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Dall’altro lato, invece, si tratta di un lavoro poco garantito e tutelato in
quanto si tratta di una forma contrattuale non ancora istituzionalizzata e
normalizzata. Infatti, situandosi in una zone intermedia rispetto alle forme
lavorative classiche, pone sul terreno del dibattito il problema di come il
parasubordinato dovrebbe essere tutelato e garantito e di come porre freno
ai fenomeni di precarizzazione di ampie fasce di lavoratori che non trovano
sostegno negli interventi di politica sociale esistenti.
Alla luce di queste riflessioni, per meglio capire le trasformazioni oggi in
atto, è intento di questo contributo analizzare i fattori che hanno determinato
lo sviluppo della società del lavoro e gli elementi che, invece, ne stanno
determinando la crisi.
In una prima parte, quindi, l’obbiettivo sarà quello di analizzare i
fondamenti della società salariale rilevando i fattori economici, sociali e
politici che la hanno caratterizzata. Quella che viene presentata è la
descrizione di un tipo di società, sviluppatasi nel corso dello sviluppo
capitalistico industriale, che ruota intorno ad un particolare ideale
lavorativo. Il lavoro emerso, infatti, dalla Rivoluzione industriale, è quello
salariato, dipendente, più volte criticato in quanto visto come merce di
scambio e fattore di produzione indispensabile all’accumulazione
capitalistica e alla nascita del fordismo.
Successivamente, invece, verranno rilevati i fattori che determinano le
trasformazioni in campo economico e produttivo che stanno modificando
non solo il lavoro salariato, ma anche le basi di una coesione sociale ormai
da tempo istituzionalizzata. Infatti, l’emergere di nuove forme contrattuali e
gli elevati tassi di disoccupazione comportano la caduta d’importanza del
lavoro salariato compromettendo e rendendo inadeguati gli interventi di
politica sociale ed economica che si erano ispirati a tale figura.
Data l’ampia diffusione delle forme di lavoro parasubordinato, nella
seconda parte, invece, verrà presentato un lavoro di ricerca che ha avuto
come oggetto di studio il contratto di collaborazione coordinata e
continuativa.
A tal fine sono stati intervistati dieci lavoratori parasubordinati che hanno
dichiarato di intrattenere ad oggi almeno un contratto di collaborazione.
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Il fine dell’intervista, in una prima parte, è stato quello di delineare le
esperienze formative e professionali dei parasubordinati con l’obbiettivo di
evidenziare i percorsi che li hanno portati alla collaborazione. In una
seconda parte, invece, è stata considerata la condizione di collaboratore
rilevando soprattutto i fattori di autonomia e di dipendenza al fine di rilevare
le differenze rispetto ai contratti di lavoro standard. Infine, in un terzo
livello di analisi, ci si è soffermati sul rapporto tra vita lavorative e vita
extra lavorativa per evidenziare eventuali connessioni tra la propria
condizione occupazionale e il proprio vissuto esistenziale, soggettivo e la
propria progettualità.
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PARTE PRIMA: IL QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO
CAPITOLO 1
LAVORO ED ECONOMIA NEI CLASSICI DELLA SOCIOLOGIA
1.1 Karl Marx: la logica dell’economia capitalistica e il lavoro alienato
L’approccio fornito da Marx all’economia e al concetto di lavoro deriva
soprattutto da un accurato studio delle origini del capitalismo e della sua
critica (Marx, 1867).
Lo studio condotto sui fenomeni economici supera l’impostazione
dell’economia classica che studia il capitalismo secondo una visione
naturalistica e astorica e non rileva le differenze nelle diverse forme
d’organizzazione economica che si sono succedute nel corso dei secoli.
Per contro, il materialismo storico di Marx, spiega il divenire storico
attraverso lo studio dell’evoluzione dei rapporti di produzione. Ogni fase
storica, infatti, risulta caratterizzata da un particolare modello produttivo
che va ad identificarsi con un modello economico e con una particolare
lettura della realtà sociale. Egli individua una fase antica caratterizzata dal
modello schiavista, la società feudale caratterizzata dalla servitù della gleba
ed infine la società borghese capitalistica. Quest’ultima però non è ritenuta
un punto d’arrivo ma il presupposto per il passaggio ad una società
avanzata, quella comunista, caratterizzata dall’abolizione della proprietà
privata, dello stato e del diritto (Marx, 1848).
Per l’autore lo studio delle basi materiali della società è fondamentale in
quanto l’economia ha un effetto totalizzante nel determinare tutti gli aspetti
della vita degli esseri umani. Essa, infatti, va ad identificarsi con il concetto
di struttura della società; ad essa è subordinata la cosiddetta sovrastruttura
che comprende l’organizzazione sociale e politica, l’ordinamento giuridico
e le forme di sviluppo culturale, religioso e artistico.
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Questo tipo di analisi ha il merito, rispetto all’analisi economica
tradizionale, di evidenziare come l’elemento materiale sia strettamente
legato all’aspetto istituzionale ed, inoltre, come ciascun fenomeno storico,
per essere studiato nella sua totalità, necessiti la combinazione di aspetti
culturali, sociali politici oltre che economici (Marx, 1859).
Il capitalismo è un particolare tipo di processo produttivo che vede, da un
lato i lavoratori non proprietari dei mezzi di produzione e dall’altro i non
lavoratori proprietari dei mezzi di produzione. Secondo tale dualismo la
società industriale borghese è fondata sulla contrapposizione di queste due
classi che si differenziano per la loro diversa posizione rispetto al processo
produttivo. Uno dei fattori che ha originato tale fenomeno è la liberazione
del lavoro, ossia la presenza di mano d’opera libera, in quanto espulsa dalle
campagne, che ha comportato la dissoluzione del sistema di relazioni legate
alla struttura feudale. Tali soggetti si vedono costretti a vendere la propria
forza lavoro, ossia l’insieme delle attitudini fisiche ed intellettuali, al
capitalista, in favore della produzione di un determinato bene; in cambio
della forza lavoro, il lavoratore riceve il salario, ossia un valore in denaro
fissato in relazione alla quantità di lavoro incorporato nella merce. Il salario
rappresenta, per il lavoratore, una forma di sussistenza per sé e per la sua
famiglia.
Ciò che rileva Marx è che il lavoratore, in realtà, lavora un tempo superiore
rispetto al salario che riceve; questo processo conferisce un plusvalore al
bene che va ad incrementare il profitto del capitalista. E’ come se il
lavoratore lavorasse due volte, in una prima fase lavora in vista del salario
che riceve, in una fase successiva lavora per conferire surplus. Secondo tale
visione ciò che è stato prodotto diventa qualcosa di estraneo rispetto al
lavoratore in quanto assume valore di scambio e non valore d’uso,
divenendo una merce disponibile alla vendita (Marx, 1867).
Tale situazione, nell’ottica marxista avrebbe comportato l’intensificarsi
dell’antagonismo tra le due classi, quella dei capitalisti e quella dei
proletari, conflitto che avrebbe aperto la strada per una nuova società
inaugurata dall’appropriazione dei mezzi di produzione da parte del
proletariato. Il sistema capitalistico è destinato a scomparire, a cedere il
posto al comunismo; la sua decadenza sarà determinata dalla sua stessa
8
logica interna che porterà conseguenze negative, non solo per la classe
operaia, ma anche per i capitalisti. Marx rileva che la logica capitalistica
arriverà ad un punto in cui i capitalisti, interessati a produrre una maggior
quantità di beni, acquisteranno nuovi macchinari. Questo comporterà, da un
lato, l’aumento della disoccupazione, ossia un esercito di mano d’opera di
riserva e dall’altro la caduta tendenziale del saggio del profitto per i
capitalisti (Marx, 1867).
L’idea di lavoro che emerge dallo studio marxiano del capitalismo è
piuttosto negativa, soprattutto se consideriamo la differenza che Marx rileva
tra l’essenza attribuita dallo studioso tedesco al lavoro e il vero lavoro,
considerato alienato, che è in ultima analisi quello che si realizza agli occhi
dell’autore.
Per Marx, infatti, il lavoro è l’essenza dell’uomo, è un mezzo per la
realizzazione del proprio sé; l’uomo diventa pienamente tale per mezzo del
lavoro che gli permette di esprimere la propria personalità e creatività e di
imprimere la propria soggettività su ciò che produce. Attraverso la
produzione l’uomo manifesta se stesso, afferma la sua vera natura, la
propria individualità, singolarità, appartenenza e si rispecchia in un mondo
che è creato da lui ossia un mondo umano.
Il lavoratore è l’homo faber, ossia l’uomo che mentre trasforma la natura
produce ed esprime se stesso, un uomo che è legato a ciò che costruisce in
quanto impegna le proprie facoltà e attitudini.
La realtà è molto diversa in quanto, nel capitalismo, l’essenza del lavoro è
momentaneamente perduta, essa è diventata lavoro reale, alienato, sganciato
da ogni contenuto, legato al bisogno, alla sussistenza.
Il lavoro è un puro mezzo di produzione nell’ottica del capitalista e un
mezzo di sussistenza nell’ottica del lavoratore. In quest’ottica, l’uomo è
spogliato della sua essenza, del lavoro vivo in favore della logica del
profitto. Ciò che il lavoratore produce è qualcosa di astratto, estraneo
rispetto ad esso in quanto valore di scambio e quindi merce. Nel processo di
sviluppo capitalistico si vanno ad evidenziare due modelli di alienazione che
segnano il passaggio dalla sottomissione formale alla sottomissione reale
del lavoratore. In una fase iniziale, infatti, l’operaio è inserito in un processo
produttivo a capo del quale vi è il capitalista il cui obbiettivo è la
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massimizzazione del profitto. In una fase successiva, più matura, vi è la
perdita totale da parte del lavoratore delle proprie abilità e conoscenze; è la
fase in cui si attua il processo di macchinizzazione in cui l’uomo perde la
capacità di incidere direttamente sulla produzione e in cui diventa semplice
strumento dello strumento.
L’alienazione porta a considerare il lavoro come qualcosa di esterno
all’individuo, esso non appartiene al suo essere, l’individuo risulta come
immiserito nelle proprie facoltà e spogliato da qualsiasi qualità umana e da
qualsiasi manifestazione personale (Marx, 1867).
Se da un lato il processo di industrializzazione ha un effetto disumanizzante,
dall’altro ha il merito di formare il proletariato e la conseguente nascita di
una coscienza di classe grazie alla quale diventa importante l’impadronirsi
del processo di produzione e il superamento del capitalismo in favore di una
società più avanzata ossia quella comunista.
L’utopia comunista ha come obbiettivo quello di garantire l’esistenza
materiale degli operai ed inoltre il recupero di quell’autonomia e dignità che
il capitalismo aveva eliminato, il lavoro chiede di essere attività personale,
unione e collaborazione volontaria di individui grazie alla quale ognuno è
proprietario della totalità delle forze produttive.
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1.2 Max Weber: le origini del capitalismo e l’analisi del lavoro come
dovere etico
Gli studi condotti da Weber da un punto di vista economico possono essere
ricondotti a due opere importanti dell’autore, L’etica protestante e lo spirito
del capitalismo (1904) e Economia e Società (1922).
L’approccio economico, da un lato è influenzato dal paradigma di mercato,
in quanto il capitalismo vede l’affermazione dell’agire razionale rispetto
allo scopo, l’azione strumentale legata all’homo oeconomicus che agisce per
il perseguimento dell’utile, dall’altro studia il fenomeno economico da un
punto di vista macrosociologico in quanto, per Weber, ai fini di un’analisi
più precisa, assumono un ruolo decisivo i fattori istituzionali e culturali.
Questo permette all’autore di evidenziare come l’attività imprenditoriale,
che caratterizza il capitalismo, non sia vista come una costante ma come
variabile dipendente rispetto al contesto in cui è inserito.
Il capitalismo è una forma di organizzazione economica che consente il
soddisfacimento dei bisogni attraverso imprese private che producono per il
mercato per mezzo di calcoli razionali orientati al profitto e
all’implementazione della forza lavoro. Ciò che lo caratterizza, rispetto ad
una fase precedente, è che la produzione non è più orientata alla sola
sussistenza e all’autoconsumo ma è orientata allo scambio.
Tra gli elementi che hanno favorito la sua formazione vi è l’appropriazione
dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti e la formazione del lavoro
salariato. Per il primo fattore, elemento determinante è la libertà di mercato,
ossia il fatto che non esistono vincoli di natura culturale e politica che
impediscano il calcolo del capitale e dell’investimento, per quanto concerne
i lavoratori salariati è importante considerare l’esistenza di lavoro libero che
sia disposto a vendere la propria forza lavoro al capitalista in favore della
produzione.
Questi elementi però, a parere di Weber, non bastano. Infatti, viene altresì
rilevata l’importanza della tecnologia meccanica che consente di calcolare
in modo esatto i tempi e i costi di produzione, un sistema giuridico che
disciplina gli investimenti, i prestiti, i risparmi ed infine uno stato che
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prevede norme che regolino i rapporti tra privati e tra questi e la pubblica
amministrazione (Weber, 1922).
Weber, oltre a dare una definizione di capitalismo e rilevare alcuni suoi
caratteri fondanti, compie uno studio più approfondito, con il fine di
considerare i differenti fattori che ne hanno portato alla nascita, allo
sviluppo e alla legittimazione. I fattori studiati sono innumerevoli e sono di
diversa natura. Da un lato vengono considerati quelli culturali, legati alla
diffusione della religione protestante, in particolare al calvinismo, dall’altro
quelli di natura istituzionale.
In L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, (1904), si evince come la
diffusione della religione protestante abbia influenzato lo sviluppo di una
particolare etica, quella economica, che alimenta lo spirito del capitalismo.
Per capire meglio tale assunto è necessario analizzare i presupposti del
calvinismo, alla base del quale vi è il concetto di predestinazione; esso
afferma che esistono individui destinati alla salvezza e altri destinati alla
dannazione. Gli uomini non conoscono il loro destino e vivono per questo in
una situazione di angoscia, timore e insicurezza. I fedeli per questo sono
spinti a considerarsi eletti da Dio e sono invitati a rafforzare tale fiducia
mediante l’impegno nel lavoro. Attraverso la produzione di ricchezza
l’individuo ha la prova della sua salvezza (Weber, 1904).
In tale ottica risulta chiaro come il lavoro, la ricerca del profitto, il
reinvestimento di capitale ricavato siano tutti elementi che hanno una
legittimazione da un punto di vista etico.
L’uomo, secondo tale etica, deve lavorare, massimizzare il proprio profitto,
tendere al risparmio rinunciando allo sfarzo e al lusso. L’etica protestante
rifiuta ogni tipo di attaccamento ai beni in quanto implica uno stile di vita
austero in cui i consumi sono intesi unicamente come propensione al
risparmio.
L’etica protestante, da cui deriva lo spirito del capitalismo, spinge ad un
nuovo modello di vita e verso una nuova realtà sociale. Si impone, infatti,
un nuovo ordine di esistenza fondato sulla professione, sulla dedizione del
sé al lavoro, all’adozione della razionalità nel pensiero e nella vita, intesa
come ogni comportamento che propende al guadagno e al risparmio.
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L’uomo è definito in relazione all’attività che svolge; il lavoro non è più un
mezzo di sostentamento, mezzo per la soddisfazione dei bisogni, ma è lo
scopo della propria vita. Questo determina un cambiamento di mentalità ed
una particolare condotta di vita che porta l’individuo a massimizzare il
profitto, a produrre il massimo del lavoro possibile, razionalizzare e rendere
calcolabili i tempi di lavoro.
I fattori culturali, come detto, non sono gli unici fattori che vengono presi in
considerazione, anche se per l’autore sono estremamente rilevanti. Esistono,
infatti, altri elementi che richiamano l’aspetto istituzionale e il tipo di
influenza che esso genera sul settore economico.
Weber ne rileva almeno tre. Essi sono la città occidentale, lo stato razionale
e la scienza razionale. Per quanto concerne il primo aspetto si rileva il fatto
che la sola etica protestante da sola non poteva influenzare la nascita del
capitalismo. Esso, infatti, si doveva legare ad un contesto, in questo caso
alla città occidentale. Essa ha una propria specificità rispetto alla città
orientale. Viene evidenziato come essa fornisca le basi per l’allargamento
dei mercati, la commercializzazione, la liberazione della forza lavoro ed
influisca indirettamente sulla formazione dello stato razionale e sulla
scienza.
La città occidentale ha permesso l’allargamento del mercato mediante lo
sviluppo del commercio. Tale attività è quella prevalente e risponde alle
esigenze di incrementare le possibilità di sostentamento. La borghesia che si
afferma in tale contesto ben presto si scontra con l’organizzazione
economica della campagna in cui la produzione è finalizzata al puro
sostentamento e all’autoconsumo. Agli occhi della borghesia essa risulta un
ostacolo per il pieno dispiegamento delle loro attività commerciali. Proprio
per questo i contadini verranno liberati dai vincoli feudali con l’obbiettivo
di trasformarli in nuova forza lavoro e verranno fatti investimenti sulla terra.
La liberazione del lavoro e della terra contribuiscono all’allargamento del
mercato e spingono ad una sempre maggiore razionalizzazione delle
primordiali aziende in direzione capitalistica. Il singolo artigiano in una
prima fase si trasforma in imprenditore che affida parte del lavoro ad altri.
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Spesso si tratta del lavoro a domicilio che rappresenta una prima forma
embrionale di capitalismo in cui inizia il processo di appropriazione dei
mezzi di produzione.
In una seconda fase i lavoratori vengono raccolti in unico contesto
lavorativo; nascono le fabbriche ed entrano in gioco ulteriori fattori tra i
quali lo sviluppo della scienza razionale che comporta l’invenzione di nuovi
macchinari volti alla produzione. Tale processo è molto importante in
quanto rende migliore in termini quantitativi la fabbricazione, permette una
produzione di massa a basso costo ed una razionalizzazione del calcolo del
capitale per quanto riguarda i costi di fabbricazione.
Altro fattore importante in questa fase di sviluppo è la nascita del diritto
razionale. Esso è fondamentale in quanto rende la legge calcolabile e quindi
permette una maggiore prevedibilità in merito ai rapporti tra individui
impegnati nell’attività imprenditoriale e tra questi e lo stato. Quest’altro
assume un ruolo fondamentale in quanto è legato al processo di
burocratizzazione che segna il passaggio da un capitalismo di mercato ad un
capitalismo organizzato e politicamente regolato.
Ciò che si evidenzia è che, da un lato il capitalismo stimola il processo di
burocratizzazione dello stato, legato ad un maggiore interventismo politico
volto alla correzione degli effetti di un mercato non regolato, dall’altro tale
fenomeno indebolisce l’imprenditorialità del capitalismo che pone il
problema della sua riproduzione come equilibrio tra stato interventista da un
lato e autonomia della società e del mercato dall’altro.
Il lavoro, quindi, in Weber, assume un ruolo rilevante in quanto si colloca
all’interno di un ampio processo di sviluppo dell’umanità, prodotta sia da
elementi religiosi, come l’etica protestante, sia da elementi economici.
Oggetto di studio diventa l’umanità professionalizzata, ossia, l’uomo dedito
al lavoro e alla realizzazione di sé nella vita professionale.
L’epoca capitalistica, legata all’etica protestante, rappresenta il lavoro come
dovere etico e morale, collocato all’interno di una dimensione di senso
dell’agire umano. L’uomo lavora per raggiungere la salvezza di Dio.
L’uomo si impegna nel proprio lavoro, nella professione e vive in funzione
di esse e per esso.
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Il lavoro, oltre che essere vissuto come un dovere, è criterio di
identificazione della persona, l’uomo è ciò che produce e ciò che realizza
nella propria vita professionale. Questi aspetti portano il lavoratore a, non
essere più orientato al puro bisogno, ma al massimo del guadagno e del
risparmio possibile.
L’importanza assunta dal lavoro condiziona lo stile di vita del lavoratore
che scandisce e organizza in modo razionale la sua quotidianità in funzione,
appunto, della produzione, del guadagno e del risparmio.
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1.3 Emile Durkheim: la divisione del lavoro sociale
Per comprendere l’approccio durkheimiano all’economia è importante
innanzitutto sottolineare la critica che l’autore rivolge all’impostazione
individualista e utilitarista dell’economia ortodossa. Durkheim contesta il
fatto che tale disciplina fornisce una visione artificiale, falsa e riduttiva della
natura umana. Essa parla di homo oeconomicus, ossia di un attore che
compie azioni e scelte sulla base di calcoli razionali con il fine di
massimizzare la propria utilità. L’uomo, al contrario, è un animale
complesso, in quanto inserito in un contesto sociale e il cui agire economico
è primariamente agire sociale (Durkheim, 1893).
L’approccio individualista ritiene che la vita collettiva abbia origine dalla
vita individuale; tutto è ricondotto all’individuo in quanto esso è la causa
prima della realtà sociale. Durkheim ribalta tale impostazione in quanto
parte dall’assunto che è la realtà sociale che influenza l’agire. L’uomo cioè,
è inserito in un contesto in cui regole e istituzioni sociali dirigono il suo
comportamento.
Altro elemento di critica importante riguarda il fatto che, per l’Autore, non
tutta la società è ricondotta al contratto, anzi esistono elementi non
contrattuali, quali regole morali, costumi e norme giuridiche. L’ordine cioè
non è spiegabile unicamente dalla prospettiva utilitaristica, che lo riconduce
alla semplice convergenza degli interessi individuali, in quanto questi
creano dei vincoli troppo deboli e non forniscono una piena stabilità ai
rapporti sociali ma al contrario alimentano i motivi e le occasioni di
conflitto. Secondo l’Autore, infatti, esistono elementi pre contrattuali del
contratto, esistono cioè norme e regole sociali a carattere strettamente
vincolante che, in quanto tali, condizionano l’efficacia del contratto
L’Autore pensa, invece, che le istituzioni siano alla base dell’ordine sociale.
Esse non hanno origine contrattuale, ma sono frutto dell’interazione degli
individui e delle loro relazioni che con il tempo hanno dato frutto a regole e
norme condivise dall’intera collettività ed hanno un forte potere di influenza
sul comportamento dei soggetti. Tali istituzioni sono anche alla base della
vita economica in quanto i contratti tra individui e il loro agire sono
influenzati da norme sociali che li precedono (Durkheim, 1893).
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L’impostazione olistica che emerge da tale critica rileva che lo studio dei
fatti sociali, in cui vengono inclusi anche quelli economici, deve essere
focalizzato sull’analisi delle loro cause sociali; la divisione del lavoro,
quindi, non è legata a fattori esclusivamente individualistici e psicologici
che spiegano tale fenomeno in termini di maggiore produttività e benessere,
ma sono al contrario frutto di un processo sociale (Durkheim, 1893).
La divisione del lavoro caratterizza le società complesse, avanzate, ossia
quelle industrializzate che, in quanto tali, si differenziano da quelle che
l’autore denomina società semplici.
La società semplice è caratterizzata dalle piccole dimensioni, prevalgono
insediamenti “segmentati” che comportano scarse relazioni tra individui e
quelle esistenti sono di carattere omogeneo e si fondano su fattori di
somiglianza. Inoltre vi è una scarsa divisione del lavoro. L’ordine sociale è
fondato sulla solidarietà meccanica, a sua volta influenzata dalla coscienza
collettiva, ossia un insieme di credenza, opinioni, costumi, atteggiamenti
condivisi dai membri della collettività, tali elementi influiscono sull’agire
dell’individuo, plasmando l’autonomia e le scelte personali; l’ordine in tale
società è meccanicamente inteso in quanto generato dall’adesione, appunto
meccanica, a tali valori e norme condivise.
Le società complesse, invece, hanno la caratteristica di essere fondate su alti
tassi di mobilità geografica, urbanizzazione, crescente interazione tra
individui, una divisione del lavoro sempre più complicata e crescente. In
tale fase gli insediamenti non hanno più quel carattere segmentato e isolato
in quanto l’aumento della popolazione alimenta quella che l’autore definisce
“densità morale”. Questo aumento demografico, infatti, porta gli individui
ad uscire dal loro isolamento e ad intrattenere una pluralità di rapporti
sociali. Questa condizione sociale determina un’accentuata divisione del
lavoro in quanto ciascun individuo è portato a specializzarsi in un
determinato compito che è funzionale alla nuova società e alla sua
sopravvivenza.
Il passaggio dalle società semplici a quelle complesse comporta anche il
passaggio ad un nuovo modello di solidarietà quella organica.