2
Di fatto, oggi vi sono imprese nelle quali, sotto lo stesso tetto, operano
lavoratori inquadrati con una dozzina di contratti atipici differenti. Io
stessa sono stata, in tante occasioni ed in varie vesti, protagonista di
questa nuova realtà lavorativa: da collaboratrice a socia di una
cooperativa di lavoro, da dipendente a tempo parziale a lavoratrice in
affitto, fino a passare “dall’altra parte” divenendo selezionatrice di
lavoratori interinali, con contratto a tempo indeterminato. In questo
modo, ho avuto modo di guardare il fenomeno della flessibilità da più
angoli di osservazione e di verificarne aspetti positivi e negativi.
L’obiettivo di questa tesi è andare oltre la mia esperienza personale per
approfondire le ragioni, i contenuti e gli effetti del nuovo modo di
lavorare a livello più generale, al fine di raccogliere gli elementi
necessari per valutare se si è compiuto un passo verso il progresso o
verso la recessione sociale.
In particolare, il proposito è di mettere in luce alcuni aspetti della
flessibilità lasciati in ombra da dichiarazioni eclatanti come quelle a più
riprese pronunciate dall’attuale ministro del welfare Roberto Maroni nel
commentare i dati sull’occupazione degli ultimi anni; è del dicembre
2004 il seguente intervento, apparso sul sito del Ministero del Lavoro:
“Negli ultimi tre anni la disoccupazione in Italia è diminuita
costantemente nonostante una situazione economica internazionale
molto negativa.
3
Questo governo ha avuto il merito di riformare il mercato del lavoro,
dando vita ad una legge, la legge Biagi, che sta già dimostrando tutta la
sua validità.".
Non ultima è l’intenzione di capire come questa crescita
dell’occupazione possa conciliarsi con il dato Istat riferito al medesimo
periodo, che rivela invece lo stato di torpore dell’economia italiana.
Il mio contributo all’analisi del lavoro flessibile si compone di quattro
parti. Nel capitolo primo ho svolto un excursus storico degli ultimi trenta
anni, per individuare i fattori che hanno determinato il passaggio dal
lavoro “standard” al lavoro atipico; nel capitolo secondo, dopo una breve
esposizione dei profili concettuali relativi alle varie forme di flessibilità
del mercato del lavoro, ho analizzato la disciplina delle tipologie
contrattuali atipiche oggi più diffuse, evidenziando alcuni aspetti
dell’evoluzione dei singoli istituti; quindi, poiché la flessibilità è un
fenomeno giuridico di grande impatto sociale, nel capitolo terzo ho
svolto un’analisi sociologica del “mondo degli atipici” in tutte le sue
particolarità, esaminando le aspettative del lavoratore atipico, i suoi
percorsi lavorativi e personali, la sua integrazione nella società e nella
famiglia, con uno sguardo specifico alle categorie più deboli (le donne e
i giovani); infine, per verificare quanto rilevato nel capitolo terzo e,
soprattutto, per rispondere agli interrogativi di base mediante un
approccio più concreto ai temi della flessibilità, ho compiuto un’indagine
4
empirica sul territorio comasco proponendo a 100 “testimoni
privilegiati” un questionario sul lavoro atipico, appositamente ideato in
due versioni, una rivolta a lavoratori atipici e l’altra a datori di lavoro o
responsabili del personale: nel capitolo quarto descrivo le modalità di
svolgimento di questa doppia ricerca, i caratteri del contesto nel quale ho
effettuato le indagini nonché la sintesi ed il commento al complesso dei
dati emersi.
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CAPITOLO I
LE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO
1. Dal lavoro standard al lavoro atipico: la storia
in breve
Il lavoro costituisce un fatto economico di grande importanza sociale ed
individuale, dotato di speciale rilevanza giuridica, caratteristiche che gli
hanno conferito un ruolo centrale nel processo di sviluppo della società
contemporanea.
Fu soprattutto dalla seconda metà del ventesimo secolo, al termine della
fase di “ricostruzione” che seguì la fine dell’ultimo conflitto mondiale,
che in Italia la contrapposizione tra imprese e lavoratori assunse toni
sempre più rilevanti a causa dei fatti che andiamo a scorrere.
Il periodo che va dal dopoguerra all’inizio degli anni settanta, fu
caratterizzato da alti livelli di crescita, di produzione e di occupazione;
l'Italia conobbe una crescita senza precedenti: furono gli anni del boom,
del cosiddetto miracolo economico. I fattori che contribuirono a questa
grande crescita, tale da trasformare completamente il paese, furono
diversi: in primo luogo, l’opera di ricostruzione post-bellica che fece da
traino per l’economia, favorendo la ripresa; poi, la fine del
6
protezionismo
1
che, fino ad allora, aveva riparato la nostra economia
dalla concorrenza estera: l’industria italiana cominciava a registrare un
sufficiente livello di sviluppo tecnologico e, aprendosi alla concorrenza
estera, ricevette la spinta ad un ulteriore miglioramento che le permise di
confrontarsi col mercato degli altri paesi. Anche il basso costo del lavoro
contribuì al boom economico: l'alto numero di disoccupati che esisteva
in Italia in quegli anni nonché i salari poco elevati furono fattori
fondamentali di questa crescita. Infatti, mentre era aumentata la
produzione ed erano cresciuti i profitti, i salari avevano conosciuto un
incremento assai modesto, il che significava, quindi, costi ridotti per gli
imprenditori.
L’imponente sviluppo economico venne guidato, inoltre, dalla crescita di
settori quali l'industria metalmeccanica e l'industria elettrodomestica. Ma
lavatrici, frigoriferi e televisori venivano prodotti soprattutto per
l'esportazione, in quanto avevano ancora una scarsa possibilità di vendita
sul nostro mercato, il prezzo di questi beni era ancora troppo elevato per
i lavoratori italiani e solo in pochi potevano accedervi.
1
Il protezionismo fu uno dei fattori principali che determinarono in Italia, tra Otto e Novecento, la
prima vera rivoluzione industriale. Si spiega con il fatto che, negli ultimi decenni del 1800, l'Italia
introdusse severe imposte (dazi) cui erano soggette le merci provenienti dall’estero. Le merci
straniere, gravate di questi dazi, arrivavano sul mercato italiano a prezzi più alti rispetto a quelli delle
stesse merci italiane. Questa protezione dei prodotti nazionali, fece sì che si acquistassero i prodotti
italiani, stimolando la produzione, e quindi la crescita, in determinati settori economici.
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Ma, a ben vedere, il miracolo economico fu un fenomeno squilibrato; la
crescita toccò solo alcuni, senza tradursi in benessere per tutti: accentuò
infatti il divario e le differenze tra Nord e Sud poichè tutte le principali
fabbriche si concentrarono al Nord.
Questa crescita localizzata, avvenuta senza interventi statali finalizzati a
guidarla o a correggerne alcuni squilibri, provocò, in particolare sul
finire degli anni Cinquanta, un fortissimo movimento di popolazione
dalle regioni del Sud verso le regioni del triangolo industriale, soprattutto
il Piemonte e la Lombardia.
Città come Milano e Torino conobbero un'espansione notevole, senza
però essere fornite delle strutture e dei servizi necessari, come le case, le
scuole ed i servizi pubblici, condizione che creò una crescita delle
tensioni e del disagio degli immigrati. Venne calcolato che, tra il 1955 ed
il 1971, furono oltre 9 milioni gli italiani impegnati in queste
emigrazioni; ciò non significa che siano stati spostamenti definitivi, ma
la cifra indica chiaramente che un altissimo numero di persone emigrava
per inseguire delle speranze, per provare a migliorare la propria
condizione economica.
In quel periodo cambiò la società e si trasformò anche il lavoro nelle
fabbriche.
8
Proprio nel corso degli anni Cinquanta, soprattutto nel settore
meccanico, si realizzarono importanti cambiamenti: si diffusero le
macchine, il taylorismo
2
e la catena di montaggio, e mutò la figura tipica
dell'operaio. Gli operai specializzati diminuirono sempre più a fronte del
nuovo sistema di produzione che impiegava soprattutto operai semplici.
La catena di montaggio, infatti, introdusse una nuova organizzazione del
lavoro che prevedeva che i lavoratori fossero addetti ad una singola
operazione, ripetitiva, sempre uguale, il cui svolgimento poteva essere
appreso nel giro di pochi giorni.
E’ in tale contesto che si sviluppò il movimento operaio, la cui lotta di
emancipazione portò all'introduzione negli ordinamenti giuridici di una
sempre più ampia regolamentazione del lavoro subordinato.
Il nucleo più significativo della disciplina si caratterizzò, sin dagli inizi,
come legislazione marcatamente protettiva a favore dei lavoratori.
Si cominciò, pertanto, sia con l'intervento della legislazione statale, sia
con quello dei sindacati, a contenere le forme più intense di sfruttamento
2
Nel 1911, negli Stati Uniti, un ingegnere, Frederick Taylor, pubblicò un libro sull'organizzazione
scientifica del lavoro destinato ad avere un impatto fondamentale sulla società e l'economia mondiali
degli anni seguenti. La teoria, che prese il nome di “Taylorismo” sosteneva che il lavoro operaio si
può organizzare scientificamente, in base a leggi che, appunto come nelle scienze, siano valide sempre
ed in ogni contesto. Disponeva inoltre che l'organizzazione del lavoro operaio deve essere decisa da
specialisti e gli operai devono unicamente eseguire il lavoro sulla base delle indicazioni ricevute; che
era necessario studiare , nel lavoro dell'operaio, tutti i movimenti inutili, ed eliminare quindi i
movimenti falsi, inutili e pigri; che non sono più necessari gli operai specializzati, ma sono sufficienti
operai comuni che devono semplicemente svolgere un lavoro ripetitivo e monotono; che l'operaio non
debba aver più alcun contatto con il prodotto finito, poiché egli deve lavorare solo su una piccolissima
parte di questo prodotto e la sua attività è solo una piccola porzione del lavoro necessario a costruirlo.
Il Taylorismo introdusse così nel mondo del lavoro la catena di montaggio che prevedeva la
parcellizzazione, frantumazione e la rigida divisione del lavoro di fabbrica.
9
proprie della prima industrializzazione
3
e a disciplinare le condizioni più
elementari dei contratti di lavoro, fino all’affermazione giuridica del
modello di occupazione definito “standard”, sviluppatosi in Italia nel -
dell’efficienza e produttività imposti dalla concorrenza.
Nonostante tali conquiste, in quel periodo si affacciarono nuove
problematiche di ordine sociale e lavorativo. Le difficoltà che gli
immigrati meridionali si trovavano a vivere nelle città del Nord, le
contraddizioni del miracolo economico che non creava benessere per
tutti in quanto i salari continuavano a crescere molto meno dei profitti, il
lavoro sempre più ripetitivo, caratterizzato da tempi di esecuzione
sempre più stretti, portarono all’insorgere delle proteste operaie e quindi
agli scioperi degli anni Sessanta. A partire dall'autunno del 1969, quello
che verrà definito l'autunno caldo, crebbe un grande movimento di
protesta nelle fabbriche, che si unì a quello degli studenti che
reclamavano una scuola ed una università diversa e rinnovata. Coloro
che scioperavano chiedevano sicuramente l’aumento del salario, ma
anche un ambiente di lavoro salutare e più garanzie per i lavoratori nello
svolgimento di attività pericolose o malsane. Fino ad allora, chi svolgeva
3
Negli anni tra Otto e Novecento, l 'Italia conosce la prima "rivoluzione industriale": un decollo, con
una crescita sostenuta soprattutto nei primi 10-15 anni del 1900, che ha pesato soprattutto sulle spalle
dei lavoratori in quanto venivano costretti a ritmi di lavoro molto duri, con salari sensibilmente più
bassi di quelli di altri paesi europei. L'orario di lavoro medio era di circa 12 ore al giorno, che
potevano anche salire nella fabbriche più piccole. Per quel che riguarda i salari, possiamo dire che
erano di due tipi: a tempo (a ora o a giornata) o a cottimo, basato cioè sulla produzione effettivamente
svolta. Il salario a cottimo gradualmente cominciò a sostituire quello a tempo, per spingere i lavoratori
ad un aumento della produzione, a cui era legato il guadagno dei lavoratori.
10
lavori rischiosi, veniva semplicemente retribuito con qualche danaro in
più: ora, però, iniziava a rifiutarsi di continuare a vendere la propria
salute.
E' proprio grazie agli scioperi e alle lotte di questi anni che si giunge nel
1970 a varare una legge importante, tuttora in vigore: lo Statuto dei
lavoratori. Questa legge prevede tutta una serie di diritti rivendicabili sul
luogo di lavoro e legati alla condizione di lavoratore; una delle norme
più importanti riguarda il licenziamento che può avvenire,
contrariamente a ciò che era avvenuto fino ad allora, solo per una giusta
causa, chiaramente motivata.
Il periodo di crescita economica, iniziato, come abbiamo detto, verso la
metà degli anni Cinquanta, proseguì fino al 1973, quando i paesi più
sviluppati, compresa l'Italia, si trovarono coinvolti in una delle più gravi
crisi economiche dopo quella del 1929
4
: iniziò un successivo periodo,
definito di rottura, in cui l'andamento dell'economia fu altalenante e a
fasi di crescita seguirono nuove difficoltà, per conoscere poi lievi
riprese.
A scatenare la crisi fu l'aumento del prezzo del petrolio, che determinò
un aumento dei costi di produzione delle merci.
4
Il 24 Ottobre 1929 (venne chiamato il “giovedì nero”) crollava la Borsa di New York situata a Wall
Strett, sede del mercato finanziario mondiale. La crisi si allargò a macchia d’olio ed ebbe effetto sul
mondo intero.
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Si devono, poi, aggiungere i minori investimenti effettuati dagli
industriali in quegli anni, anche perché la perdita di profitti non poteva
più essere recuperata contenendo i salari dei lavoratori, dato che le
proteste dei lavoratori erano riuscite ormai ad ottenere dei miglioramenti
nelle paghe.
La nuova fase si caratterizzò per instabilità della crescita, inflazione ed
anche per disoccupazione. La domanda di lavoro si modificò
rapidamente a causa dell’introduzione della tecnologia nelle imprese,
della dislocazione territoriale delle stesse, nonché della comparsa di
nuove professioni. Queste trasformazioni, acceleratesi nel corso degli
anni ’80, bene descrivono i cambiamenti che le imprese subirono anche
nelle loro dimensioni e nei settori economici di intervento: così, infatti,
alla riduzione della grande impresa corrispose la diffusione della piccola
impresa, nel settore industriale ma, soprattutto, in quello terziario che
aumentò nella sua dimensione privata favorendo la crescita di una
“Società di Servizi” che richiese una riorganizzazione sociale e tecnica
del lavoro particolarmente complessa; si assistitette “al passaggio dalla
produzione di beni all’assolvimento di funzioni e bisogni, alla perdita di
entusiasmo per la quantità in favore della qualità, dal ricorso alle persone
per attività semplici e standardizzate al crescente impiego delle loro
conoscenze e delle loro capacità decisionali e creative”
5
.
5
Parricchi M., La formazione verso il 2000, in “Professionalità”, 44/1998.
12
A queste trasformazioni del sistema economico e produttivo occorreva
conformare sia i canoni del diritto del rapporto individuale di lavoro, che
quelli del diritto sindacale.
Oltre all’espansione del terziario, il fenomeno di erosione della centralità
del lavoro subordinato standard costituì l’indizio più vistoso delle
modificazioni del tessuto economico italiano degli anni ’80; ad esso è
seguita nel decennio successivo, a causa di tutta una serie di fattori che
vedremo, l’applicazione delle manovre finalizzate a generalizzare e
formalizzare la flessibilità del mercato del lavoro.
I cambiamenti tecnologici ed organizzativi, la fine della crescita
dell’occupazione nei settori tradizionali dell’industria, dell’agricoltura e,
repentinamente, anche dei servizi, hanno imposto una reazione più
rapida sia nell’adeguamento della forza-lavoro sotto il profilo
professionale, sia nel sostegno alla domanda di impiego che, pur
continuando ad essere formulata dai lavoratori nella sua accezione
tradizionale di lavoro a tempo pieno e continuo, si vedeva contrapposta
sempre più spesso all’offerta, da parte degli imprenditori, di posti che
richiedevano una prestazione parziale e comunque limitata nel tempo, se
non addirittura del tutto occasionale. Nel 1995, il sociologo Accornero
disse “stiamo uscendo da un’epoca in cui il mondo del lavoro e le
relazioni di lavoro avevano avuto un assetto uniforme, massificato e
quasi unificato e stiamo entrando in un’epoca in cui sia l’uno che le altre
13
tendono ad essere differenziate”
6
. Si è assistito, così, al superamento del
modello di lavoro dipendente a tempo indeterminato, stabile e di lunga
durata, esclusivo ed a tempo pieno, capace di contenere nel suo
involucro una carriera progressiva e lineare. Era ormai diventato
essenziale, sia per l’impresa manifatturiera che aveva decentrato alcune
fasi della produzione, come per l’azienda di servizi altamente
automatizzata, non solo ricercare le nuove professionalità, ma anche
immaginare una struttura contrattuale capace di incorporare una nuova
dimensione temporale e spaziale del lavoro.
L’introduzione della flessibilità nel mondo del lavoro ha sollecitato
l’interesse dello Stato che è voluto intervenire per disciplinare il
fenomeno in vista di un obbiettivo preciso: favorire la modifica delle
“regole del gioco” per assicurare l’incontro tra domanda ed offerta di
lavoro flessibile così da promuovere l’aumento dell’occupazione e la
ristabilizzazione del sistema economico. Tutto ciò in coerenza con quella
opinione prevalente che considera il complesso degli standard legali,
protettivi del “posto fisso”, un’importante causa di freno all’incremento
dell’occupazione: se la sicurezza del lavoro resta l’obiettivo primario per
i lavoratori, al contempo la protezione del “posto”, attraverso regole
giuridiche severe, costituisce un elemento di controproducente rigidità
del mercato del lavoro.
6
Accornero A., Ancora il lavoro: conversazione con Patrizio Di Nicola, Ediesse, Roma, 1995
14
E’ per tale motivo che possiamo affermare come, nell’epoca attuale, il
posto di lavoro fisso e vicino casa, configurante l’unica esperienza
lavorativa nel corso della vita, in grado di garantire una considerevole
liquidazione in denaro e la certezza di una pensione adeguata per poter
affrontare la vecchiaia nel modo più sereno, rappresentano consuetudini
sociali ormai obsolete, in quanto riservate sempre più a pochi.
15
2. Le tendenze in atto
Se il ventesimo secolo sarà ricordato come l’epoca del lavoro
standardizzato, massificato ed anonimo, il ventunesimo sta dimostrando
di aver maggior bisogno dell’uomo nella sua unicità, ma soprattutto di
un lavoratore “diverso” che sia partecipe nei risultati, consapevole del
suo compito e che ne sia profondamente coinvolto. Ma non solo, anche
le esigenze di mercato sono cambiate: come vedremo, le tecnologie
sempre più all’avanguardia e l’evoluzione di nuovi settori della
produzione richiedono la disponibilità di figure professionali competenti,
reattive ed adattabili alle richieste di flessibilità avanzate dalle imprese.
Queste trasformazioni stanno avendo importanti ripercussioni
sull’atteggiamento dei lavoratori rispetto al mercato del lavoro; la
necessità di adeguarsi ai processi di flessibilizzazione e di rivoluzione
del contesto socio-economico, spinge ciascuno a sviluppare la capacità
di inventare un proprio “itinerario” di vita e di lavoro, nel quale non
basta più solo saper esercitare un determinato mestiere, ma occorre saper
fronteggiare l’intervento di diverse variabili. Questa novità comporta
delle conseguenze sia in termini positivi che negativi: se da un lato si
aprono ampie occasioni per valorizzare le potenzialità professionali del
lavoratore, dall’altro la flessibilizzazione del lavoro comporta
l’indebolimento delle misure a tutela della stabilità ed il rischio dello
sconfinamento nel precariato.