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generazione hanno completamente perduto tale abitudine articolatoria, scarsamente
rilevata anche nella popolazione tra i cinquanta ed i settant’anni.
3) INTRODUZIONE AL 3° CAP.
La documentazione della varietà linguistica parlata in loco nasce dalle testimonianze
degli informatori, appositamente prescelti secondo specifici criteri, che illustrano le
tecniche artigianalmente adoperate nella confezione e conservazione degli alimenti.
A paradigma del lavoro svolto si può richiamare l’attenzione sul terzo capitolo della
sezione descrittiva della tesi, dedicato alla ricostruzione degli aspetti tecnici e socio-
culturali della lavorazione del latte e dei suoi derivati.
Prendendo atto del fatto che la componente agro-pastorale è stata il cardine
dell’economia paesana fino agli anni Settanta, si può facilmente comprendere quale
fosse il valore nutrizionale della caseificazione; Angioni in “Pane e formaggio”
sostiene infatti che “Fino a qualche anno fa pane e formaggio e un bicchiere di vino
erano proverbialmente il pasto ideale di un giorno feriale in campagna per il contadino e
per il pastore”.
4) CASEIFICAZIONE ARTIGIANALE e NOMENCLATURA.
La vitalità della caseificazione artigianale è attualmente limitata alla società pastorale,
che perpetrando le antiche tradizioni conserva la conoscenza della nomenclatura
impiegata per indicare gli utensili necessari alla lavorazione del latte, oggigiorno
sostituiti nel materiale e nelle forme da oggetti più pratici e resistenti. Per esempio il
contenitore adoperato per il trasporto del latte: 1) su bandòni, oggi è in alluminio od in
materiale plastico, mentre in passato era fabbricato in latta e possedeva il caratteristico
tappo di sughero; il termine bandòni è un italianismo per bandone ossia “lamiera un po’
grossa di metallo”, utilizzato in senso metonimico ad indicare il materiale per il
manufatto.
2) Su γaddàžu, dal latino CALDARIUM, è invece la caldaia utilizzata per il
riscaldamento del latte, le cui dimensioni oscillano tra i 50 e i 300 litri di capacità; le
pareti interne delle caldaie più antiche erano in rame, mentre oggi sono stagnate per
ragioni igieniche. Si procede col descrivere le operazioni necessarie alla produzione del
formaggio a partire dalla cagliatura, consistente nel versare in su γaddàžu la quantità
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necessaria di coagulante ossia 3) su γàllu. Il termine corrisponde al log. kàdzu, e al
nuor. kràkku; in un primo momento Wagner ritenne questo termine derivato da
coagulum > passato alla forma sincopata c(o)ag’lu; ma poi rettificò il suo giudizio in
merito, poiché queste forme non corrispondono allo sviluppo regolare di g’l, perciò è
probabile che esse rispecchino l’italiano cagliare.
Nella fase di riscaldamento si mescola il latte manualmente oppure con un mestolo detto
4) mòriγa, il cui nome proviene dall’azione di moriγài, che Wagner deriva da
*FURICARE con scambio delle labiali iniziali, dovuto forse all’ingerenza dell’idea di
“muovere” o di “mischiare”. Una volta esaurito il tempo necessario alla cagliatura, e
portato il formaggio alla temperatura di 37°/38° gradi, si concludono le operazioni di
cottura.
Si procede con 5) s afframiaδùra, consistente nel far rapprendere il formaggio
pressandolo con entrambe le mani nel fondo della caldaia (ma nel DES non si registra la
presenza di questo termine).
Il latte rappreso si estrae con le mani o con un cucchiaio di legno forato chiamato 6)
tùrra da *turla, e si ripone a scolare nei cestini forati, un tempo fabbricati in castagno
ed intarsiati internamente, oggi in materiale plastico, chiamati dìskwaza. Il termine 7)
dìskwa è limitato al cagliaritano e all’estremo Sud del territorio campidanese, perché la
forma più diffusa in Sardegna è dìsku (log.); secondo Wagner tale forma (dìsku)
derivata da DISCUS (scodella) è stata attratta dai sostantivi della 4 declinazione in –us
come fìγu, dómu, ed ha assunto il loro genere femminile; inoltre il termine dìskwa
concorre con 8) pišèdda < FISCELLA. Essa viene poggiata su un sostegno fatto di due
stanghe di legno con due traverse detto: 9) froččìdda dim. < FURCA con metatesi della
vibrante, che viene collocata al di sopra della caldaia, in modo tale che il siero possa
sgocciolare, il termine 10) sóru < *SORUM per serum.
Per accelerare tale processo si esegue 11) sa ßikkaδùra, consistente nello schiacciare il
formaggio coi polpastrelli; il termine proviene < sp. picar nel senso di “martellare,
schiacciare”, a meno che non lo si consideri derivato dal lat. volg. *PIKKARE nel senso
di “pungere”. Le varie forme vengono quindi impilate le une sulle altre per favorire la
perdita del siero, e a questo punto si conclude la parte più impegnativa del lavoro: su
γàzu é pezàu “il formaggio è fatto”.
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Seguono le operazioni necessarie alla conservazione del prodotto, consistenti nell’
akkutturài, sallìri ed infine affumiài su γàzu.
L’azione di 12) akkutturài su γàzu consiste nel versare una piccola quantità di siero
bollente sulle forme estratte dai contenitori forati e disposte all’interno di una tinozza o
kußeδìna; l’operazione è volta ad alterare la colorazione della superficie del formaggio,
che diviene 13) gròγu ossia “giallo” dal < cat. gròc, fem. gròga, il vocabolo sardo ha
perciò conservato la ò della voce catalana.
Successivamente si provvede a 14) sallìri su γàzu ossia sottoporlo al processo di
salamoia, consistente nel ricoprire completamente le varie forme di sale e lasciarle
riposare per 24 ore, 12 ore per lato; il termine sallìri proviene < lat. SALIRE, è citato da
Wagner come der. verb. denom. < sàlli.
15) Affumiài su γàzu significa invece “affumicare” da < FUMUS, operazione
necessaria per accelerare il processo di essiccazione e favorire la conservazione del
prodotto a lungo termine. Fino a una trentina di anni fa tale essa era compiuta
all’interno de sa barràkka, la capanna costruita con tronchi e frasche, provenienti da
diverse varietà arboree, come: 16) trùnku de ìlliži (quercia), ollàstu (olivastro),
leonàžini (oleandro), murdéγu (cisto). La peculiarità architettonica de sa barràkka
consisteva nell’assenza di canne fumarie od altri sistemi per la fuoriuscita del fumo, che
si disperdeva dal varco d’ingresso; ciò garantiva la presenza di un ambiente secco
necessario a favorire la stagionatura in tempi brevi. A tale scopo le capanne erano dotate
di graticci di legno o di canna sospesi al soffitto sopra il focolare, su cui si ponevano a
seccare le forme, chiamati 17) kannìttsu in camp., e kannìttu in log. < dal lat.
CANNICIUS. Qualora si volesse protrarre la conservazione del formaggio oltre l’anno,
si provvedeva a cospargere le forme con olio d’oliva di scarto a giorni alterni, fino al
completo esaurimento delle scorte.
5) CLASSIFICAZIONE TIPOLOGICA.
Una volta descritte le varie fasi della produzione casearia, si è provveduto ad
approfondire l’argomento fornendo una classificazione tipologica dei prodotti tipici
locali. 1) Su γàzu zàrdu confezionato in casa artigianalmente è definito dagli
informatori kàzu normàlli, in contrapposizione ad altre qualità di origine industriale,
come il pecorino romano. Invece 2) su γàzu màrtsu, l’aggettivo marcio è un
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italianismo, è un formaggio di scarto che si produce naturalmente durante la
stagionatura del kàzu zàrdu nella stagione estiva, per l’attacco della mosca Phiophila
casei, che depositandovi le larve altera le proprietà organolettiche del prodotto,
caratterizzandolo per la piccantezza e la cremosità. 3) Inoltre anche la ricotta può essere
considerata un surrogato del kàzu zàrdu poiché la sua produzione è immediatamente
successiva alla confezione dello stesso. Infatti il siero rimasto nella caldaia
precedentemente utilizzata viene portato alla temperatura di circa 80°, mantenendolo in
agitazione con sa mòriγa, finché comincia a coagularsi; infine i fiocchi vengono estratti
dalla caldaia con sa δùrra e posti a scolare nelle dìskwaza. Il nome della ricotta è
arreskóttu dal lat. < RECOCTUS con prostesi vocalica dinanzi a vibrante.
Infine si ricordano quei prodotti che per intere generazioni hanno rappresentato l’unica
fonte nutrizionale della prima colazione, detta su mùrdzu, ossia: 4) su γàz ažéδu,
ottenuto dalla coagulazione del latte appena munto, definito “formaggio acido” dal lat.
ACETUM; 5) su γallaδéddu che si differenzia dal precedente perché presenta un tipo di
coagulazione più rapida, in virtù della maggiore quantità di caglio adoperata; ed infine
6) sa γazàδa, una specialità la cui produzione è limitata alla stagione estiva,
parallelamente alla nascita degli agnelli, poiché è ottenuta dalla coagulazione del
colostro, definito in camp. rustico kaρóstru dal lat. < COLOSTRUM. Tutti questi
alimenti erano sempre accompagnati dal pane, elemento principe dell’alimentazione
sarda tradizionale.
6) ASPETTI SOCIALI.
Una volta reperito il materiale relativo agli aspetti più propriamente descrittivi della
ricerca, si è richiamata l’attenzione degli informatori sulla realtà sociale che ha generato
le tradizioni osservate, con l’intento di esaminare i rapporti fra ricerca linguistica ed
indagine etnografica, sull’esempio del metodo Worter und Sachen (parole e cose) di
Wagner.
A tale scopo nel corso della ricerca si è focalizzata l’attenzione sulle consuetudini che
caratterizzavano la vita pastorale, come ad esempio 1) l’usanza di porre i figli a servizio
delle necessità familiari sin dalla più tenera età. Ciò si riflette nel tasso di
scolarizzazione, molto più basso negli ultraottantenni rispetto ai loro figli, e tale da
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condannare all’analfabetismo una porzione importante della popolazione maschile più
anziana.
Infatti, sebbene il processo di industrializzazione del sistema agro-pastorale in Sardegna
abbia avuto inizio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (Francesco Nuvoli
ricorda che risale al 1897 l’introduzione dei primi corsi di caseificio da parte di
specialisti del Lazio e dell’Abruzzo), tuttavia i figli degli allevatori praticavano
l’apprendistato prevalentemente sul campo, attraverso l’osservazione e l’imitazione dei
propri padri.
Ciò ha favorito la trasmissione generazionale delle tradizioni artigianali sarde,
parallelamente al 2) sincretismo tra religione e superstizione, che però non trova più
applicazione nei tempi moderni. Il gesto rituale che accompagnava qualunque tecnica di
produzione alimentare era costituito dal segno di croce, sa γrùži, che veniva segnata
simbolicamente sulla caldaia ricolma di latte prima che i lavori avessero inizio; ma
anche in altre occasioni legate alla panificazione ed alla confezione degli insaccati. Un
gesto che propiziava la buona riuscita del lavoro, assolutamente naturale in una società
condizionata dalla miseria e dalla necessità di procacciare quotidianamente i viveri
necessari al sostentamento familiare.
Tuttavia il sincretismo magico-religioso si è rilevato con maggiore incidenza nei lavori
che prevedevano l’esclusività della partecipazione femminile, come nel caso della
panificazione, dove ogni gesto era compiuto con meticolosa ritualità. Per esempio:
1. la croce segnata sul lievito;
2. il sale gettato sulle braci al momento dell’introduzione dei pani nel forno,
seguito dalla benedizione delle anime dei defunti;
3. il divieto di osservare la lievitazione dei pani fino al completamento della
cottura;
4. e sa mandàδa il dono effettuato a compimento del lavoro svolto.
Si tratta di elementi che riflettono una società orgogliosamente ancorata alle proprie
tradizioni e desiderosa di propiziarsi una sorte spesso avversa al soddisfacimento dei
bisogni naturali.
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7) CONCLUSIONI.
In conclusione, la metodologia adoperata per illustrare gli aspetti demologici esaminati
nel presente studio, alterna la descrizione oggettiva alle testimonianze raccolte nel corso
dell’inchiesta. Lo scopo consiste nel conferire alla ricerca un valore scientifico, poiché
l’osservazione della realtà è filtrata attraverso le esperienze di coloro che ne sono stati i
testimoni diretti.
I mutamenti sociali verificatisi nell’ultimo trentennio, hanno profondamente
modificato le abitudini nutrizionali della popolazione locale, portando perciò alla
graduale scomparsa di un patrimonio non solo alimentare ma anche lessicale.
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METODOLOGIA ADOPERATA NELLA RICERCA.
Per svolgere il lavoro di indagine sono stati messi in atto i criteri indicati da Enrica
Delitala in “Come fare ricerca sul campo”, consistenti nello spoglio bibliografico e nel
rilevamento sul campo.
1) RICERCA BIBLIOGRAFICA.
La ricerca bibliografica ha costituito la fase iniziale del lavoro, nel corso della quale si è
preso contatto coi testi di maggiore rilievo inerenti gli argomenti trattati, primo fra tutti
il Bollettino del Repertorio e dell’Atlante Demologico Sardo, nel quale compaiono: sia i
risultati degli approfondimenti condotti negli anni in ambito alimentare, sia i limiti delle
stesse indagini. Infatti sono molto forbiti gli studi etnografici relativi alla panificazione,
mentre risultano ad uno stadio meno avanzato quelli inerenti la caseificazione, la
confezione delle carni ed i frutti della terra, per lo studio dei quali si è attinto
prevalentemente ad opere di carattere linguistico.
2) CAMPIONAMENTO.
La fase successiva del lavoro è consistita nell’effettuare il campionamento degli
informatori, selezionati sul criterio della rappresentatività folclorica, ossia il 1) ceto
sociale d’appartenenza e 2) la classe d’età.
Non sono state riscontrate difficoltà in merito, essendo stata l’economia dolianovese di
tipo agro-pastorale fino agli anni Settanta circa; inoltre gli informatori prescelti
presentano dimestichezza con la confezione degli alimenti di cui si è trattato, sia per le
personali esperienze familiari, sia perché contribuiscono ancor oggi a rendere vitali le
antiche tradizioni locali.
3) Un terzo criterio di selezione è rappresentato dalla ripartizione tra i ruoli maschili e
femminili nella società tradizionale , infatti si è ricorso prevalentemente: agli uomini per
reperire le informazioni relative alla caseificazione, scelti appositamente per la loro
professione; ed alle donne, per indagare sulla panificazione e la confezione delle carni;
ma ad entrambi quando si è trattato dei frutti della terra, in virtù delle esperienze
acquisite dalle donne nel lavoro dei campi, senza escludere tuttavia un’ingerenza
maschile nei lavori femminili e viceversa.
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Il numero degli informatori ammonta a venti, compresi nella fascia d’età tra i 50 ed i
100 anni, alcuni dei quali sono stati intervistati a più riprese per la qualità delle
conoscenze possedute e le capacità esplicative mostrate.
Il valore delle interviste effettuate è stato proporzionale alla loquacità degli informatori
ed alla loro volontà di dimostrarsi utili alla ricerca; talvolta non è stato semplice carpire
le informazioni richieste per la ritrosia manifestata nei confronti della registrazione,
altre volte invece la volontà di esemplificazione dell’interlocutore ha fatto si che le
domande fungessero da semplice filo conduttore di un discorso ampiamente
particolareggiato.
3) RILEVAMENTO.
Per il rilevamento effettuato in loco si è ricorso all’ausilio di due intermediari, di sesso
maschile e femminile, che hanno reso più agevole l’approccio con gli informatori,
dapprima presentandomi e poi conducendomi nelle varie abitazioni; invece quando si è
ricorso ai familiari o ai conoscenti più stretti, è stato più semplice instaurare un rapporto
di comprensione reciproca. Tuttavia ad ogni nuovo informatore è stata illustrata con
chiarezza la finalità della collaborazione richiesta.
L’iniziale difficoltà nel far esprimere gli informatori in lingua sarda è stata
rapidamente superata grazie alla dimestichezza personalmente assunta coi tecnicismi
lessicali di ambito alimentare ed agricolo-pastorale, acquisiti col progredire
dell’inchiesta; e grazie all’ausilio degli intermediari, che hanno provveduto ad
intervenire in lingua sarda al momento opportuno. I colloqui bilingui hanno permesso di
rilevare un alto tasso di italianizzazione anche nei soggetti ultraottantenni, sintomo di
una società aperta alla comunicazione con le nuove generazioni.
I questionari adottati sono stati elaborati personalmente attraverso lo spoglio
bibliografico ed in seguito sono stati corredati con le informazioni reperite nella ricerca
sul campo, e sono stati adattati agli informatori in relazione alle competenze manifestate
in materia, ed alla capacità di fornire indicazioni utili alla ricerca. Perciò dapprima sono
state formulate domande di carattere generale, necessarie per valutare il livello di
competenza pratica e comunicativa dell’interlocutore, poi la ricerca è divenuta più
specifica essendo volta a focalizzare l’attenzione sui particolari tecnici o aneddoti che
facessero emergere la vitalità della realtà esaminata.
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4) ESPOSIZIONE DEI DATI.
Dopo aver reperito una sufficiente quantità di materiale si è provveduto ad elaborare un
discorso ampio ed unitario relativamente ad ogni argomento, effettuando ulteriori
interviste qualora si ritenesse necessario colmare le lacune risultanti dalle inchieste
precedentemente condotte.
La registrazione dei colloqui è stata fondamentale per la catalogazione del materiale
reperito, ma soprattutto per l’elaborazione della trascrizione in grafia fonetica delle
testimonianze raccolte nella ricerca sul campo, su cui è stata effettuata l’analisi
etimologica dei termini notevoli ricercati nel Dizionario Etimologico Sardo di Wagner.
Si è perseguito l’obiettivo di rifuggire da una musealizzazione della cultura, e di far
emergere uno scorcio della vita dell’uomo in una realtà locale sarda nel primo
settantennio del Novecento.