14
1.2. Il rendimento nelle obbligazioni di mezzi e di risultato
La dicotomia tra obbligazioni di mezzi e di risultato è stata storicamente sviluppata
proprio per tentare di sciogliere i dubbi che riguardano l’oggetto del lavoro subordinato
e, soprattutto, per tentare di distinguere tale oggetto da quello dell’obbligazione di lavoro
autonomo.
Tale distinzione delle obbligazioni in due tipi di categorie è stata originariamente
sviluppata dalla dottrina francese
per poi essere in seguito sottoposta a svariate critiche,
tanto che oggi è da alcuni ritenuta in via di superamento alla luce della rilevanza di un
qualche risultato in qualsiasi tipo di obbligazione.
Le espressioni “obbligazioni di mezzi” e “obbligazioni di risultato” si possono ricondurre
storicamente all’elaborazione novecentesca del giurista francese René-Nicolas-André
Demogue e, in particolare, alla sua opera “Traité des obligations en général”, in cui
emerge la denominazione obligation de moyen et obligation de résultat; tuttavia,
tralasciando l’esatta terminologia, il concetto sembra appartenere a periodi più risalenti,
tanto che, attraverso gli studi svolti in merito da un celebre pandettista
25
, si può ritenere
che, almeno in termini generali, esso fosse presente nel pensiero giuridico occidentale sin
dal diritto romano
26
.
In Italia, invece, si è soliti attribuire la paternità dei primi ragionamenti sulla divisione a
Luigi Mengoni, al quale si devono lo studio più approfondito e la più completa critica
della dicotomia in esame. Lo studioso italiano riconosce la varietà fenomenologica delle
obbligazioni, ma esclude totalmente che ciò comprometta sul piano dogmatico, l’unità
del concetto di obbligazione mentre, sul piano normativo, l’unitarietà della fattispecie di
responsabilità contrattuale
27
.
Rimanendo in ambito italiano, il legislatore ha volutamente declinato la possibilità di
fornire una definizione di obbligazione di mezzi o di risultato; tale rinuncia si deve al
25
F. BERNHÖ FT, Kauf, Miethe und verwandte Verträge, nei Beiträge zur Erläuterung und Beurtheilung
des Entwurfs eines BGB für das deutsche Reich, diretti da E. I. Bekker e O. Fisher, XII, Berlino 1889, p.
17.
26
C. A. CANNATA, Obbligazioni nel diritto romano, medioevale e moderno, Digesto disc. priv., 1995,
nota 16.
L’A. sottolinea come i giuristi romani possedevano chiare le nozioni e impiegavano opportunamente la
distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, pur essendo stata quest’ultima, per la prima volta,
formalmente individuata dalla dottrina francese moderna.
27
L. MENGONI, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», in Riv. di Dir. Comm., 1954, p.
192.
15
fatto che, come spiegato dallo stesso: «L’argomento è schiettamente dogmatico; e la
legge, se l’avesse affrontato, avrebbe esorbitato dal campo normativo entro cui deve
strettamente mantenersi»
28
.
La dottrina, però, è sempre stata in forte dibattito sull’argomento e le riflessioni al
riguardo sono state molteplici. Nonostante i testi normativi non prendessero in
considerazione tale tipo di suddivisione, nel Codice Civile le obbligazioni, seppur in base
a parametri differenti, vengono comunque ben differenziate. Difatti, proprio tale
distinzione ha fornito le basi sulle quali sono proliferati i ragionamenti dottrinali
successivi.
È appurato, innanzitutto, che la prestazione cui il debitore è vincolato deve essere
suscettibile di valutazione economica e deve equivalere ad un interesse anche non
patrimoniale del creditore, come disposto dall’art. 1174 c.c.
Partendo dunque da questo assunto e soffermando l’attenzione sul tipo di prestazione
richiesta, le obbligazioni si distinguono in tre categorie, a seconda che la stessa
prestazione corrisponda a un dare, un facere o un non facere. L’obbligazione di dare
tratta il trasferimento del diritto su un bene o la consegna di un bene; l’obbligazione del
facere consiste nel compimento di un’attività materiale o giuridica, diversa da quella del
dare mentre l’obbligazione del non facere consiste nell’osservanza di una condotta
omissiva.
La ripartizione fra obbligazioni di mezzi e di risultato attiene esclusivamente alle
obbligazioni la cui prestazione è di facere
29
.
Secondo i fautori italiani della ripartizione di ideazione francese
30
, mentre il lavoro come
obbligazione di mezzi rappresenta un ambito all’interno del quale il lavoratore sia
vincolato non ad un risultato preciso ma ad un mero comportamento, che per l’appunto
rappresenta un semplice mezzo per raggiungere interessi ulteriori e diversi da quelli
dedotti, al contrario le obbligazioni di risultato sono quelle in cui al debitore viene
imposto di raggiungere mediante questo certo comportamento un risultato ulteriore, che
costituisce l’interesse del creditore.
28
M. GIORGIANNI, Obbligazione (diritto privato), in Noviss. Dig., XI, 1965.
29
C. M. BIANCA, L’obbligazione, Giuffrè, Milano, 1993.
30
Tunc, Distinzione delle obbligazioni di risultato e di diligenza, in Nuova Riv. Dir. Comm., 1947/48, pag.
126, il quale indica come autore della tesi, cui egli aderì, DEMOGUE, Traite ́ des obligations en general,
V, Parigi, 1925.
16
Tra le prime rientrano sin dall’inizio quelle aventi ad oggetto prestazioni riferibili
all’esercizio di professioni intellettuali, come, per definizione, la professione
dell’avvocato; mentre tra le seconde sono state inserite, ad esempio, quella
dell’appaltatore obbligatosi a costruire un edificio.
Nell’obbligazione di risultato il debitore si libera solo con il raggiungimento
dell’obiettivo stesso, ossia adempie se, all’esito dell’attività svolta, ottiene appunto il
risultato.
In base a ciò l’obbligazione di lavoro subordinato verrebbe fatta rientrare tra le
obbligazioni di mezzi mentre quella di lavoro autonomo tra quelle di risultato.
Il problema però risiede nel valore che a tale distinzione si deve attribuire, si rivela cioè
necessario indagare se esso abbia importanza con riferimento al solo modo d’essere della
prestazione, o se rischi di compromettere l’unità dello stesso concetto di obbligazione,
riflettendosi sulla responsabilità del debitore in caso di inadempimento
31
: quest’ultima
infatti, seguendo tale ragionamento, sarebbe di natura oggettiva nelle obbligazioni di
risultato, mentre costituirebbe una responsabilità di natura soggettiva nelle obbligazioni
di diligenza
32
.
Come conseguenza di ciò, nelle obbligazioni di mezzi la responsabilità viene determinata
dal concetto di colpa legato a quello di diligenza, mentre in quelle di risultato la colpa
acquista rilievo solo nel momento in cui risulti necessario accertare la sopravvenuta
impossibilità della prestazione.
Questo tipo di ragionamento è stato in realtà immediatamente criticato da molti studiosi,
secondo i quali non esistono obbligazioni che non abbiano come finalità la produzione di
un risultato, visto che a questo mira l’interesse del creditore tutelato dall’ordinamento.
Lo stesso Mengoni ha sempre evidenziato sin da subito le proprie perplessità in merito
33
,
criticando gli argomenti della letteratura francese, a partire dalla distinzione nella sua
astrattezza e rilevando, in estrema sintesi, che anche nelle obbligazioni che egli preferiva
definire “di comportamento” anziché di mezzi, il debitore debba comunque un risultato
34
.
31
G. MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Giuffrè, Milano, 1957, pag. 16
ss.
32
Altro modo di indicare le obbligazioni di mezzi, in quanto caratterizzate dal fatto di dovere utilizzare la
“diligenza del buon padre di famiglia”, come sancito dall’art. 1176 c.c.
33
L. MENGONI, Obbligazioni ‘‘di risultato’’ e obbligazioni ‘‘di mezzi’’, in Riv. Dir. Comm., 1954, I, pag.
305.
34
Lo notava anche G. COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del
debitore, Giuffrè, Milano, 1955.
17
Luigi Mengoni sottolinea infatti che: «un fatto valutato come mezzo in ordine a un fine
successivo, rappresenta già un risultato quando sia considerato in se stesso, come termine
finale di una serie teleologica più limitata»
35
.
Tuttavia, tale storica distinzione, sebbene non sia stata mai del tutto accolta dalla dottrina,
è sempre stata utilizzata dalla giurisprudenza come fondamento giuridico in base al quale
definire le controversie in tema di scarso rendimento. La storica adesione della
giurisprudenza a tale dicotomia ha portato come conseguenza cardine una diversa
distribuzione dell’onere della prova, a seconda che si trattasse di un tipo o dell’altro di
obbligazione: nelle obbligazioni di risultato infatti è sufficiente per il creditore dimostrare
il mancato raggiungimento del risultato atteso, gravando poi sul debitore l’onere di
provare che l’inadempimento derivi da una causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.),
mentre nelle obbligazioni di mezzi il creditore deve provare il comportamento negligente
del debitore.
Nella prospettiva soggettiva lo scarso rendimento può essere fatto valere come
inadempimento a fini sanzionatori o risarcitori. Se si sceglie la strada del provvedimento
disciplinare, non è indispensabile giungere obbligatoriamente alla fine del rapporto,
essendo sempre possibile l’irrogazione di una sanzione disciplinare conservativa, ex art.
2106 c.c., nei confronti del lavoratore resosi inadempiente. La sanzione sarà rivolta a
censurare la condotta del dipendente, intimandogli di migliorare il suo rendimento, senza
giungere all’extrema ratio della risoluzione del contratto.
Nel caso in cui il datore scelga la via del licenziamento, esso dovrà essere preceduto da
una specifica contestazione disciplinare, come previsto dall’art. 7 Stat. Lav. Questo tipo
di provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore subordinato poggia, dunque,
sulla differenziazione in analisi e la validità o invalidità delle sanzioni giustificate dallo
“scarso rendimento” emerge dal grado di correttezza e trasparenza della valutazione, che
viene effettuata secondo criteri di ragionevolezza. Alla luce delle sentenze in materia, lo
scarso rendimento per la giurisprudenza non va quindi a qualificare una categoria
autonoma e autosufficiente ai fini sanzionatori, ma costituisce solo un elemento di una
valutazione più complessa che il giudice deve compiere prima di decidere circa la
legittimità del provvedimento datoriale. Dato che per il diritto vivente l’unico
inadempimento sanzionabile sembra essere solo quello che consiste nella violazione del
35
L. MENGONI, Obbligazioni «di risultato» e obbligazioni «di mezzi», cit., p. 188.
18
dovere di diligenza previsto dall’art. 2104 c.c.
36
, alcuni autori giungono addirittura ad
affermare che l’espressione «licenziamento per scarso rendimento»
sarebbe impropria,
non avendo il rendimento una rilevanza giuridica a sé stante, mentre si dovrebbe più
correttamente e semplicemente parlare di licenziamento per inesatto adempimento.
La storica distinzione obbligazioni di mezzi e di risultato ha in realtà poco riscontro al
giorno d’oggi
37
, in quanto le nuove esigenze professionali e le nuove tecnologie in ambito
lavorativo ne hanno evidenziato tutti i limiti in termini di interpretazione e di applicabilità
dal punto di vista normativo
38
.
L’impresa “moderna”, infatti, non richiede più ai lavoratori una rigida adesione a processi
precostituiti ed eterodeterminati, pretendendo, al contrario, una più elevata autonomia e
la capacità di risolvere problemi operativi imprevisti o comunque non programmabili.
In tal senso, una maggiore autonomia spesso corrisponde ad una maggiore aspettativa nei
confronti dei lavoratori subordinati, i quali, nel rendere la prestazione in modo corretto,
devono attenersi alle disposizioni del titolare
39
.
Ed è proprio in relazione a questo tema che emerge il ragionamento riguardo la
corrispondenza tra il dovere di diligenza ed c.d. dovere di obbedienza
40
, ossia il rispetto
delle direttive datoriali quanto a: organizzazione orario di lavoro, corretta esecuzione
delle mansioni, luogo di lavoro ed eventuali trasferte.
La soggezione del lavoratore al dovere di obbedienza è caratteristica della
subordinazione, in quanto il lavoratore autonomo non è vincolato alle direttive datoriali
ed allo stesso viene richiesta solo la realizzazione del risultato.
Tuttavia, anche il dovere di obbedienza presenta delle limitazioni, poiché deve essere
esercitato nel rispetto delle norme di legge e di contrattazione collettiva e rimanere
36
V. infra, cap. 1 par. 3.
37
Sul punto M. MARAZZA, secondo il quale la difficoltà nel costruire un licenziamento sia dovuta, da un
lato, alla visione del lavoro subordinato come un’organizzazione di mezzi e non di risultato, dall’altro nel
fatto che il lavoratore subordinato sia visto come “soggetto socialmente debole e sprovvisto di mezzi di
produzione” e che pertanto “debba essere sostanzialmente deresponsabilizzato dai risultati del suo lavoro”,
ascrivendo ogni onere a colui il quale organizza i mezzi di produzione, ossia l’imprenditore.
38
L. RUGGIERO, Scarso rendimento ed inidoneità attitudinale sopravvenuta per modernizzazione
tecnologica dell'impresa, in Riv. it. dir. lav., 1983, pag. 74.
39
«Il contenuto primario della prestazione di lavoro subordinato consiste nell’osservanza delle direttive
impartite», così M. MARAZZA, Lavoro e rendimento, in Arg. dir. lav., 2004, p. 556.
40
E. GHERA, Diritto del lavoro, Cacucci, Bari, 2000, pag. 154.
19
comunque attinente e funzionale alle necessità tecniche, organizzative e produttive
dell’impresa
41
.
Il lavoro, dunque, mira ormai a svolgersi in base ad obiettivi e risultati piuttosto che
seguire pedissequamente dei procedimenti prestabiliti in modo rigido
42
.
All’interno di tali procedure la definizione specifica dell’attività riduce l’autonomia del
prestatore di opere, spesso fino ad eliminarla del tutto.
L’ iniziale summa divisio tra obbligazioni di mezzi e di risultato sembra essere dunque
oggi anacronistica e le stesse Sezioni unite della Corte di cassazione, specialmente con
riferimento alla responsabilità di professionisti quali il medico e l’avvocato, sembrano
avere superato del tutto l’interpretazione della giurisprudenza francesizzante del primo
Novecento.
È infatti palese che la tanto discussa ripartizione abbia consentito alla giurisprudenza di
stabilire un regime di prova dell’inadempimento senz’altro più favorevole al
professionista-debitore. Questo regime è durato sino ai primi anni del nuovo millennio,
sino a quando la Suprema Corte, appropriandosi delle critiche dello stesso Mengoni, ha
decretato il superamento della distinzione sul piano del diritto sostanziale affermando
che: «il tema non è immune da profili problematici», posto che «un risultato è dovuto in
tutte le obbligazioni», richiedendosi in ogni caso «la compresenza sia del comportamento
del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile»
43
.
La decisione trova riscontro probabilmente sull’onda di altri pronunciamenti, che nel
settore-pilota della responsabilità medica
44
ne avevano già deliberato il tramonto, proprio
quale criterio regolatore dell’onere di prova nei giudizi di responsabilità.
41
G. FALASCA, Manuale del diritto del lavoro, Il sole 24 ore Pirola, 2016, pag.169 e 170 secondo il quale
«devono ritenersi illegittimi, e come tali possono essere disattesi senza che tale comportamento costituisca
una violazione del dovere di obbedienza, gli ordini del datore di lavoro che siano del tutto privi di
fondamento logico o non abbiano alcun collegamento funzionale con l’organizzazione produttiva
dell’impresa».
42
V. BAVARO, Un itinerario sui tempi del lavoro, in Riv. Giur. Lav., 2009, I, p. 213 ss. In questo studio
si denota come sembra ormai delineato l’offuscamento della connotazione quantitativa della prestazione di
lavoro, dato che la scansione lineare e costante dell’orario di lavoro non costituisce più il solo ed esclusivo
parametro di misurazione né dell’utilità organizzativa né del valore economico della prestazione e quindi
del corrispettivo.
43
Cass. sez. un., 28 luglio 2005, n. 15781.
44
A. NICOLUSSI, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni
di mezzi. La responsabilità del medico, in Danno e respons., 2008, p. 871. Almeno con riferimento
all’obbligazione assunta nell’ambito della professione medica, si sta assistendo negli ultimi tempi ad una
accentuazione della rilevanza del risultato, che si traduce in un irrigidimento dei criteri di responsabilità.
20
In conclusione, rispetto ai profili di responsabilità del professionista, riprendendo le
parole usate in un’altra celebre sentenza sulla materia: la distinzione «se può avere una
funzione descrittiva, è dogmaticamente superata»
45
.
Alla luce di tali sentenze, la Corte afferma che il contenuto dell’obbligo del professionista
si trae in ogni caso dalle «comuni regole di correttezza e di diligenza», con la conseguenza
che «al rapporto scaturente dal contratto di prestazione d’opera intellettuale debbono
essere applicate, in linea generale e di tendenza le norme che determinano le conseguenze
dell’inadempimento (art. 1218 c.c.)». In altri, e più espliciti termini, «il regime di
responsabilità del professionista è sempre il medesimo», posto che la distinzione tra
obbligazioni di mezzi e di risultato «non ha alcuna incidenza» su di esso.
In conclusione, anche in tema di scarso rendimento la distinzione tra obbligazione di
mezzi e di risultato non pare avere più ragion d’essere ed il parametro fondamentale cui
fare riferimento specialmente in tema di responsabilità del lavoratore rimane il dovere di
diligenza cui lo stesso è sottoposto in ragione dell’art. 2104 c.c.
1.3. Il dovere di diligenza del lavoratore e l’onere della prova
Ai sensi dell’art. 2104 c.c.: «Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla
natura della prestazione dovuta e dall’interesse dell’impresa».
La diligenza del lavoratore è dunque considerata nel Codice civile come un criterio
determinativo del contenuto del vincolo.
Il risultato è comunque aleatorio ed imprevedibile in quanto dipende non solo dalla
condotta del lavoratore ma anche da altre cause esterne.
Nonostante ciò, è opportuno, secondo alcune autorevoli opinioni, tenere ben distinto il
rendimento dalla diligenza, in quanto, seppur collegati, rappresenterebbero due concetti
diversi
46
.
45
Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Resp. civ. prev., 2008, con nota di M. GORGONI, Dalla
matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al superamento della distinzione tra
obbligazioni di mezzo/di risultato, sulle orme di Cass., sez. un., 2005, n. 15781 (in Europa dir. priv. Il
commiato della giurisprudenza dalla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, 781
s.).
46
G. GHEZZI, U. ROMAGNOLI, Il rapporto di lavoro, Bologna, 1992, p. 170, secondo i quali la diligenza
va tenuta distinta rispetto al rendimento: una prestazione può essere inesatta anche in caso di elevato
rendimento.
21
Il rendimento del lavoratore rimane comunque misurabile sulla base della regola di
diligenza, in relazione “all’interesse dell’impresa correttamente inteso”
47
.
Lo scarso rendimento costituisce di per sé inadempimento, mentre l’elemento soggettivo
sarebbe necessario in sede di valutazione della gravità dell’inadempimento, arrivando in
ogni caso alla conclusione che il rendimento quantitativamente o qualitativamente
inferiore al dovuto è fonte di responsabilità solo se imputabile a colpevole negligenza.
Alla luce delle sentenze in materia, lo scarso rendimento per la giurisprudenza non va
quindi a qualificare una categoria autonoma e autosufficiente ai fini sanzionatori, ma
rappresenta solo un elemento di una valutazione più complessa che il giudice deve
compiere prima di decidere circa la legittimità del provvedimento datoriale.
Dato che per il diritto vivente l’unico inadempimento sanzionabile sembra essere solo
quello che consiste nella violazione del dovere di diligenza previsto dall’art. 2104 c.c.,
alcuni autori giungono addirittura ad affermare che l’espressione “licenziamento per
scarso rendimento” sarebbe impropria, non avendo il rendimento una rilevanza giuridica
a sé stante, mentre si dovrebbe più correttamente parlare di licenziamento per inesatto
adempimento.
La domanda che ci si pone riguarda la possibilità di verificare se, tenendo conto del
dovere di diligenza, possa essere imputato al lavoratore il raggiungimento di uno
specifico livello di rendimento, cioè una determinata soglia di produzione in relazione al
tempo di lavoro.
Invero, secondo una importante lettura dottrinale, il corretto esercizio della prestazione
presuppone il raggiungimento di un quantum minimo della stessa ed in ogni obbligazione
vi deve essere, anche se in proporzione variabile, la coesistenza di comportamento e
risultato
48
.
L’idea di diligenza riguarda quindi anche la determinazione quantitativa della
prestazione, oltre a quella qualitativa, dato che non concerne solo la precisa attuazione di
norme tecniche, ma anche il quantum di applicazione e di attività
49
.
47
A. VISCOMI, Diligenza e prestazione di lavoro, Torino, 1997, Pag. 200 ss.
48
M. PERSIANI, Contratto di lavoro e organizzazione, Cedam, Roma, pag.132. In tale senso anche G.
COTTINO, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione, Giuffrè, Milano, 1955, pag. 70.
49
G. GIUGNI, Mansioni e qualifica, Jovene, Napoli, 1963, p. 126. Secondo il G. qualità e quantità sono
entrambe ricomprese all’interno della diligenza intrinseca alla natura della prestazione.