mi ha fatto
pensare: su quali fonti di forza contavano queste persone?»
6
.
Si può dunque collegare a questa domanda la risposta che i due studiosi si diedero nel
dichiarare quale fosse la migliore strategia per prevenire il disagio, invece che esser
costretti a trattarlo. La risposta è che la psicologia deve necessariamente studiare – e
nutrire, approfondire – i punti di forza del carattere, le virtù, attuando uno spostamento
del focus: da individuo passivo a individuo attivo
7
, consapevole di essere in grado di
innalzare la qualità della propria vita in maniera consapevole.
4
Cfr. M. E. P. Seligman, “Positive Psychology, Positive Prevention, and Positive Therapy”, in C. R.
Snyder e S. J. Lopez (a cura di), Handbook of Positive Psychology, Oxford University Press, New York,
2001, pp. 3-4.
5
Cfr. Ibidem.
6
M. E. P. Seligman e M. Csikszentmihalyi, “Positive Psychology: An Introduction”, in American
Psychologist, vol. 55, n.1, 2000, p. 6.
7
Cfr. Ivi, p. 8.
5
A tale prospettiva si collegano direttamente i cosiddetti tratti personali positivi, i quali
contribuiscono in maniera significativa all’obiettivo di cui sopra. Essi sono: benessere
soggettivo, ottimismo, felicità e determinazione.
Il primo tratto, cioè il benessere soggettivo, viene definito come l’opinione che
le persone hanno di sé stessi e della loro vita; il termine benessere è utilizzato per dare
un nome “scientifico” a quella che gli uomini chiamano e riconoscono come felicità,
che non rappresenta ciò che accade alle persone, bensì il modo in cui queste ultime lo
interpretano
8
.
Il secondo tratto, l’ottimismo, è quello che riveste il ruolo di mediatore tra gli
eventi esterni e la loro interpretazione. Secondo Christopher Peterson, l’ottimismo
coinvolgerebbe allo stesso tempo componenti cognitive, emozionali e motivazionali,
rendendo le persone ottimiste in grado di migliorare non solo il loro stato d’animo, ma
anche la propria perseveranza, il successo e la salute
9
.
Il terzo, la felicità, viene associato da David Meyers all’interazione fra tre fattori:
fede religiosa, reddito e rapporti personali
10
.
L’ultimo tratto, l’autodeterminazione, largamente dibattuto nell’ambito della
psicologia positiva, si trova a sua volta ad investigare tre esigenze dell’essere umano:
competenza, appartenenza e autonomia. Secondo Ryan e Deci è necessario soddisfare
questi bisogni insiti in ogni uomo per arrivare a ottimizzare il benessere strettamente
personale ma anche lo stesso sviluppo delle abilità sociali
11
.
Quello appena citato non è l’unico spostamento di focus che i due accademici
avvertivano come estremamente necessario; il più importante, il più urgente era quello
della progressiva affermazione di una psicologia della felicità a scapito della
psicologia della sofferenza.
Come specificato, uno dei tratti personali positivi è il benessere, e di questo
concetto Seligman individua cinque pilastri, che ne rappresenterebbero le dimensioni
che permettono all’individuo di raggiungere il funzionamento ottimale, cioè la
8
Cfr. Ivi, p. 9.
9
Cfr. Ibidem.
10
Cfr. Ibidem.
11
Cfr. Ivi, p. 10.
6
condizione di un individuo che è in grado di sperimentare soddisfazione, affettività
positiva e slancio vitale.
Questi cinque pilastri andrebbero a formare il cosiddetto modello PERMA, che
rappresenta l’acronimo degli elementi che lo compongono: positive emotions,
engagement, relations, meaning e accomplishment, cioè emozioni positive,
coinvolgimento, relazioni, significato e raggiungimento degli obiettivi. Sarebbero
queste, secondo Seligman, le dimensioni attraverso le quali un individuo
raggiungerebbe in modo efficace il benessere soggettivo e, come detto, il
funzionamento ottimale
12
.
Le emozioni positive aiutano a provare un livello di soddisfazione personale
direttamente proporzionale alla loro quantità e qualità: esempi di tali emozioni sono la
gratitudine, la speranza, la curiosità o l’amore. Gli stati di soddisfazione, tuttavia, non
vanno confusi con il piacere, il quale deriva dal soddisfare i bisogni primari. Le
emozioni positive si sperimentano invece quando, in maniera consapevole, vengono
utilizzate e sfruttate le forze del carattere.
La dimensione del coinvolgimento rappresenta l’atto pratico dell’utilizzo dei
propri talenti e delle proprie caratteristiche positive
13
: esempi di manifestazioni di tale
tipo sono l’integrità e la saggezza, sentimenti che sperimentiamo ogni volta che
facciamo delle scelte in qualsivoglia campo della nostra vita; in quei momenti trapela
il nostro io, comunichiamo a noi stessi e alle persone che ci circondano il livello,
appunto, di coinvolgimento in ciò che facciamo e pensiamo.
Mettere in pratica questo stile di vita permette di raggiungere il flow, cioè
“quella sensazione di totale immersione in quanto si sta svolgendo o in ciò che si
ama”
14
. In questo stato, le azioni che svolgiamo per arrivare a un obiettivo si
susseguono secondo una logica interna, come se non fosse necessario un intervento
cosciente, ma mantenendo la coscienza e il controllo di tali azioni
15
.
12
Cfr. M. Imperioso e L. Pini, “Psicologia positiva, risolvere i problemi non basta”, in La finestra sulla
mente – Santagostino Psiche, https://psiche.santagostino.it/2018/04/09/psicologia-positiva-risolvere-
problemi-non-basta/. (11/04/2022)
13
Cfr. Ibidem.
14
Ibidem.
15
Cfr. M. Csikszentmihalyi, Flow and the Foundations of Positive Psychology: The Collected Works
of Mihaly Csikszentmihalyi, Springer, Dordrecht, 2014, pp. 136-137