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particolarmente rigide e vincolanti circa la gestione dei tempi di lavoro che
stabiliscono, di fatto, la non modificabilità della collocazione temporale della
prestazione e il divieto del lavoro supplementare. Emerse, inoltre, nettamente
l’idea che il legislatore del 1984 avesse individuato nel part-time, non una forma
contrattuale autonoma e con pari dignità rispetto al full-time, ma una fattispecie
riduttiva di tale ultimo rapporto. La norma iniziò poi a produrre un cospicuo
contenzioso cui la giurisprudenza ha provato (e tenta tuttora) a dare risposte non
sempre esaustive e soddisfacenti. Spesso finì al centro dell’attenzione della
magistratura l’obbligo di indicare, nel contratto di lavoro (scritto), la distribuzione
dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. Nel primo
periodo immediatamente seguente l’entrata in vigore del Dl. n. 726/1984, si notò
un certo rallentamento del già esiguo ricorso al contratto di lavoro a tempo
parziale. Il mercato del lavoro, in modo paradossale, aveva reagito all’entrata in
vigore della legge e alle sue stringenti condizioni limitando il ricorso al contratto
di lavoro part-time e manifestando, di fatto, nostalgia per il periodo in cui il
contratto non era regolamentato dalla legge. Gli anni successivi dimostrarono poi
tutta l’esiguità regolamentatrice della norma del 1984, mentre la contrattazione
collettiva iniziò a recepire il part-time appiattendosi tuttavia sui contenuti
legislativamente definiti.
Nel 1997 il lavoro a tempo parziale è stato per la prima volta oggetto di
disciplina a livello comunitario: viene emanata la direttiva comunitaria n.
97/81/CE che recepisce l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso
dall’UNICE (Unione delle Confederazioni europee dell’industria e dei datori di
lavoro dell’Europa), dal CEEP (Centro Europeo delle imprese a partecipazione
pubblica) e dal CES (Confederazione Europea dei Sindacati). Questa direttiva
comunitaria è recepita in Italia dal d.lgs. 25 febbraio 2000 n. 61 che procede a un
importante riordino della disciplina del lavoro part-time in termini di apparente
maggiore flessibilità, poi integrato e corretto dal successivo d.lgs. 26 febbraio
2001 n. 100.
L’ultima sostanziale riforma del lavoro a tempo parziale è contenuta nel d.lgs.
n. 276/2003, di attuazione della legge delega n.30/2003, la cosiddetta legge Biagi,
che ha apportato correzioni molteplici e di vario tipo alla normativa in materia,
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volte al ripristino del libero discernimento, nel tentativo di restituire alle parti e
alla contrattazione quella libertà di movimento necessaria per rendere
effettivamente il contratto part-time un fondamentale punto d’incontro degli
interessi dei lavoratori e delle imprese.
Ultima modifica in ordine di tempo è la legge 24 dicembre 2007, n. 247 che
interviene nuovamente introducendo norme di maggior favore relativamente al
passaggio dal lavoro a tempo pieno a quello parziale per i lavoratori affetti da
patologie oncologiche per i quali residui una ridotta capacità lavorativa e per i
familiari degli stessi lavoratori.
2. Le faticose armonie del part-time.
Analizzando il lavoro a tempo parziale da un punto di vista giuridico si nota la
sua debolezza “ontologica”: esso, infatti, non si definisce e non esiste per se
stesso, ma sempre in relazione a qualcos’altro da sé, vale a dire il contratto di
lavoro a tempo pieno. Testimonianza di questa originaria debolezza sono tutte le
identiche definizioni del lavoro a tempo parziale individuabili nella normativa
nazionale e sovranazionale: art.1 della Convenzione OIL n.175/19941, l’art.3 della
Direttiva 97/81/CE del Consiglio dell’Unione Europea e l’art.1 co.2 del d.lgs. 25
febbraio 2000 n.61 come modificato dall’art.46 del d.lgs. 10 settembre 2003
n.276.
Quando un’entità si definisce a mezzo di un’altra, è segno che tra le due non
esiste una differenza di sostanza, ma una mera diversità di quantità: è il caso del
discrimine tra il lavoro a tempo parziale e quello a tempo pieno, un discrimine
molto debole, ma di grande importanza, perché l’ordinamento lavoristico
presuppone tradizionalmente che solo situandosi nell’esatto punto corrispondente
al tempo pieno si possono soddisfare quelle esigenze di sussistenza e dignità
esistenziale garantite dall’art.36 della Costituzione.
L’ordinamento ha da sempre cercato di controbilanciare la relatività della
definizione con un consolidamento rigido della disciplina: che cosa sia il part-time
è scritto nei regimi contrattuali dei vari settori produttivi, eppure, una volta che la
fattispecie si è rivelata, viene in qualche modo cristallizzata attraverso la rigida
1
Vedi anche l’art.2 della Raccomandazione OIL n. 182/1994
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predeterminazione della durata e della collocazione temporale della prestazione
lavorativa. A questo punto è come se tempo parziale e tempo pieno, nonostante la
loro comune origine, si trovassero in mondi giuridici separati e diversi, tra i quali
la comunicazione diventa difficile. Ne è prova il fatto che l’ordinamento, pur
ritenendo preferibile per il lavoratore il modello del tempo pieno, guarda con
sospetto a quei fenomeni in virtù dei quali il part-time si espande fino a
trasformarsi in tempo pieno, come accade quando al lavoratore a tempo parziale
vengono richieste prestazioni supplementari o straordinarie. Sospetto che si
aggrava quando ad essere modificata è soltanto la collocazione e non l’estensione
della prestazione lavorativa.
Questo accade perché il lavoratore o la lavoratrice che ha stipulato un contratto
di lavoro a tempo parziale ha dovuto organizzare la sua vita in funzione di quello,
con riguardo tanto ad altre attività lavorative (magari indispensabili per
raggiungere un livello di sufficienza retributiva) quanto ad attività private, per cui
il suo interesse alla programmabilità del tempo restante è stato ritenuto meritevole
di un’adeguata tutela.
Tuttavia tutelare le condizioni dell’offerta non basta se non c’è una domanda.
Le imprese organizzate sulle classiche otto ore giornaliere, in primis quelle
industriali, non amano molto il part-time, che non soddisfa a pieno le loro
esigenze organizzative e anzi produce delle complicazioni in più: gestire un
ufficio con due addetti part-time è in linea di massima meno efficace che affidarlo
ad un unico addetto a tempo pieno. Le imprese (distribuzione commerciale;
alberghi, bar e ristoranti, e soprattutto l’agricoltura, dove il part-time è molto
diffuso2) che impostano la loro attività su cadenze giornaliere più ridotte e che
sono di conseguenza interessate all’istituto, sono esposte ad una certa variabilità
dei flussi di attività e necessitano quindi di poter aggiustare, in corrispondenza,
l’utilizzazione della forza lavoro. Dunque le imprese hanno bisogno di essere
invogliate, o con una politica d’incentivazione nei confronti dell’istituto o con un
regime normativo tale da consentire la possibilità di variare, a seconda delle
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Secondo il rapporto Istat del 2002 le percentuali di occupati part-time per settore di attività
economica erano le seguenti: agricoltura, silvicoltura e pesca 14,8%; industria 5%; servizi 10,7%;
commercio e ripartizioni 10,1%; alberghi e ristoranti 15%; trasporti e comunicazione 4,6%;
pubblica amministrazione 7,2%
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esigenze e del minor costo, l’estensione e/o la collocazione temporale della
prestazione lavorativa.
Questi sono gli interessi in campo, da una parte dell’offerta di lavoro e
dall’altra della domanda, ed è chiaro come la disciplina dell’istituto sia sempre
stata caratterizzata da una difficile ambivalenza, alla ricerca del giusto equilibrio
fra la tutela dell’interesse del lavoratore alla programmabilità del proprio tempo e
la tutela della flessibilità aziendale.
3. La normativa comunitaria sul part-time: Direttiva 97/81/CE.
Come detto la Direttiva 97/81/CE del 15 dicembre 1997 ha disciplinato per la
prima volta a livello comunitario il contratto di lavoro part-time. Il documento
invita gli stati membri ad identificare ed esaminare gli ostacoli di natura giuridica
ed amministrativa che limitino le opportunità di lavoro part-time e, nel caso, ad
eliminarli. Essa, poiché mira al raggiungimento della parità di trattamento tra i
lavoratori a tempo parziale e quelli a tempo pieno, ha contribuito nel contempo a
difendere le pari opportunità tra uomini e donne, essendo il part-time una
tipologia di lavoro altamente femminilizzata.
La Direttiva si sviluppa in sei clausole che ne esprimono le linee guida: la
prima clausola stabilisce la soppressione delle discriminazioni nei confronti dei
lavoratori a tempo parziale, mira a migliorarne la qualità del lavoro, favorirne lo
sviluppo su base volontaria e a migliorare la flessibilità del tempo di lavoro in
modo da tenere conto sia delle esigenze dei datori di lavoro che di quelle dei
lavoratori.
La seconda clausola stabilisce che la direttiva si applica ai lavoratori part-time
che abbiano un contratto o un rapporto di lavoro definito dalla legge, dalla
contrattazione collettiva o dalle prassi in vigore in ciascun Stato membro. Gli
Stati, dopo aver consultato le parti sociali, possono non applicare l’accordo ai
lavoratori a tempo parziale “occasionali”, tuttavia le esclusioni dovrebbero essere
riesaminate periodicamente per verificare che le ragioni oggettive che le hanno
determinate siano da ritenersi ancora valide.