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attori e spettatori, i quali, protagonisti gli uni sul palco, gli altri
nella società, avevano lo scopo comune di perpetrare i valori del
mondo borghese e di mostrare questi valori come unici ed
indiscutibili. I drammaturghi risposero a queste esigenze attraverso
la stesura di lavori con un elevato grado di standardizzazione, i
quali potevano inquadrarsi in generi predefiniti come le farse, i
well-made-play, i melodramas, i music-hall. Accanto a questi
generi, poi, si andavano affinando le tecniche di produzione delle
operette e delle commedie musicali, che con i maestri Sullivan e
Gilbert, raggiunsero risultati davvero eccellenti.
Il sistema culturale e teatrale vittoriano, tuttavia, era destinato
a crollare proprio a causa delle ipocrisie e delle rimozioni ad esso
intrinseche: già nell’ultimo decennio dell’Ottocento, infatti, sulla
scorta della “rivoluzione naturalista” che in Europa e soprattutto in
Francia stava radicalmente cambiando il modo di produrre l’arte,
anche in Inghilterra a fatica si fecero strada nuovi testi teatrali.
Il propulsore di questa rivoluzione fu certamente Ibsen, il
quale, a partire dalle ambientazioni borghesi tipiche della vecchia
concezione teatrale, propose un punto di vista critico che non si
fermava all’esaltazione dei fasti borghesi, ma che invece ne
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analizzava a fondo le contraddizioni e le problematiche. In Francia
a queste teorie innovative si aggiunsero le considerazioni di Zola
che auspicava un ritorno del teatro all’analisi scientifica dell’uomo
e della sua realtà. A questa esigenza di rinnovamento risposero
numerosi autori e teorici del teatro, apportando ciascuno il proprio
contributo all’evoluzione della scena in senso naturalista. Tra i
maggiori autori europei protagonisti di questa rivoluzione spiccano
André Antoine, con la sua idea di quarta parete, Jean Jullien che
coniò l’espressione tranche de vie
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per definire la sua personale
innovazione, ed anche Konstantin Stanislavskij, che propose un
metodo di apprendimento della recitazione finalizzato alla completa
immedesimazione dell’attore nel personaggio.
Leggermente in ritardo rispetto all’Europa, l’Inghilterra
partecipò alla rivoluzione naturalista con l’istituzione
dell’Indipendent Theatre Society nel 1891 fondata da Jack Grein.
Nonostante il ruolo marginale che questa associazione riuscì a
ritagliarsi all’interno del mondo dello spettacolo inglese, essa ebbe
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Antoine intendeva, con l’espressione “quarta parete”, l’idea di un teatro che riproducesse la
vita reale dei protagonisti: come se il compito dell’autore fosse semplicemente quello di
rimuovere una delle quattro pareti di una stanza e lasciare che il pubblico osservasse all’interno
i personaggi muoversi e vivere come nel mondo reale. Grossomodo alla stessa concezione si
ispira Jullien: i suoi drammi sono tranches de vie, vale a dire propongono allo spettatore un
“riassunto significativo dell’umana esistenza”. Cfr. P. Bertinetti, Op. cit., p. 12.
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anche il merito rilevante di far conoscere al pubblico il principale
interprete della scuola naturalista in Gran Bretagna: George Bernard
Shaw. Egli, partendo da una personale interpretazione del
socialismo di stampo marxista, non esitò in seguito ad accusare
Marx di aver creato una teoria che non conferiva alcun valore alla
volontà del singolo e della società. Shaw era convinto, al contrario,
che la volontà individuale sarebbe stata sufficiente per determinare
un continuo progresso della collettività: proprio per questo egli si
propose di utilizzare il testo teatrale come mezzo per ottenere un
simile progresso. A tal fine Shaw poneva continuamente in
discussione i valori della società vittoriana, capovolgendoli e
smascherando le ipocrisie che nutrivano quella idea di ordine
sociale che dominava le scelte teatrali tradizionali. Inoltre, in
maniera ancora più sovversiva, Shaw inseriva questi contenuti in
una forma che rispecchiava quella del teatro popolare
dell’Ottocento, in tal modo creando una sorta di straniamento nello
spettatore borghese che assisteva ad un dramma formalmente simile
a quelli a cui era abituato, ma che criticava aspramente i cliché in
cui si riconosceva. L’intento dell’autore era certamente quello di
provocare il pubblico affinché si realizzassero quelle trasformazioni
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sociali necessarie al progresso dell’umanità: ma il limite principale
di questo prolifico autore fu soprattutto quello di restare ancorato
alla logica borghese. In effetti il suo modello teatrale, da un lato
presentava le ipocrisie del sistema di valori della borghesia,
dall’altro chiedeva a quella stessa classe sociale di farsi portatrice
del rinnovamento della società. La prima guerra mondiale costituì
per Shaw una brusca delusione: la borghesia, a cui egli si rivolgeva
con tanta speranza, si era dimostrata inadeguata a raccogliere le
esigenze riformiste avanzate dalle classi più deboli. E forse anche
per questo il suo teatro perse gran parte di quella vena critica e
polemica che lo aveva reso grande. Il caso di Shaw è, però,
emblematico di tutta la produzione teatrale britannica tra le due
guerre: in risposta ad un mondo che cambiava improvvisamente
davanti ai loro occhi, i drammaturghi inglesi non seppero creare dei
testi che riproducessero questi cambiamenti. Il segnale che venne
dalle scene d’oltremanica fu quello di un quasi totale ritorno al
passato: il salotto borghese tornò ad occupare il palcoscenico, e le
discussioni tra i personaggi esclusero completamente le vicende
storiche che gli spettatori vivevano al di fuori della platea. Con
l’eliminazione dei riferimenti storici furono annullate anche le
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spinte al cambiamento sociale e le critiche alle ipocrisie borghesi. Il
teatro tornò ad avere l’unico valore di intrattenimento.
2. La strada per il cambiamento: Samuel Beckett e gli
autori del Royal Court Theatre
Negli anni Cinquanta si assiste ad una vera e propria rinascita
del teatro inglese: la distanza temporale dalle terribili vicende del
secondo conflitto mondiale permette anche ai drammaturghi di
scrivere nuovi testi teatrali che, a partire dalle vicende del recente
passato, costringessero la platea ad una riflessione critica sui
problemi della società. La più importante novità era costituita dalla
rottura definitiva degli schemi del teatro borghese. Ad esso si
opponevano due modi di pensare al teatro, due idee opposte tra
loro, ma che ebbero grande influenza sugli autori del secondo
Novecento: le teorie di Beckett e quelle di Brecht.
Beckett, in polemica con la produzione teatrale a lui
contemporanea, operò una sorta di rivoluzione del linguaggio e
delle forme sceniche: egli si ispirava ad un tipo di dramma nato per
soddisfare i gusti borghesi, il “dramma conversazione”, per
riprodurlo fedelmente nella forma e contemporaneamente per
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svuotarlo del tutto nei contenuti. È questo il metodo che egli
utilizzò per la stesura del suo lavoro più conosciuto En attendant
Godot, scritto prima in francese e poi in inglese col titolo di Waiting
for Godot. In quest’opera egli utilizzava il dialogo tra i due
stravaganti protagonisti per l’unico scopo di far passare il tempo
della rappresentazione: la parola non produce azione, è un semplice
fluire di frasi volto ad occupare un tempo definito e ad ingannare
l’attesa per qualcosa che non arriverà mai. Ed è proprio questa
attesa, questo continuo sperare nell’arrivo di un’entità che non
arriva, né arriverà, che racchiude il senso della vita dei protagonisti
e dell’umanità che essi rappresentano
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. La reazione della critica
inglese a questo rivoluzionario modo di utilizzare il dispositivo
teatrale fu di totale imbarazzo: da un lato Beckett riproduceva nella
forma i vecchi, rassicuranti drammi borghesi, dall’altro, svuotandoli
del contenuto, egli dimostrava la vacuità di quei dialoghi e di quelle
trame a cui la critica ed il pubblico erano abituati. Anche i
successivi lavori di Beckett erano tutti volti allo stesso obiettivo:
dimostrare l’artificialità della scena teatrale e rivelarne i
meccanismi nascosti. E dunque Beckett non trova altra forma che
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Per approfondimenti si veda, M. Esslin, The Theatre of the Absurd, London, Penguin, 1968.
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quella del “Teatro dell’Assurdo” per rappresentare un mondo,
quello sopravvissuto all’Olocausto e all’atomica, in cui gli uomini
non hanno più mezzi per comunicare e per comprendersi, in cui
ognuno è isolato all’interno di una società dai meccanismi
incomprensibili.
Al teatro di Beckett si opponevano le teorie teatrali di Brecht,
che hanno influenzato in parte i drammi di Edward Bond. Anche
Brecht parte dalla presa di coscienza dell’assurdità del mondo
contemporaneo: il teatro, però, ha per lui il compito di mostrare la
via per il cambiamento della società, e non, come per Beckett,
quello di restare vincolato alle incomprensioni e alle incongruenze
del mondo. La risposta del drammaturgo tedesco fu quella di
affermare la necessità del teatro epico
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: questa forma non lascia lo
spettatore passivo testimone della scena, ma fa appello alle sue
capacità razionali per giudicare, prendere posizione, osservare
criticamente la vicenda. Per raggiungere questo scopo l’autore
doveva fare in modo da evitare il coinvolgimento emotivo del
pubblico, e di creare un potente effetto straniante: tale metodo
portava Brecht a prendere le distanze dalla drammatica aristotelica,
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Per approfondimenti si veda, P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, Torino,
Einaudi, 2000, in particolare pp. 96- 101.
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che affermava la necessità dell’immedesimazione del pubblico nella
vicenda, affinché si potesse verificare quel moto catartico, che
costituiva il fine ultimo della rappresentazione teatrale. La
concezione aristotelica non era più adeguata ad un pubblico, quello
degli anni Cinquanta, che aveva partecipato alle atrocità della
Storia. A questo pubblico ed alle sue capacità critiche e razionali
Brecht faceva appello, affinché il teatro fosse promotore del
cambiamento sociale.
Alle nuove esigenze teoriche si andava sommando in
Inghilterra la spinta di giovani autori, che non si riconoscevano
nelle forme del teatro borghese, e che rivendicavano un proprio
spazio nella cultura teatrale del tempo. Molti di questi giovani
autori appartenevano alla working class, e per questo avevano
minori possibilità di dedicarsi alla carriera artistica. Tra loro, alcuni
sono riusciti a farsi strada e ad affermarsi come nomi importanti
della cultura britannica, come ad esempio John Osborne, Arnold
Wesker, John Arden ed Edward Bond. Furono proprio questi autori,
insieme ad altri, a farsi interpreti e portavoce delle esigenze di
rinnovamento del teatro inglese. Nonostante le eterogeneità che li
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differenziano, essi hanno in comune un fattore importante: tutti
sono nati artisticamente all’interno del Royal Court Theatre.
La English Stage Society, a partire dalla seconda metà degli
anni Cinquanta, attuò una politica di incoraggiamento dei giovani
artisti, che ebbero la possibilità di mettere in scena i propri lavori al
Royal Court Theatre. In questo modo si ottenne un profondo
rinnovamento delle strutture teatrali esistenti. Ma il Royal Court
non incise solamente sull’establishment culturale: la sua era una
funzione in primo luogo politica. In effetti, il risultato principale
dell’istituzione di questo teatro fu un accrescimento delle possibilità
di mobilità sociale. Gli autori che scrivevano per il Royal Court
erano in gran parte rappresentanti della upper working class e della
lower middle class, i quali, qualora le loro opere avessero ottenuto i
favori del pubblico (un pubblico, ovviamente, aperto alle nuove
proposte), avrebbero certamente avuto modo di crescere
professionalmente, e dunque avanzare nella piramide sociale. È in
questa prospettiva che va interpretata la tesi di George Goetschius