2
1.1 Gli inizi
Sono nato a San Giorgio a Cremano, quattro chilometri da Napoli, il 19 febbraio del ’53.
Sono alto un metro e settantotto senza arrubbà. Settantotto chilogrammi di peso. Figlio di
Alfredo Troisi e di Elena Andinolfi. In sei figli, con mamma, papà e parenti a casa eravamo
diciassette persone. Ecco perché ho questo senso della comunità così spiccato. Ecco perché
quando ci sono meno di quindici persone mi colgono violenti attacchi di solitudine
1
.
In questo breve sunto autobiografico emergono già alcuni elementi della poetica di
Troisi e del suo linguaggio, quell’apparente serietà che da motivi dickensiani
scivola quasi inevitabilmente nel paradosso comico. In esso sono delineati i tratti
anagrafici di Massimo Troisi, l’ultimo grande dei comici napoletani, scomparso
prematuramente il 4 giugno 1994, il giorno dopo la fine delle riprese del suo ultimo
film, Il postino.
Lo storico Antonio Ghirelli si espresse così su di lui il giorno seguente la morte:
Ha interpretato con grande intelligenza, con istinto straordinario e con notevole finezza
culturale una importante fase di passaggio: dal vecchio “comico” napoletano, nutrito dalla
commedia dell’arte, ambientato in un’atmosfera serena ed ingenua, a un tipo di “comico
moderno” sempre napoletanissimo ma nevrotico, tormentato al di là dell’apparente ironia
dell’allegria. Grande come Buster Keaton
2
.
1
M. TROISI, Il mondo intero proprio, Milano, Mondadori, 1998.
2
A. GHIRELLI, in G. LIMATORA, Massimo Troisi. Una vita troppo breve, Napoli, Litorama,
2002, p. 117.
3
Così l’amico e la ‘spalla’ di sempre, Lello Arena:
Eravamo tre ragazzi allegri, io come maestro elementare, Massimo come geometra, Enzo
con la maturità classica in tasca. Sui palcoscenici della “Smorfia” ricordavamo a tutti che il
lavoro a Napoli non è mai solo, ma sempre accompagnato da un aggettivo: minorile, nero.
Massimo era l’angolo acuto del nostro triangolo, era ed è sempre stato il Pulcinella che
discendeva da un pulcino e non da un uccello rapace. Mi ricordo quando, magrissimo, con
la calzamaglia nera, entrava in scena. Nella nostra vita mi diceva non avremmo potuto fare
nient’altro che gli attori. Ci univa un’infanzia con le radici affondate nella stessa cultura. La
nostra complicità era diventata forte anche perché si era nutrita di tourneé in cui, come la
prima volta a Torino, al Centrale, in platea avevamo contato sedici persone. E, poi, qualche
tempo dopo, ci eravamo ritrovati con i teatri affollati. Non si può raccontare un’amicizia
come è stata la nostra: fatta di giornate chini a scrivere, a inventare, a scherzare. E di
passeggiate per Napoli, con Massimo che inventava quelli che chiamava i suoi “elogi del
paradosso”. Se dovessi scegliere una frase che mi lega a Massimo, ne direi una soltanto che
spesso ripeteva sorridendo alla fine del nostro lavoro: “Lello, vai a casa contento: qua, con
noi, nessuno è senza famiglia”
3
.
Massimo Troisi nasce a San Giorgio a Cremano, in provincia di Napoli, figlio di
Alfredo Troisi, ferroviere, e di Elena Andinolfi, casalinga. E’ il quinto figlio (nel
1959 nascerà l’ultimogenita, Patrizia) di una famiglia già numerosa, e vive, se non
proprio in povertà, quanto meno nell’indigenza.
San Giorgio a Cremano appartiene a quella fascia di cittadine popolatesi a dismisura
nell’hinterland napoletano per sopperire alla mancanza di edifici abitabili nella
metropoli. Questo fenomeno di dispersione demografica, diffuso negli anni ’60 in
3
L. ARENA, in Op. cit., p. 120.
4
Italia e accelerato del boom economico di quegli anni, portò alla costruzione
indiscriminata di migliaia di edifici, e, come altri Comuni dell’epoca, San Giorgio
fu sottoposto ad una urbanizzazione selvaggia, che innalzò il numero di abitanti da
poco meno di diciottomila agli attuali centomila.
L’Italia urbana si ampliava disordinatamente, senza controlli e senza piani regolatori, il suo
nuovo volto era rappresentato dai sobborghi di Roma, Napoli e Palermo, dalla periferia di
Milano, dai grossi centri turistici […] I governi degli anni’50 e ’60 lasciarono la massima
libertà all’iniziativa privata nel settore edilizio, così come in altro settore del “miracolo”[…]
Le case furono costruite, ed anche in fretta: 73 400 nel 1950, 273 500 nel 1957 e 450 000
nel 1964
4
.
E’ ormai storicamente accertato che dove il governo lasciò “la massima libertà
all’iniziativa privata nel settore edilizio” si trattò nascostamente di una libertà
retribuita, che faceva gioco sulla corruzione e sulla speculazione. Per lo storico
Antonio Ghirelli, l’entrata in scena di Achille Lauro come amministratore del
Comune di Napoli fu decisiva in questo senso. Lauro, detto “il comandante”,
governò dal 1951 al 1958, concedendo oltre 11 500 licenze edilizie.
[…] Distrutta l’economia del vicolo, la popolazione più povera viene ammassata nei
comprensori della cintura esterna, dove la delinquenza, la prostituzione e il contrabbando
sono la sola alternativa alla disoccupazione, e si compie una mutazione antropologica che
cancella gli ultimi tratti della gentile indole partenopea
5
.
4
P. GINSBORG, Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino, Einaudi, 1989, p. 334.
5
A.GHIRELLI, Storia di Napoli, Torino, Einaudi, 1992, p. 539.
5
Se è di certo esagerato parlare di «mutazione antropologica», certamente la
situazione della «cintura esterna», di cui San Giorgio faceva parte, non fu rosea. Il
fenomeno di degenerazione urbana che afflisse Napoli toccò in maniera spietata
anche la cittadina situata vicino al Vesuvio
6
.
Di fatto «la popolazione più povera viene ammassata», e le parole di Troisi
rispecchiano la realtà di molte altre famiglie dell’epoca, realtà in cui la penuria di
case –perché la relativa contro-azione è comunque senza controllo ed insufficiente
rispetto all’aumento di popolazione– crea quelle che Troisi chiama, in gergo
teatrale, ‘compagnie stabili’.
Tutto questo non per un’ indagine storica fine a se stessa: ogni artista nasce e vive in
un contesto ambientale e culturale fortemente segnato dai mutamenti storici e dalle
vicissitudini politiche che, più o meno indirettamente, influenzano il suo percorso
artistico; e questa affermazione è tanto più valida se possiamo intravvedere in questi
fattori un valido strumento per l’approccio critico iniziale.
Il senso di ribellione, la ricerca di spazi propri, la volontà di uscire fuori
dall’emarginazione sociale di una cittadina che «vive all’ombra di Napoli
7
», sono
infatti le premesse necessarie per comprendere il perché Troisi inizi a fare teatro.
E potremmo altresì affermare che il teatro di Troisi si propone, pur nella sua iniziale
ingenuità, come un teatro politico:
6
La cittadina risale all’epoca imperiale romana a cui deve il nome. Verso le falde del Vesuvio, a
nord, si trovava infatti il campo Crematum, chiamato così per la presenza di enormi estensioni di
ceneri di origine vulcanica, che resero il terreno particolarmente adatto all’agricoltura. Il nome
Crematum subì mutamenti linguistici, fino a diventare Cremanum, da cui deriva l’attuale Cremano.
7
M. TROISI, Il mondo intero proprio, cit., p. 62.
6
Ho cominciato nemmeno tanto per fare teatro, ma per aprire un centro a San Giorgio a
Cremano. La spinta era dovuta ad un impegno politico, ad un desiderio di partecipazione
nel sociale in questo paese che io e i miei amici vedevamo vivere all’ombra di Napoli. Per
qualunque cosa c’era bisogno di andare a Napoli, di andare nei paesi vicini. Abbiamo
cominciato più che altro per la voglia di creare uno spazio in cui ospitare gruppi. Infatti era
proprio il periodo in cui nascevano tutti questi centri teatrali piccolini che poi hanno chiuso.
Credevamo che anche un piccolo punto, anche un piccolo centro potesse servire a qualcuno.
Quindi abbiamo cominciato a invitare gruppi musicali, gruppi teatrali, a organizzare delle
manifestazioni per i ragazzi del paese, a ospitare riunioni politiche
8
.
Nell’ottobre del 1969 Massimo calca per la prima volta le assi di un palcoscenico.
Lo fa con una farsa di Petito, Pulcinella marito senza mugliera e zio senza nipute.
Per i ragazzi che si avvicinano al teatro, a Napoli, il percorso ideale è proprio partire
dalle farse di Petito, arricchendole con «lazzi» e improvvisazioni, per acquisire una
padronanza delle tecniche recitative legate al ritmo ed al gioco verbale e sonoro.
Nel febbraio del 1970 Troisi, assieme a Costantino Punzo, suo amico d’infanzia,
Peppe Borrelli e Raffaele Arena, mette in scena un’altra farsa di Petito, ‘E spirete
dint’ ’a casa ‘e Pulcinella. Petito, uno degli ultimi grandi Pulcinella napoletani,
affascina molto i ragazzi, ed in particolare Massimo, che nella maschera di
Pulcinella intravede una forza nuova, nascosta. Cerca così di epurare la maschera di
una certa aggressività, di un certo uso da «teatro alternativo d’avanguardia
9
» che
non aveva fatto altro che rendere la maschera ancora più «stanca
10
»:
8
Ibidem.
9
M. TROISI, Il mondo intero proprio, cit., p.63-64.
10
Ibidem.
7
Prima abbiamo recitato le cose tradizionali Eduardo, Petito, Viviani. Poi ho cominciato a
scrivere io. Già scrivevo poesie, ma solo per me, poi ho cominciato a buttar giù canovacci e
tra parentesi mettevo «lazzi», quando si poteva lasciar andare la fantasia. A me divertiva
proprio uscire coi «lazzi», improvvisare, per poi tornare al copione. Era il momento del
teatro alternativo d’avanguardia e tutti volevano usare Pulcinella. Rivalutarlo. C’era
Pulcinella-operaio, e cose del genere. A me questa figura pareva proprio stanca. Pensavo
che bisognava essere napoletano, ma senza maschera, mantenere la forza di Pulcinella:
l’imbarazzo, la timidezza, il non sapere mai da che porta entrare e le sue frasi candide
11
.
Mantenere la forza di Pulcinella, appunto. Questi elementi –«l’imbarazzo, la
timidezza, il non sapere mai da che porta entrare» – sono, come vedremo, elementi
caratteristici della comicità di Troisi, anche se essa talvolta travalica queste
caratteristiche, presentandosi con una ferocia mascherata, presente soprattutto nei
monologhi Dio e Napoli.
Non a caso abbiamo citato per intero questo stralcio di intervista, poiché in esso fa
riferimento diretto alla tradizione teatrale da cui proviene, ed in particolare alla
maschera di Pulcinella, che rielaborerà in chiave patetica
12
.
Alla fine del 1971, Troisi incomincia a scrivere quello che lui chiama ‘un testo
d’avanguardia’, almeno come la intende lui: questo nel senso che Troisi crea
un’avanguardia tutta sua, mescolando la comicità napoletana ad una riflessione su
certe tematiche sociali.
Come già affermato in precedenza, si avverte nel primo Troisi una concezione di
teatro che non si riduca al puro e semplice divertimento gastronomico, ma tratti
11
Ibidem.
12
Vedi Capitolo III, in particolare il paragrafo Troisi e Pulcinella.
8
anche argomenti tabù, quali la politica o la sessualità, che parlino a strati sociali
spesso poco coinvolti nella fruizione teatrale.
Il testo si intitola Crocefissioni d’oggi, e «parla delle maggioranze e delle
minoranze, dell’emigrazione dei contadini meridionali nelle fabbriche del Nord,
delle lotte operaie, di aborto, argomento che è ancora tabù
13
». Bisogna pensare che
siamo nel 1971, e le conquiste della cosiddetta ‘rivoluzione studentesca’ sono
ancora fatto recente, e non assimilate dalla cultura e dalla società, a maggior ragione
a Napoli, dove ancora in quegli anni la Democrazia Cristiana è ancora il partito di
maggior potere:
Il predominio esercitato nella Democrazia Cristiana dalla componente dorotea che
localmente fa capo ad Antonio Gava e controlla la maggior parte dei centri di potere, dagli
istituti di credito all’informazione passando attraverso i principali enti di gestione, ha finito
per comprimere ogni iniziativa riformatrice degli altri gruppi di maggioranza, non escluso
quello socialista
14
.
Troisi e i suoi compagni, per non essere frenati dalla censura parrocchiale,
consegnano al parroco un testo diverso dall’originale. Al momento della prima lo
spettacolo viene bloccato dal parroco, che accende le luci e costringe alla fuga gli
attori, tra i quali i sopracitati Peppe Borrelli, Costantino Punzo, assieme a Gennaro
Torre e Giulia Trombetta.
La compagnia cerca così una nuova sede per i propri spettacoli, e, trovato un
vecchio garage in via San Giorgio Vecchio 31, lo riadatta a ‘teatro’, che sarà nei
primi tempi chiamato Teatro Comunque. Renato Barbieri, che segue i ragazzi
13
M. HOCHKOFLER, Massimo Troisi. Comico per amore, Venezia, Marsilio, 1998.
14
A. GHIRELLI, Storia di Napoli, cit., p. 549.
9
essendo più vecchio di loro e attore già ‘consumato’, firma il contratto d’affitto, in
quanto Troisi e compagni sono ancora nella minore età.
I ragazzi si tassano con una sottoscrizione, e alla fine chiamano il luogo Centro
Teatro Spazio, proprio perché vuole essere luogo di dibattito (ancora qui la forte
componente politica) e perché è uno spazio per tutti. Si forma una compagnia
all’interno del Centro, che viene chiamata Gruppo Rh Negativo
15
.
Il Gruppo Rh negativo riporta in scena il testo di Massimo e Peppe Borrelli,
Crocefissioni d’oggi, questa volta senza intoppi. Viene anche recensito dall’allora
corrispondente da Napoli de “L’Unità”, Giuliano Baffi, che critica «il non
riconoscimento delle conquiste sociali operaie ottenute in questi anni
16
».
Il gruppo continua a portare in scena farse di Petito, a ospitare mostre d’arte
all’interno del Centro, e persino spettacoli di body art.
Troisi inizia a scrivere copioni sullo schema della farsa, tra cui Pulcinella suicida
per forza (in cui un Pulcinella deve fingere di suicidarsi per compiacere il padrone)
e il successivo Si chiama Stellina (dove il protagonista, invitato dalla ragazza a casa
sua, deve fingersi donna, perché presentato ai genitori di lei come “Stellina”) che
ottiene un modesto successo e viene replicato per più di un mese.
Notevole è inoltre l’attività del Centro Teatro Spazio riservata ai bambini, proprio
per evitare che vivano per strada e trovino un luogo in cui imparare e divertirsi. Non
solo, creano dei veri e propri laboratori teatrali con bambini ed adolescenti in cui
insegnano a scrivere canovacci, a metterli in scena, raccontando inoltre loro la storia
del teatro, ed in particolare quella della maschera di Pulcinella, patrimonio comune
di tutti i napoletani.
15
Il nome deriva dalle analisi del sangue di Peppe Borrelli, che risultarono per l’appunto Rh-.
16
G. BAFFI, Crocefissioni d’oggi, in “L’Unità”, 23 ottobre 1972.
10
1.2 La lotta «all’ultima battuta»
Dagli inizi duri e difficili, in cui il teatro è quasi vuoto e le casse anche, si passa a
riempire il teatro, ad avere un riconoscimento ufficiale del proprio lavoro, perché
ormai di lavoro, per il giovane Massimo, si tratta. Col passare del tempo non cresce
solo l’affluenza di pubblico, ma si crea un affiatamento sulla scena fra i membri
della compagnia, elemento fondamentale per spiegare i successi che poi
arriveranno.
Si è cominciato con dieci spettatori, poi sono diventati venti e alla fine, passando dalle farse
a qualcosa di più compiuto si è riempito il teatro. Lavoravo con Lello Arena e con altri due
amici che poi non hanno continuato questo tipo di lavoro, ma, anche loro molto creativi,
molto bravi, Peppe Borrelli e Costantino Punzo. E’ lì che è nato l’affiatamento con Lello
che poi è rimasto. E’ proprio il frutto di quegli anni, di tutte quelle invenzioni, di tutte
quelle tre pagine fatte diventare un copione. Perché alla fine era una lotta a chi diceva
l’ultima battuta, era una lotta a chi inventava di più, diventava una sfida alla fine anche
molto divertente e, comunque era, secondo me, un esercizio utilissimo
17
.
Troisi e Arena reciteranno assieme dal 1970 al 1982, anno dell’ultimo film in
coppia, No, grazie, il caffè mi rende nervoso. Dodici anni di sodalizio artistico sono
molti, soprattutto se si pensa che, a differenza di un’altra celebre coppia comica,
quali Totò e Peppino
17
M. TROISI, Il mondo intero proprio, p. 63.
11
(a cui spesso, tra l’altro sono stati paragonati
18
), essi hanno avuto modo di lavorare
assieme praticamente ogni giorno, condividendo non solo il comune interesse
artistico, ma anche le normali circostanze quotidiane, da cui spesso, poi, traevano
spunto per le improvvisazioni e per le trame delle farse.
La «lotta a chi inventava l’ultima battuta» è una lotta, appunto, un gioco, un
contrasto scherzoso che con gli anni si affina sempre più, fino a creare dei
meccanismi interni alla coppia, o alla compagnia, che rendono agli occhi del
pubblico ‘spontaneo’ quello che spontaneo lo è diventato a forza di studio,
sperimentazione, impegno, errori.
Un famoso aneddoto ci narra di una facoltosa signora spagnola che si presentò un
giorno da Picasso chiedendogli un ritratto. Picasso prese la tela e in cinque minuti il
ritratto era terminato. Picasso allora pretese il pagamento immediato del quadro,
chiedendo una cifra molto alta. La signora gli fece notare che ci aveva impiegato
solo cinque minuti. Allora Picasso, con calma, la fissò negli occhi con paterna
dolcezza e le disse: «No, signora. Ci ho impiegato trent’anni».
Lo stesso discorso, nel nostro caso, si può fare per Troisi.
18
Non a caso, la prefazione al libro Totò, Peppino, fratelli d’Italia, è stata affidata a Lello Arena, che
ad un certo punto commenta:«[parlando direttamente a Totò e Peppino, n.d.r.] Consapevoli l’uno
delle capacità dell’altro, rispettosi l’uno della creatività dell’altro, per niente disposti a cedervi la
scena, reagite ad ogni cambiamento con una velocità che è una sfida costante, quasi una
provocazione al talento dell’altro, un tentativo di metterlo alle strette, con le spalle al muro, e in
questa lotta generosa e senza quartiere quello che ci ha sempre guadagnato è stato il pubblico.[…]
Non succede sempre e dipende dalla grandezza degli attori. D’altra parte lo sa bene zio Totò, che
pure ha lavorato con artisti di qualità sopraffina come Nino Taranto e Aldo Fabrizi ma con i quali
non si stabiliva quella particolare condizione che con zio Peppino invece sembrava così naturale,
semplice, quasi scontata. Ne so qualcosa anch’io. E qui vi chiedo scusa se mi permetto di aprire una
parente. Concedetemi di nascondere, qui tra le righe, una dedica al mio amico di sempre e superbo
attore Massimo Troisi che, fra le tante cose belle che mi ha regalato nella vita e sulla scena, ci ha
messo anche quella di darmi la gioia di formare con lui una coppia comica che, non so come e non so
quando, spero si possa prima o poi ricomporre.», vedi Totò e Peppino, fratelli d’Italia, Torino
Einaudi, 2001, p. VI-VII.
12
La tecnica non si ‘inventa’ sul momento, e l’improvvisazione –che ha una forte
componente tecnica, di ‘mestiere’– nemmeno.
I meccanismi d’improvvisazione si affinano con gli anni, e non solo, con gli anni ci
si crea un ruolo all’interno della compagnia, contemporaneamente all’emergere
delle personalità e dei talenti. Ecco perché questo allenamento quotidiano va
sottolineato, per non cadere nel solito errore –soprattutto quando si tratta di attori
napoletani- di confondere il talento innato con lo studio e l’esercizio.
Negli studi di storia del teatro, sovente non si comprende o non si prende in
considerazione l’importanza del gruppo, l’ambito formativo, la compagnia vera e
propria, e si analizza la grandezza di un attore come una nascita spontanea e isolata,
derivata da un talento che non avrebbe potuto non trovare la strada del successo.
Tra i fattori fondamentali della carriera di Troisi, invece, c’è stata la fortuna di
lavorare per molti anni in un gruppo, una sorta di incubatrice, che ha curato la pietra
grezza, levigandola a poco a poco; un gruppo che gli ha dato la forza di continuare
anche quando le prime difficoltà hanno incominciato a farsi sentire.
Nelle biografie di Troisi questo elemento non è mai emerso, a parte nel testo della
Hochkofler, ma se vediamo l’arco temporale che esso ricopre, dall’esordio nel 1969
al debutto con I Saraceni nel 1976, in cui ormai sono rimasti in tre (Purcaro, Troisi
e Arena), i sette anni di “formazione” avvengono all’interno di un gruppo in cui
ognuno è coinvolto, in cui ognuno è partecipe di un progetto comune, anche
politico.
La forza dell’appartenenza, come dice una delle ultime canzoni di Gaber, «Non è lo
sforzo di un civile stare insieme. Non è il conforto di un normale voler bene.
13
L’appartenenza è avere gli altri dentro di sé
19
». Appartenere significa quindi “essere
parte di”, e in senso più ampio l’appartenere è fattore determinante
nell’affermazione cosciente di sé nel rapporto con la realtà, poiché «definisce i
contenuti della persona, decide del contenuto della personalità: sia i contenuti come
concezione del mondo, come concezione di sé e dei rapporti con tutto, o cultura
[…] sia come attuazione di questa concezione, secondo i termini implicati in questa
concezione, nel rapporto con le persone e con le cose, che si chiama moralità
20
».
L’appartenenza diviene quindi fondamentale fattore educativo e formativo,
influendo quindi sul processo di giudizio della realtà, fattore fondamentale nella
poetica di ogni attore, quel discorso che, implicito e esplicito, rivela il suo operare
nella storia e nel mondo.
1.3 L’approdo alla formula “cabaret”
E’ proprio da alcuni del gruppo che nasce l’interesse per il dilagante fenomeno del
cabaret, che in quegli anni incomincia a mietere i primi successi. Dal 1968, anno in
cui per la prima volta questa nuova forma di spettacolo è entrata negli scenari
televisivi con il programma Quelli della domenica, dove alcuni cabarettisti del
Derby club di Milano, fondato nel 1959 da Giovanni Bongiovanni, fanno la loro
prima apparizione (tra questi ricordiamo Paolo Villaggio, Teo Teocoli, Ric e Gian,
Cochi e Renato), l’ascesa è stata irresistibile, e il favore di pubblico sempre più
consistente.
19
cfr. G. GABER, L’appartenenza, contenuta nel Cd La mia generazione ha perso, Emi, 2000.
20
L. GIUSSANI, Vivendo nella carne, Milano, BUR, 1998, pp. 248-249.
14
Il gruppo del Centro Teatro Spazio, in particolare si interessa agli spettacoli del
Bagaglino
21
di Roma, che ha tra i suoi protagonisti Oreste Lionello e Pippo Franco:
tant’è che Renato Barbieri, la guida del gruppo, decide di acquistare il programma,
dove è scritto il copione con gli sketches. Da questi skethces riadattati e da altri
brani di loro invenzione, nasce lo spettacolo Chi ci ha il cab più bello del mio,
scritto da Troisi assieme a Lello Arena.
Quando abbiamo cominciato a scrivere degli spettacoli di cabaret, sentivamo questa parola,
questa cosa che andava molto di moda in quel periodo. Ci arrivavano gli echi del Bagaglino
anche se ho sempre preferito una forma di teatro più tradizionale, forse la farsa o quello che
è diventata dopo La Smorfia, con tanti pezzi, con i vestiti di scena per rappresentare i
personaggi, con tanti mini atti unici, ha funzionato. Non so neanche se era cabaret o non lo
era. Comunque ci siamo portati dietro questa etichetta perché allora era il treno che ti dava
la possibilità di arrivare in certi posti. Dopo, quando abbiamo pensato di poter fare questo
lavoro, a chi ci chiedeva che cosa facevamo, rispondevamo cabaret. Ma non è che ci
credevamo tanto in questo fatto del cabaret
22
.
Con questo spettacolo escono finalmente dal Centro Teatro Spazio per andare nella
loro prima tournée, approdando anche ad una festa dell’Unità di San Giorgio, dove
sono fischiati da un gruppo di femministe.
All’interno del Centro intanto, ci si incomincia ad interrogare su quale sia l’attività
su cui puntare principalmente. Comincia ad assottigliarsi il gruppo, tra chi trova
lavoro e chi si fidanza, il nocciolo duro rimane, tra cui Arena, lo stesso Troisi,
21
Il Bagaglino di Roma viene fondato nel 1965 su iniziativa di Pierfrancesco Pingitore e Mario
Castellacci, e ben presto diventa la ‘culla’ del cabaret romano. Tra i protagonisti che si sono
avvicendati nel celebre locale, vale la pena ricordare Enrico Montesano, Gabriella Ferri, Gianfranco
D’Angelo, Pino Caruso e Leo Gullotta.
22
M. HOCHKOFLER, Massimo Troisi. Comico per amore, cit., pp. 34-35.
15
Borrelli e Punzo. Al gruppo approdano anche volti nuovi, tra cui Elisabetta De
Virgiliis (che diventerà la moglie di Arena) ed Enzo Purcaro, che muterà il cognome
in De Caro. De Caro arriva da Portici, ed è un eclettico musicista che darà un grande
aiuto, grazie alla sua intraprendenza ed alle sue conoscenze in ambito teatrale,
all’affermarsi del gruppo.
Nel maggio del 1975 la compagnia rappresenta Napoli Milionaria di Eduardo De
Filippo. Negli anni del successo cinematografico De Filippo sarà citato da Troisi
come ‘maestro’, e vedremo più avanti che importanza avrà il grande Eduardo nella
formazione del suo linguaggio e della sua maschera.
Lo spettacolo successivo si intitola Napule…e basta! Discorso sugli avvenimenti
della Napoli di ieri e di oggi attraverso testi e canti ricercati da Enzo Purcaro.
Durante lo spettacolo, un brano di sceneggiata
23
intitolato Don Salvatore, si ha un
piccolo incidente. Mentre Peppe Borrelli entra in scena dove c’è già Troisi, gli cade
il cappello. Borrelli si china a riprenderlo. Allora Troisi improvvisa. «Ma come Don
Salvatò, voi tenete o’ guaglione ca’ e va calate pe’ ripiglià o’ cappiello!». «Hai
ragione». La scena si prolunga e l’errore viene di nuovo nascosto da un’altra
improvvisazione.
L’improvvisazione, tecnica cara ai comici dell’Arte, è elemento tipico del periodo
formativo di Troisi, come già abbiamo visto; tecnica che affina con anni di presenza
sulla scena, con le farse di Petito che utilizzano la maschera di Pulcinella, dove vi
sono «quelle tre pagine fatte diventare un copione».
23
La ‘sceneggiata’ è una forma di teatro tipicamente napoletana, storicamente nata nel 1919. E’ un
genere costruito su un eterogeneo e variegato tessuto di canzoni, canovacci, macchiette, le cui tappe
sono segnate da individualità interpretative d’eccezione (Basti pensare a Merola, Pino Mauro, Toni
Bruno, per arrivare alla rielaborazione in chiave avanguardistica di Leo De Berardinis con ‘O
zappatore).