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CAPITOLO III
I LIMITI DEL LINGUAGGIO: LA RACCOLTA OBLIO (OBLIVION)
3.1 I paradossi
I paradossi filosofici costellano il tessuto letterario della raccolta di otto racconti racchiusi
in Oblivion (Oblio) del 2004 e, come suggerisce il titolo, il lettore si trova dinanzi all’oblio,
la dimenticanza che l’uomo sceglie di compiere nel momento in cui ha di fronte a sé degli
episodi difficili di vita; egli sceglie, dunque, di dimenticare per evitare di soffrire e per
preservare uno status psichico sereno. In Oblio, il lettore è parte dei racconti che si narrano,
è chiamato ad esercitarsi all’attenzione per cogliere il filo narrativo conduttore delle storie,
disposte in modo discontinuo. L’io è il protagonista delle storie e l’uso della soggettività
narrata quindi in prima persona singolare, crea l’unico spazio inclusivo e possibile con il
lettore, poiché solo con l’Io si può esprimere la lettura della soggettività; costruendo quindi
delle esperienze “vicarie”, il lettore si può riconoscere nelle esperienze vissute dai
personaggi. L’inclusività del lettore è ciò che Wallace ha desiderato: uno spazio letterario
che possa essere un ponte di accesso nello spazio soggettivo ed emotivo del lettore.
L’emotività di quest’ultimo è stimolata mediante storie fittizie e ciò delinea un paradosso:
la fiction che fa emozionare. Come possono dei personaggi causare il pianto di un lettore o
di uno spettatore nel campo televisivo? Come può un soggetto, per esempio, piangere per
la morte di un personaggio che non è mai esistito? O ancora, come può ridere di fronte a una
descrizione di una caduta di un personaggio che prova dolore? O vivere l’ansia per uno stato
di suspence? E quindi di sospensione delle azioni? Queste tematiche sono state affrontate,
ad esempio, da Carola Barbero analizzando i paradossi della finzione, il paradosso della
tragedia, della commedia e della suspence, in cui si riportano alcune soluzioni: per quanto
concerne il paradosso della finzione, è riportata questa elaborazione:
(1) L è triste per il suicidio di Anna e L sa che Anna è un’entità fittizia.
(2) Credere nell’esistenza di ciò che ci rende tristi è una condizione necessaria per provare
emozioni.
(3) L non crede nell’esistenza delle entità fittizie.
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Una delle possibili soluzioni del paradosso è quella della credenza surrogata secondo cui i
soggetti si lasciano avvolgere dalle emozioni perché si crede che nella finzione i personaggi
stessi soffrano davvero, in questo caso il punto (2) viene meno, poiché il soggetto
proverebbe emozioni, essendo consapevole che qualcuno nella dimensione finzionale stia
vivendo emozioni come la felicità o la tristezza. Per il paradosso della tragedia, invece,
seguono queste tesi:
(4) La tristezza è un’emozione negativa che non è piacevole provare.
(5) Le tragedie suscitano tristezza nei fruitori.
(6) I fruitori di tragedie provano piacere.
Il paradosso si scioglie con questa possibile soluzione che segue le teorie del controllo e
della conversione, secondo cui si provano emozioni negative piacevoli se esse sono finte.
Il lettore si sente al riparo e protetto da delle situazioni tragiche reali, e durante la fase della
lettura ha il pieno controllo di sé, e sa che tutto ciò che è narrato è finto, egli prova piacere
perché ha tutto sotto controllo e non prova dolore perché le situazioni narrative descritte non
sono incontrollabili. E ancora, per quanto concerne il paradosso della commedia:
(7) Il riso è espressione di un’emozione positiva provata dal fruitore.
(8) Ai personaggi delle commedie accadono sventure delle quali il fruitore è consapevole.
(9) Il fruitore di commedie ride e si diverte.
La teoria del sollievo risolve il problema ed essa ritiene che il ridere sia una valvola di sfogo
per il lettore, il quale si libera della tensione scaturita dalla repressione costante causata dalla
società che impone regole morali da seguire; perciò, il lettore ride per la caduta di un
personaggio, ed espelle tutta la sua energia soffocata dal sistema sociale, sentendosi libero
temporaneamente dalla repressione di una società che stabilisce ciò che è bene e ciò che è
male. Passando ora al paradosso della suspence, vi sono a riguardo queste constatazioni:
(10) La suspence è un’emozione generata dall’incertezza di come si evolverà una determinata
vicenda.
(11) Sapere come una storia andrà a finire significa non avere alcuna incertezza riguardo
all’evolversi di quella vicenda.
(12) I fruitori provano suspence leggendo storie che sanno già come andranno a finire.
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Il nodo si può sciogliere così seguendo la teoria della dimenticanza momentanea secondo
cui il lettore nel momento in cui rilegge una storia, riprova le stesse emozioni e lo stesso
stato di sospensione seppure abbia già vissuto questi stati, il lettore; perciò, si dimentica del
finale che già conosce momentaneamente e prova nuovamente la suspence.
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Nella raccolta
Oblio, si delineano cinque paradossi fondamentali su cui si costruiscono i racconti; il
paradosso del tempo, dello spazio, della suspence, dell’impostura e del linguaggio.
Quest’ultimo è stato il soggetto principale del romanzo-tesi di David Foster Wallace, un
elemento che controlla e definisce le vite dei personaggi, come nel caso di Lenore. Nella
raccolta Oblio, il linguaggio si caratterizza per i suoi limiti: è un linguaggio che non può
esprimere tutto il flusso dei pensieri di un soggetto pensante, un linguaggio che non può
rappresentare al meglio tutte le nuances di un pensiero così articolato e che si sviluppa su
una moltitudine di pensieri che si dispongono su onde velocissime; l’incapacità di tradurre
tutto e alla perfezione il flusso dei pensieri, infatti sono aspetti rappresentati nella scrittura
dalle frequenti cesure del testo caratterizzate dall’espressione “…Ecc. ecc.”. Per quanto
concerne il paradosso del tempo, nella raccolta si costruiscono due assi temporali: il tempo
oggettivo e il tempo soggettivo, il primo delinea il tempo in minuti che si impiegano per la
lettura delle pagine del testo, il secondo invece è il tempo interiore percepito
soggettivamente da ciascun lettore di fronte al testo; a seconda del coinvolgimento emotivo,
per esempio, si impiegano tempi soggettivi diversi che variano a seconda del lettore, il
quale, se è molto coinvolto dalle storie, vivrà un tempo soggettivo piacevole e fugace, al
contrario, se il coinvolgimento è il minimo la lettura sarà faticosa e il tempo soggettivo sarà
lento e interrotto da continue esitazioni. A livello dello spazio, Wallace elabora nei racconti
la dicotomia interno-esterno, introducendo i personaggi in spazi delimitati e spesso
claustrofobici per esempio la macchina in Caro vecchio Neon, l’aereo in Un altro pioniere
e l’autobus in La filosofia e lo specchio della natura che, tra l’altro, sono tutti mezzi di
trasporto che caratterizzano le “macchine” narrative dei racconti, dei luoghi in cui l’interno e
l’esterno si mescolano tra loro.
84
Barbero, C. Filosofia della letteratura, Carocci editore, Roma, 2013, pp. 75-89.
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3.2 Il racconto e il romanzo
Oblio diversamente dal romanzo La scopa del sistema è una raccolta di racconti, ma
entrambe le opere hanno delle analogie: la caratterizzazione dei personaggi che presentano
ciascuno delle problematiche, tra cui la scarsa autostima, l’overthinking, cioè il pensare
troppo, la mania dell’igiene, le fobie, tra cui quella dei ragni, gli stati frequenti di
depressione e la solitudine. Una delle peculiarità della raccolta Oblio sta quindi
nell’inserimento di queste tematiche complesse psicologiche e dei drammi esistenziali,
all’interno dei racconti che, come già visto in Voltaire, si caratterizzano per la brevità e la
concisione; in Oblio, i racconti, invece, si contraddistinguono per essere lunghi, come accade
nella stesura dei romanzi, e ricchi di profonde descrizioni interiori. La similitudine del
racconto con il romanzo, cioè tra Oblio e La scopa del sistema, in Wallace sta anche nella
creazione di vari personaggi che vengono delineati con profili psicologici molto dettagliati
e complessi che spesso occupano svariate pagine, il focus psicologico per Wallace è
fondamentale e dona complessità al testo. Un altro aspetto da considerare è il racconto nel
racconto, in Oblio, in particolar modo in Un altro pioniere, “Another Pioneer”, la
commistione del racconto nel racconto fa da protagonista alla storia in cui un racconto è
tramandato da più voci e si inserisce nella cornice narrativa del racconto stesso di Wallace,
così come accade ne La scopa del sistema, dove i racconti sono fondamentali per Lenore,
la quale vive poiché è frutto di un racconto stesso e Rick non fa altro che usare il linguaggio
per controllare Lenore. Wallace, in questo modo, fa sì che non solo filosofia e letteratura
possano intersecarsi, ma anche che il romanzo e il racconto possano fondersi e diventare
funzionali alla narrazione di una storia complessa.
3.3 Caro vecchio Neon (Good Old Neon)
«Per tutta la vita sono stato un impostore»
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è l’incipit del racconto “Caro vecchio neon”,
narrato in prima persona, che metterà in discussione qualsiasi affermazione detta dal
protagonista. La struttura del testo è una possibile esemplificazione del paradosso del
mentitore o dell’impostura, la denominazione che il protagonista sceglie di adottare. Prima
85
Foster Wallace, D., Oblivion: stories, 2004, Little, Brown and company, New York, 2004; Oblio, tr. it. di
G. , ,, Granato, Einaudi, Torino, 2004, p. 199.
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di analizzare il paradosso che è fondamentale per la comprensione del racconto, è bene
soffermarsi sulla parte iniziale del testo che si discosta dai comuni canoni che alimentato
dalla curiosità e rimarrà col fiato sospeso durante la lettura di diverse regolano le opere di
narrativa; non vi è, infatti, la presentazione della voce che parla, non sappiamo a chi essa
parli, in quale situazione, quando e perché; il lettore rimane sorpreso e pagine. L’incipit,
inoltre, è una confessione, una confessione totalmente scevra da costrizioni: è
un’affermazione libera da parte di qualcuno che si dichiara essere un impostore da tutta la
vita, costruendo agli occhi degli altri, un’immagine falsa di sé:
Ho praticamente passato tutto il mio tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri.
Più che altro per piacere o per essere ammirato. Forse è un po’ più complicato di così. Ma se
andiamo a stringere il succo è quello: piacere, essere amati. Ammirati, approvati, applauditi,
fa’ un po’ tu. Ci siamo capiti.
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«You get the idea», nella versione inglese, e cioè, “Ci siamo capiti” è un altro elemento
ambiguo del racconto che crea un legame con qualcun altro, ma il lettore non sa nulla a
riguardo e perciò le domande che sorgono spontaneamente sono: chi sta parlando e a chi?
Qualsiasi persona stia parlando esprime una condizione che si è svolta nell’arco della sua
intera vita in cui egli ha offerto un’immagine di sé costruita al fine di piacere agli altri, per
essere un qualcuno che debba essere degno di ammirazione, degno di amore. Il soggetto ci
spiega in seguito che prova ribrezzo per se stesso ma non può fare a meno di fingere: «e mi
facevo schifo per essere sempre un tale impostore, ma sembrava che non potessi farne a
meno.»
87
. Nonostante ciò, il soggetto cerca dei modi per guarire, si dedica, tra le esperienze
menzionate all’ipnosi, alla cocaina, entra a far parte di una chiesa carismatica, pratica il
jogging e al collezionismo e al restauro di Corvette, alla meditazione, ma nonostante tutte
queste attività, che tra l’altro sono tutte elencate non seguendo una successione temporale
definita e cronologica, non sembrano risolvere i problemi del narratore; egli infatti si sente
vuoto e predatorio
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, cioè si sente privo del suo io interiore e si provoca del male
volontariamente. Nessuna attività, perciò può distruggere la sua angoscia. Un momento di
svolta del racconto, tuttavia, si ha quando il narratore/impostore avverte il lettore di essersi
86
Foster Wallace, D., Oblivion: stories, 2004, Little, Brown and company, New York, 2004; Oblio, tr. it. di G.,
Granato, Einaudi, Torino, 2004, p. 199.
87
IVI, p.201.
88
IVI, pp.201-202.
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suicidato e descrive il momento in cui egli è morto; «A proposito, lo so che questa parte è
noiosa e probabilmente ti annoia, ma si fa assai più interessante quando arrivo alla parte in
cui mi uccido e scopro quello che succede subito dopo che una persona muore.»
89
. Ma come
è possibile che il narratore in questione parli ai lettori descrivendo allo stesso tempo il modo
in cui egli è morto? La prima suggestione che potrebbe emergere è che la persona in
questione stia narrando dall’oltretomba ma questa affermazione non può essere valida,
poiché durante tutto il racconto la voce in questione sarà in stretto e diretto contatto con il
lettore, evocando sempre il “tu”. A seguito di questo sconvolgimento della storia, il
narratore distrae il lettore, secondo una tipica tecnica di Wallace, e comincia a raccontare
le sue sedute dall’analista, il quale si trova dinanzi a un personaggio il cui scavo interiore è
impossibile, poiché l’“impostore”, mostrando una maschera, non permette agli altri di
entrare nella sua vera interiorità e perciò la risoluzione dei problemi psicologici interiori è
impossibile in questa modalità, in aggiunta, egli pretende di sapere qualsiasi pensiero passi
nella testa di chi ha di fronte e infatti è proprio il narratore a permettere l’intuizione del Dr.
Gustafson a proposito di essere un impostore:
-Se ho capito bene, - fa, - lei mi sta dicendo che fondamentalmente è una persona calcolatrice
e imbrogliona che dice solo quello che secondo lei otterrà l’approvazione altrui o darà di lei
l’immagine che è convinto di voler dare -. Gli dissi che forse era un po’ semplicistico ma
fondamentalmente esatto, e lui aggiunse che a quanto capiva gli stavo dicendo che mi sentivo
come intrappolato in quel modo d’esser falso e incapace di essere completamente franco e di
dire la verità senza badare al fatto che mi mettesse o meno in buona luce agli occhi degli
altri.
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Si mette in luce così, il fulcro di questo racconto, cioè il paradosso dell’impostura, secondo
cui se un soggetto dichiara di essere un impostore e cioè un mentitore, com’è possibile
credergli in tutte le sue affermazioni non essendo quest’ultimo sincero? Al contempo, in
questo paradosso si crea una contraddizione: il mentitore in questione, mente o dice la
verità? Se il mentitore mente, allora questa è una bugia, ma se il mentitore non mente allora
dice la verità, si creano, tuttavia, due affermazioni contrastanti nel medesimo piano, perché
in qualsiasi affermazione, il mentitore incarna in sé il fatto di dire fandonie. In aggiunta, il
89
Foster Wallace, D., Oblivion: stories, 2004, Little, Brown and company, New York, 2004; Oblio, tr. it. di
G., Granato, Einaudi, Torino, 2004, pp. 201-202.
90
IVI p. 205.
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narratore espone come è venuto a conoscenza di questo paradosso che poi è diventato un
vero e proprio stile di vita:
C’era un paradosso logico di fondo che io chiamavo il «paradosso dell’impostura» e che
avevo scoperto praticamente da solo mentre seguivo un corso di logica matematica a scuola.
[…] Il paradosso dell’impostura era che più tempo e più impegno mettevi nel cercare di far
colpo sugli altri o di affascinarli, meno sorprendente o affascinante ti sentivi dentro: eri un
impostore. E più ti sentivi un impostore, più ti sforzavi di offrire un’immagine sorprendente
o piacevole di te stesso per evitare che gli altri scoprissero che razza di persona vuota e
disonesta eri per davvero.
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Il lettore, dunque, è consapevole che tutto ciò che viene affermato dal narratore potrebbe
essere falso e allora come dovrebbe porsi il lettore nei confronti di quest’ultimo? Dovrebbe
credere o non credere a tutto ciò che la voce narrante afferma e nega allo stesso tempo?
Dall’incipit “Per tutta la vita sono stato un impostore”, il racconto procede con un episodio
dell’infanzia vissuto nella dimensione familiare del narratore; quest’ultimo confessa che
aveva mentito a suo padre riguardo la rottura di un vaso di cristallo di valore per la famiglia.
L’“impostore” interpreta la reazione del padre, pensando che se avesse confessato la sua
colpa in modo poco convincente, il padre avrebbe dato la colpa a Fern, la sorella del
narratore, il quale, aveva esercitato sul padre una forma di controllo, così come ha fatto, allo
stesso modo, nei confronti del Dr. Gustafson. Il narratore prosegue raccontando una delle
esperienze vissute per trovare una soluzione alla sua condizione di impostura, vale a dire la
meditazione. Egli, durante questo corso, riceve dal maestro Gurpreet il titolo di «la statua» in
quanto il narratore era in grado di rimanere immobile a lungo, facendo notare agli altri allievi
quanto fosse bravo nel farlo, ma dentro di sé egli sentiva il forte dolore che una tale impresa
può provocare al fisico, poiché è estremamente difficoltoso rimanere immobile a lungo
termine, infatti dentro di sé avverte la reale risposta fisica del corpo che è tutt’altro che
rilassata:
io restavo sempre perfettamente immobile e mi concentravo sul respirare il mio prana con la parte
bassa del diaframma più a lungo degli altri, a volte addirittura per mezz’ora, anche se avevo le
ginocchia e il fondoschiena in fiamme e mi sembrava di sentire sciami d’insetti che mi strisciavano
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Foster Wallace, D., Oblivion: stories, 2004, Little, Brown and company, New York, 2004; Oblio, tr. it. di
G., Granato, Einaudi, Torino, 2004, pp. 207-208.