Introduzione
Nell’esperienza giuslavoristica italiana, ci si rivolge al concetto di
licenziamento individuale in contrapposizione al licenziamento colletti-
vo, con riferimento alla distinzione così formalmente posta nella norma-
tiva, che è stata, storicamente, la risultante dell’esperienza compiuta, pri-
ma del 1966, sul piano della contrattazione interconfederale nel settore
dell’industria. Il rapporto di lavoro, infatti, alla stessa stregua di qualsiasi
altro rapporto obbligatorio, ha una sua cessazione: questa può essere
“naturale”, connessa cioè al contenuto stesso del rapporto, come nel caso
del contratto a tempo determinato, ovvero dipendere da altre cause. L’o-
pinione tradizionale suole distinguere per l’appunto tra cause di estinzio-
ne del rapporto e cause di risoluzione del contratto.
Le prime si verificano quando la causa del contratto si sia di fatto
realizzata (compimento del lavoro dedotto in obbligazione, scadenza del
termine finale). Le seconde portano invece all’esclusione del rapporto,
essendo connesse alla mancata realizzazione della causa (esempio tipico
l’avveramento della condizone ovvero il caso di impossibilità sopravve-
nuta o eccessiva onerosità della prestazione).
4
Focalizzando l’attenzione sulle cause di cessazione per volontà del-
le parti, si rileva come il recesso unilaterale, che prende il nome di licen-
ziamento se proveniente dal datore di lavoro, e di dimissioni se deriva da
una decisione del prestatore di lavoro, costituisce senza ombra di dubbio
la causa di cessazione del rapporto socialmente più significativa: quella
sulla quale si è altresì sviluppata un’articolata, complessa (e spesso lacu-
nosa) disciplina legislativa a protezione del lavoratore e del suo interesse
alla stabilità del rapporto.
La cessazione del rapporto di lavoro, costituisce un momento estre-
mamente delicato per il lavoratore subordinato, ove si consideri che que-
sti trae dallo stesso la fonte per il sostentamento proprio e della propria
famiglia. Cosa che invece, generalmente non accade, o non accade negli
stessi termini, per il datore di lavoro. Costui, infatti, vive la vicenda
estintiva del singolo rapporto in maniera del tutto diversa, in quanto la
stessa non determina (eccezion fatta per quei particolari, quanto poco
frequenti, casi di elevata professionalità del lavoratore, che il datore stes-
so abbia interesse a conservare per sé) particolari conseguenze negative,
risolvendosi al più, nella mera sostituzione del rapporto venuto meno
con un altro, evidentemente maggiormente idoneo alle esigenze tecnico-
operative del datore stesso.
5
La disciplina normativa si ritrova, pertanto, a dover mediare tra l’ov-
vio interesse del lavoratore alla conservazione del posto, quello datoriale
alla salvaguardia dell’efficienza e della produzione aziendale e, non meno
importante, quello sindacale volto al monitoraggio della vicenda, a tutela
della rappresentanza del singolo lavoratore e degli interessi collettivi.
Controllo sindacale che risulta particolarmente rilevante allorquan-
do ci si interroghi su quale sia effettivamente l’interesse imprenditoriale
ritenuto meritevole di tutela, ai fini della legittimità del licenziamento.
Se cioè sia sufficiente, per giustificare la risoluzione del rapporto per vo-
lere datoriale, una qualsivoglia perdita economica o di efficienza azien-
dale, o se al contrario occorra una perdita particolarmente “qualificata”
(P. ICHINO, 2007), ovviamente tenendo conto del sacrificio imposto al
lavoratore, o ancora se sia necessaria la definitiva soppressione del posto
o sia invece preferibile la mera sostituzione del lavoratore con un altro
meno costoso e/o più efficiente.
La disciplina generale in materia, è contenuta nella l. 15 luglio
1966, n. 604, limitativa dei licenziamenti individuali, la quale sancisce il
superamento della regola della libera recedibilità ad nutum di entrambe
le parti del rapporto di lavoro, di cui all’art. 2118 c.c., anche se nei limiti
di applicabilità della legge stessa.
6
Ed è proprio prendendo spunto dall’art. 3, secondo periodo, l.
604/66, introduttivo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo,
concernente cioè ragioni tecnico-produttive liberamente valutabili dal-
l’imprenditore, che negli ultimi anni si è fatta avanti con foga una nuova
nozione, già conosciuta da altri ordinamenti europei, che è quella di li-
cenziamento per ragioni economiche (P. ICHINO, 2004). Questa va ad
abbracciare tutte le ipotesi di risoluzione di uno o più rapporti di lavoro
ad iniziativa del datore di lavoro, aventi cause per l’appunto consistenti
in esigenze tecnico-organizzative o produttive.
Per comprendere a pieno il significato dell’intervento del legislatore
degli anni ’60, è indispensabile tuttavia un cenno in prospettiva storica
dell’evoluzione della disciplina in questione, assumendo come suo “atto
di nascita” l’elaborazione del concetto di subordinazione, e la definizio-
ne di contratto di lavoro subordinato ad opera di L. Barassi.
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CAPITOLO I
Dal recesso ad nutum al licenziamento
per giustificato motivo oggettivo
1. Il recesso dal rapporto di lavoro nel sistema del codice
Il Barassi, delineava il nuovo contratto di lavoro sui due binari del-
l’elemento fiduciario e dell’elemento di durata, affermando che “i giusti
motivi non sono necessari a fondare il recesso (…) ma lo sono soltanto
perché possa essere escluso il preavviso”
1
.
Nella sua opera emergono, dunque, le linee fondamentali che carat-
terizzeranno il nuovo codice civile del 1942 e, prima ancora, la legge sul
contratto d’impiego privato, r. d. l. 13 novembre 1924, n. 1825.
Il codice civile del ’42 accolse quindi, con l’art. 2118, generalizzan-
dola, l’impostazione di matrice liberale della piena ed insindacabile fa-
coltà delle parti di recedere ad nutum dal contratto di lavoro. Il suddetto
articolo si configurava altresì come vero e proprio punto di sintesi tra po-
1
L. BARASSI, Il contratto di lavoro, II, Milano, 1917, p. 794.
8
sizioni dottrinali che, una volta aperta la strada dall’analisi barassiana
verso il recesso unilaterale, dibatterono della natura di tale recesso. Au-
torevole dottrina a tal proposito, colloca al di fuori della disciplina con-
trattuale l’istituto del recesso, considerando lo stesso come autonoma
causa estintiva del rapporto
2
. Secondo altri invece, il recesso viene inteso
come forma effettiva della voluntas dei contraenti, in modo tale che “essi
possano attribuire una disciplina che sia completa al proprio rapporto
contrattuale”
3
.
Il successivo art. 2119, rubricato “Recesso per giusta causa”, rifa-
cendosi al concetto già espresso in altri paesi europei, contiene una causa
giustificativa onnicomprensiva, in modo da abbracciare ipotesi sia atti di
inadempimento di natura prettamente contrattuale, sia atti e fatti leciti
estranei al regolamento del contratto. Il regime dell’articolo in questione,
recependo le suesposte tesi del Barassi, è tale da garantire ulteriormente,
nell’ambito del contratto sine die, non soltanto il fondamento fiduciario
del rapporto in se, bensì anche l’interesse alla temporaneità del vincolo,
sostanziato nella decisione della parte che intenda recedere dal contratto.
Interesse, com’è evidente, a liberarsi subito dell’altro contraente, perché
2
Cfr. ex plurimis: G.F. MANCINI, Il recesso unilaterale ed i rapporti di lavoro, I – individuazione
della fattispecie. Il recesso ordinario, Milano, 1962, pp. 241 ss.
3
E. GABRIELLI, Vincolo contrattuale e recesso unilaterale, Milano, 1985, p. 181.
9
la sua “permanenza” nel rapporto, tenuto conto della gravità del fatto o
atto che gli viene addebitato dal denunciante, può realmente o anche pre-
suntivamente comportare una minaccia, se non un immediato pericolo
degli interessi in questione
4
. Ed è da ciò che si riesce quindi ad apprezza-
re a pieno l’autentica ratio, frutto dell’ideologia liberale, basata, è bene
ribadirlo, non solo e non tanto sulla fiduciarietà del contrato, ma anche e
soprattutto, sull’interesse alla temporaneità del vincolo.
In ultima battuta, può affermarsi che il sistema in complesso risul-
tante dal combinato disposto degli artt. 2118 e 2119 c.c. traduce, sul pia-
no normativo, la concezione emergente dall’opera della dottrina, muo-
vendosi sulla stessa linea d’onda introdotta in primis dal Barassi. L’inte-
resse protetto dall’ordinamento è dunque quello alla risoluzione in ogni
momento del rapporto; non importa accertare o chiedersi nuovamente se
la tutela che è stata accordata a questo interesse faccia o meno perno sul-
la fiducia o sull’esigenza circa la temporaneità del vincolo, o su entram-
be. L’interesse è, difatti, protetto in sé nel momento in cui l’art. 2118 ri-
conosce il potere di recesso ad nutum in qualsiasi momento
5
.
4
G. ZANGARI, Contributo alla teoria del licenziamento nel diritto italiano e comparato, Milano,
1974, p. 55.
5
G. ZANGARI, op. cit., p. 53.
10
Di converso, l’interesse della parte che subisce il recesso non è tra-
scurato, ma protetto in via subordinata attraverso la cautela del preavviso
(o dell’indennità sostitutiva).
2. La Costituzione e gli accordi interconfederali del 1950 e 1965
Sopravvenuta la Costituzione repubblicana del 1948, a largo impe-
gno sociale, prese avvio in dottrina un ampio movimento, volto al prati-
co superamento del principio di licenziabilità ad nutum posto dal codice.
L’instaurazione della nuova forma di Stato, infatti, con il conseguente
sovvertimento dei valori politici e giuridici che ne seguirono, andò a in-
fluire in maniera consistente il sistema giuslavoristico, storicamente uno
dei principali recettori dei mutamenti socio-economici di un Paese.
L’importanza attribuita dai padri costituenti della nuova Repubblica
alla materia del lavoro, si denota sin dal primo comma del primo articolo
della carta costituzionale che, com’è noto, recita “L’Italia è una Repub-
blica democratica fondata sul lavoro”, e la garanzia del diritto al lavoro
viene sancita dal successivo articolo 4. Questo forte impegno sociale di
cui la carta costituzionale si faceva promotrice, portò dunque all’elabo-
11
razione di principi che consentirono di superare la regola del licenzia-
mento ad nutum così come previsto dal Codice Civile.
Ad onor del vero, il movimento riformistico non fu solo di pretta
ispirazione costituzionalistica, in quanto venne prospettata un’altra im-
postazione ricostruttiva, (in termini del tutto diversi rispetto a quelli soli-
tamente correnti) che si basava sul fatto di andare oltre la concezione “li-
bero-scambista” del rapporto, configurandolo in termini associativi, ed
identificando lo stesso come un interesse comune ad ambedue le parti.
Un’altra autorevole tesi fu quella sostenuta da autori quali il Mortati
e il Natoli
6
, che si definì per l’appunto costituzionalistica in quanto si
fondava sui principi introdotti dagli artt. 41, co. 2 e 4 del testo costituzio-
nale. In relazione al primo, secondo il quale l’iniziativa economica, “non
può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare
danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”
7
, si argomentava
che il licenziamento, non assistito di per sé da giustificato motivo, fosse
per ciò stesso contrastante con l’utile sociale. Veniva affermato altresì
che dal principio costituzionale del diritto al lavoro enumerato dall’arti-
6
U. NATOLI, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, Milano, 1955, p.
63; C. MORTATI, Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato, XVII, Mila-
no, 1972, p. 28.
7
Art. 41 co. 2 Cost.
12
colo 4, derivava la tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione
del posto acquisito.
Da ciò la conclusione che il licenziamento non giustificato poteva
valutarsi in termini di eccesso di potere o abuso di diritto. Tuttavia, e
questo è il rovescio della medaglia, potendosi addossare al lavoratore
l’onere della prova della mancanza di giustificazione.
Dal canto suo lo Stato, in base all’art. 4 della Costituzione, si impe-
gnava formalmente a creare quelle condizioni economiche e sociali che
avrebbero dovuto favorire la piena occupazione. Tuttavia, lo sviluppo
delle stesse, come ha avuto modo di chiarire la Consulta
8
(chiamata ad
esprimersi sulla legittimità costituzionale dell’art. 2118 c.c.), non si po-
neva in antitesi con la regola della libera recedibilità sancita dal Codice.
Da questa pronuncia del giudice delle leggi, è agevole desumere come la
Costituzione non imponga, in se, un determinato regime limitativo dei li-
8
Cfr. Corte Cost. 26 Maggio 1965, n. 45 in Foro It., 1965, I, c. 1118: “ (...) dal complessivo contesto
del 1° comma dell’art. 4 Cost. (...) si ricava che il diritto del lavoro, riconosciuto ad ogni cittadino, è
da considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta
e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa. A questa situazione giuridica del cittadino (…) fa ri-
scontro, per quanto riguarda lo Stato, da una parte il divieto di creare o di lasciar sussistere nell’ordi-
namento norme che pongono o consentono di porre limiti discriminatori a tale libertà, dall’altra l’ob-
bligo di indirizzare l’attività di tutti i pubblici poteri e dello stesso legislatore alla creazione di condi-
zioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l’impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro. Da
siffatta interpretazione deriva che l’art. 4 cost., come non garantisce a ciascun cittadino il diritto al
conseguimento di una occupazione,(...) così non garantisce il diritto alla conservazione del lavoro, che
nel primo dovrebbe trovare il suo logico e necessario presupposto”.
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cenziamenti, tutto essendo demandato alle libere scelte politiche del legi-
slatore.
Posta l’intrinseca evanescenza del concetto di “utilità sociale”, le
contrapposte tesi (in alcuni casi vere e proprie ideologie), si risolvono, a
conti fatti, in diverse concezioni dell’utile sociale, le quali possono esse-
re considerate tutte opinabili, e tutte proponibili; quella di “giustizia so-
ciale” che ritiene inderogabile la regola della giustificazione e quella li-
berale, secondo la quale solo un regime di libera recedibilità contribuisce
alle fortune dell’impresa e, quindi, all’interesse generale.
La crisi del sistema che informava il Codice Civile del 1942, attra-
verso la formula dell’art. 2118, fu formalizzata nell’immediato Dopo-
guerra, di fronte alle nuove esigenze nascenti dalle pratiche economiche
e industriali dell’epoca. Esigenze che trovarono accoglimento in una fitta
serie di interventi legislativi o, per utilizzare un’espressione cara ai paesi
di common law, in un corpo di “industrial practices”
9
, che consistette in
una serie di Accordi Interconfederali, a partire da quello del 1947 sulle
procedure in tema di licenziamenti, e culminato nei due Accordi del
1950, rispettivamente in materia di licenziamenti individuali e collettivi
9
G. ZANGARI, Contributo alla teoria del licenziamento nel diritto italiano e comparato, cit., p. 28.
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per riduzione di personale, successivamente sostituiti da due accordi del
29 aprile e 5 maggio 1965
10
.
Come detto, su sollecitazioni provenienti dal mondo del lavoro, in
tali accordi, apparve per la prima volta l’enunciazione del principio del
“giustificato motivo”, che sarebbe dovuto assurgere a limite del potere di
parte datoriale di utilizzare in modo indiscriminato ed arbitrario la pro-
pria posizione di effettiva superiorità giuridica e politica nell’ambito del
rapporto di lavoro, evitando così la comminazione di licenziamenti non
fondati su motivi attinenti unicamente al comportamento del lavoratore,
ovvero ad autentiche esigenze aziendali.
Secondo l’Accordo, il lavoratore poteva impugnare innanzi ad un
collegio di conciliazione il quale, ove riconoscesse l’effettiva carenza del
giustificato motivo, poneva il datore di lavoro dinanzi alla scelta se rein-
tegrare ovvero risarcire il lavoratore licenziato mediante il pagamento di
una penale risarcitoria da determinarsi tra un minimo di cinque e un mas-
simo di dodici mensilità di retribuzione
11
.
10
Cfr. R. SCOGNAMIGLIO, Codice di diritto del lavoro, I, Bologna, 1972, pp. 161-165.
11
Nello specifico, in forza di tali accordi, il potere di recesso del datore di lavoro era sottoposto, oltre
che a vincoli formali e di comunicazione scritta, al limite sostanziale del giustificato motivo o della
giusta causa; in caso di licenziamento ingiustificato, il datore di lavoro era obbligato alla riassunzione
o, in mancanza, al pagamento di una penale a titolo di risarcimento del danno (c.d. tutela
obbligatoria). La disciplina collettiva aveva però un’efficacia alquanto ridotta: gli Accordi Interconfe-
derali, oltre ad essere vincolanti soltanto per i soggetti iscritti alle associazioni sindacali stipulanti,
erano applicabili solo ai datori di lavoro con più di trentacinque dipendenti, e demandavano l’accerta-
mento della giustificazione del licenziamento alla valutazione equitativa di un apposito collegio di
conciliazione ed arbitrato.
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