Capitolo I
Introduzione
Il lavoro in Canavese
Il Canavese è situato nell’area nord-occidentale della Provincia di
Torino. A nord-ovest confina con la Valle d’Aosta, ad est con la Provincia
di Biella e la Provincia di Vercelli, a sud con la cintura del torinese. La
superficie è di circa 2.047,61 Kmq. conta 133 Comuni di cui 130
appartenenti alla Provincia di Torino, 2 alla Provincia di Biella e 1 alla
Provincia di Vercelli. Al 28/02/2009 la popolazione era di 335.367abitanti
1
con una densità di 164 persone per kmq.
1
http://it.wikipedia.org/wiki/Canavese
~ 6 ~
Ad inizio Novecento la popolazione del Canavese era di circa
183.550 abitanti di cui il 45% impiegato nel settore agricolo e il 18%
2
nell’industria e nel commercio e il resto non occupato. Era molto diffusa
la coltivazione del baco da seta, affidata a donne e bambini, che costituiva
una fonte aggiuntiva di reddito per le famiglie contadine. Il commercio era
limitato con scambio di prodotti a livello intercomunale, soprattutto con il
territorio di Biella e quello di Torino. Sussistevano piccole attività
imprenditoriali a conduzione familiare. Vi erano diversi mulini, peste per la
canapa, frantoi, piccole fucine ed attività artigianali quali per esempio la
lavorazione del ferro, del rame, della terra cotta e ceramica presenti
principalmente nelle vicinanze di CuorgnØ, Pont Canavese e Castellamonte.
A fine Ottocento la lavorazione del cotone divenne una vera e
propria attività industriale, i piccoli opifici a conduzione familiare vennero
ben presto soppiantati dalle grandi fabbriche che si localizzarono nel
Canavese. La lavorazione artigianale ed in particolar modo quella casalinga
rimase viva per un certo periodo grazie ad un sistema di lavorazione su
commissione. La materia prima veniva reperita da mercanti che alcune
volte fornivano anche i telai e venivano a ritirare il tessuto ultimato. Questa
tessitura era svolta principalmente da donne. Negli anni sessanta del
Novecento erano ancora presenti tessitrici nei pressi di CuorgnØ.
AgliØ, CuorgnØ, Rivarolo Canavesese, Pont Canavese divennero sedi
di importanti manifatture che caratterizzarono la vita e l’economia di
questa terra per anni, rendendola, per consistenza di impianti e numero di
addetti in fabbrica, uno dei poli industriali piø importanti dell’industria
2
GARINO D., I padroni industriali del Canavese tra l’800 e il ‘900, in “Bollettino” n° 18, 1992
~ 7 ~
cotoniera nazionale in grado di rivaleggiare quasi alla pari con le piø
3
tradizionali ed assestate zone cotoniere del Verbano e del Novarese.
Castellamonte fu, ed è ancora oggi, famosa per la lavorazione della
terracotta e della ceramica, per la costruzione delle stufe. I pignater erano
artigiani che producevano per lo piø terraglie, stoviglie, utensili per forni,
vasi e vasellame da cucina conosciuti come “pignatte di Castellamonte”
4
caratterizzati dal colore rosso tipico dell’argilla locale.
Foto 1: la pignatta di Castellamonte in piemontese la “tofeja”
Fonte: archivio personale
3
AA. VV., La manifattura di Cuorgnè. Storia e archeologia di una grande industria, CORSAC edizioni,
Cuorgnè, 1995, p. 12
4
ARGENTERO R., Quando in Canavese esistevano le “grandi” fabbriche, Hever Edizioni, Ivrea, 2006, p. 27
~ 8 ~
Foto 2: Stufa di Castellamonte fatta a mano
Fonte: archivio personale
~ 9 ~
Verso fine Ottocento esistevano circa 50 botteghe di ceramisti. Questo
periodo vide una grande diffusione della stufa di Castellamonte, creata con
varie decorazioni e diversi colori divenendo un vero e proprio oggetto
d’arredamento. La buona resa termica, il basso costo del legno ed i prezzi
all’epoca ancora contenuti delle stufe ne favorirono una larga diffusione in
tutto il Piemonte e fuori. Nel Novecento il mercato delle stufe entrò in crisi
in seguito alla diffusione del riscaldamento.
Ad Ivrea, erano presenti attività metallurgiche , fonderie, distillerie
e, da inizio Novecento anche l’Olivetti.
Cave e fornaci erano presenti a Pont Canavese, Lessolo, Montalto.
L’industria estrattiva era localizzata in Val Chiusella: presso il
Comune di Traversella vi erano miniere di ferro e rame con le relative
fonderie, a Brosso si trovavano le miniere di pirite con oltre 80 specie
mineralogiche, alcune molto rare, come ad esempio la canavesite di cui la
miniera di Brosso era località tipo.
~ 10 ~
1.2 Il lavoro delle donne in Canavese
Le attività tipicamente femminili si distinguevano rispetto a quelle
maschili per alcuni elementi fondamentali: un salario peggiore e una
minore autonomia, erano lavori contigui alle attività domestiche. L’attività
di domestica, ad inizio Novecento, ebbe un trend positivo, difatti il
personale femminile aumentò da 391.985 unità del 1881 a 400.948 del
1901. La professione di “serva” era tipica delle giovani contadine presenti
in famiglie numerose, che furono indotte a questa occupazione dal
capofamiglia per ottenere una piccola entrata aggiuntiva di denaro e avere
“una bocca in meno da sfamare”, in quanto spesso questo lavoro prevedeva
5
il vitto e l’alloggio presso i padroni.
In ogni tipo di lavoro che le donne svolgevano, il salario loro
assegnato risultava minore rispetto a quello maschile. Analizzando il
periodo dal 1850 al 1961 si evidenzia come i salari femminili
6
ammontassero dal 40% al 64% di quelli maschili.
Su scala nazionale le maestranze femminili adulte impegnate
nell’industria cotoniera passarono da 27.250 nel 1876 a 82.932 nel 1902, la
manodopera maschile negli stessi anni passò da 13.939 a 34.738. Il lavoro
minorile, sotto i 15 anni, passò invece da 11.174 del 1876 a 4.458 ragazzi e
7
13.170 ragazze nel 1902.
Nel Canavese vi era una popolazione in esubero rispetto alle modeste
richieste delle imprese locali e quindi disponibile per costituire una classe
5
GROPPI A. (a cura di), Il lavoro delle donne, Laterza edizioni, Bari, 1996, p. 323
6
GROPPI A. (a cura di), Il lavoro delle donne, Laterza edizioni, Bari, 1996, p. 332
7
MAHER V., Tenere le fila. Sarte sartine e cambiamento sociale 1860 – 1960 , Rosenberg & Seller
edizioni, Torino, 2007, p 67.
~ 11 ~
operaia. Per lavorare negli opifici non venivano richieste competenze
specifiche, la forza lavoro era formata in fabbrica. Venivano assunte donne
e minori per il minor costo della manodopera. Prima dell’impianto dei
grandi opifici, l’attività tessile era vista come attività integrativa a quella
agricola che restava la principale. Le donne venivano impegnate nella
gestione domestica e nella tessitura e gli uomini nell’agricoltura. Il
capofamiglia manteneva il ruolo di mediatore con il mercato sia agricolo
che tessile. Ovviamente il lavoro all’interno della comunità familiare era
“privo di salario” per le donne. La situazione cambiò con l’avvento dei
cotonifici, che concentrarono la richiesta di manodopera, per motivi di
economicità, sulle forze lavoro femminili che quindi si trovarono a disporre
di un salario, anche se minimo, in prima persona e questo creò
psiclogicamente un senso di indipendenza. La forza lavoro femminile tipica
dei cotonifici era principalmente formata da donne sole, non coniugate,
8
con una forte percentuale di ragazze giovani con meno di 15 anni.
Le donne erano principalmente impiegate nella Manifattura
9
Mazzonis di Pont Canavese, nella Manifattura di CuorgnØ, nel Cotonificio
Valle di Susa di Rivarolo Canavese, e nella De Angeli – Frua di AgliØ ed in
altre manifatture di piø piccole dimensioni presenti in Canavese.
Donne canavesane, specie in giovane età, erano anche occupate nelle
sartorie presenti fra Torino ed Ivrea. Venivano avviate a questa professione
in età giovanissima erano definite cite e svolgevano lavori decisamente
poco qualificanti, andavano a comperare i fili, raccoglievano gli spilli e gli
avanzi di stoffa che si perdevano nei locali, provvedevano alle consegne
8
MAHER V., opera citata, p. 71.
9
LEVI F., L’idea del buon padre, Rosenberg & Seller edizioni, Torino, 1984, p.69
~ 12 ~
della merce e facevano le pulizie dei locali. Passato questo periodo
diventavano “sedute” o fancell. Era loro compito cucire gli orli dei capi
confezionati dalle lavoranti piø esperte. Le piø brave e svelte, dopo diversi
anni, potevano ambire, prima alla posizione di sarta e per le piø fortunate in
10
un secondo momento a quella di premiere o capo sarta.
Tabella 1: Stipendi giornalieri in lire anno 1910
Tipo di sartoria Lavoranti Aiutanti Apprendisti Giorni
lavorativi
Grande 2,75 1,41 0,45 227
Piø di 35 dipendenti
Media 2,30 1,14 0,45 235
(11 – 35 dipendenti)
Piccola 2,26 1,04 0,32 260
(6-10 dipendenti)
Piccolissima 1,66 0,97 0,32 280
(meno di 5 dipendenti
Fonte: elaborazione dati da MAHER V., Tenere le fila. Sarte sartine e cambiamento sociale
1860 – 1960
Al di fuori dei settori precedentemente citati l’impiego di forza
lavoro femminile avvenne anche presso la Olivetti d’Ivrea a partire dai
primi anni del ventesimo secolo.
10
MAHER V., opera citata, p. 77
~ 13 ~
Capitolo II
Aziende del Canavese
2.1 Il Cotonificio Vallesusa: cenni storici
La Società Anonima Cotonificio Valle di Susa fu costituita a Torino
il 4 dicembre 1906. Oggetto dell’attività erano la lavorazione e il
commercio del cotone e dei materiali affini. Il capitale sociale venne
sottoscritto da Emilio Wild, Augusto Abegg, Carlo Abegg Arter, la Banca
11
Commerciale Italiana e la SocietØ de Credite Suisse. Nel 1914 la ragione
sociale venne modificata in “Cotonificio Valle di Susa di A. Abegg e C.” e
nel 1923 divenne Società anonima per Azioni “Cotonificio Valle di Susa”.
Negli anni successivi quest’ultima acquisì altri complessi industriali
piemontesi fra cui il “Cotonificio Moncenisio” (1916), il “Cotonificio di
Perosa Argentina” (1939). Tra il 1939 e il 1941 furono incorporati gli
stabilimenti di Rivarolo Canavese (Tessitura), Caluso (Filatura) e San
Giorgio (Manifattura); il “Cotonificio di Strambino” venne invece acquisito
12
nel 1954. Al termine della seconda guerra mondiale il Cotonificio Valle
di Susa controllava una trentina di stabilimenti, il capitale era quasi
totalmente di proprietà svizzera, Werner Abegg ne era il direttore generale.
Nel 1947 si diffusero voci che gli Abegg erano intenzionati a vendere gli
stabilimenti. Si fece avanti Giulio Riva, neoconsigliere, che dal 1954 ne
divenne proprietario. La direzione del Cotonificio Valle di Susa passò
11
CASTRONOVO V., L’industria cotoniera in Piemonte nel secolo XIX, ILTE Edizioni, Torino, 1965, pp. 220-
221
POCCHIOLA VITER M. T., Cotonifici … a rotoli, Angolo Manzoni Edizioni, Torino, 2002, p. 8
12
ARGENTERO R., Quando in Canavese esistevano le “grandi” fabbriche, Hever Edizioni, Ivrea, 2006
~ 14 ~
dunque a lui e nello stesso periodo venne nuovamente cambiata la ragione
sociale in “Società per Azioni Cotonifici Valle di Susa”, con direzione in
Corso Re Umberto 54 a Torino. Il cotonificio era allora la piø grande
azienda non metalmeccanica del Piemonte, vantava 18 stabilimenti e dava
13
lavoro a circa 10.000-12.000 persone di cui il 75% donne.
Un ventennio dopo, il 5 ottobre 1965, il Cotonificio Valle di Susa
fallì e sebbene tutto il settore tessile vivesse allora un momento di gravi
difficoltà, gran parte della responsabilità del tracollo fu da imputare
all’imprenditore Felice Riva, figlio di Giulio, accusato di bancarotta
fraudolenta aggravata (con una perdita di quarantasei miliardi) e ricorso
abusivo al credito. In seguito al fallimento rimasero senza lavoro e senza
14
salario per mesi circa 9.000 dipendenti. I retroscena di questo fallimento
non vennero chiariti neppure durante il processo, che terminò ben ventisei
anni dopo, nel 1991, con il pagamento degli ultimi creditori chirografari
rimborsati all’80% dell’esposizione (ma ai valori dell’epoca non
15
rivalutati). La crisi che portò al fallimento dell’impresa era iniziata nella
seconda metà degli anni cinquanta, quando si era fatta sempre piø pressante
la concorrenza dei mercati asiatici (India, Cina, Giappone, Russia). La
congiuntura mondiale negativa aveva portato in Italia a un’inevitabile
riorganizzazione della produzione, con riduzione del personale, che tuttavia
non era stata sufficiente a fermare il declino del settore cotoniero. Nel caso
del Cotonificio Vallesusa, dopo la chiusura di diversi stabilimenti (Caluso,
Bussoleno, Pessinetto) quelli restanti furono acquisiti dall’E. T. I. (Esercizi
Tessili Italiani) S. p. A., un consorzio creato fra “SNIA Viscosa”,
13
CASTRONOVO V., opera citata, p. 83 nota 8
14
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata, p. 13
15
C. L., Un crac durato 26 anni, Corriere della sera del 3 gennaio 1992, p. 17
~ 15 ~
“Chatillon”, “FIAT”, “Pirelli”, “Montedison” con una partecipazione di
16
capitale pubblico di circa il 20% (Mediobanca.). La cordata avviò la
gestione del nuovo complesso dal marzo 1966. In questo modo per 5.000
degli 8.000 lavoratori fu possibile conservare il posto di lavoro mentre per
gli altri fu avviato il prepensionamento e il versamento dell'indennità di
liquidazione si fece attendere per qualche anno. Il curatore fallimentare
dovette realizzare i crediti e vendette i beni di proprietà aziendale; il
Consorzio s’impegnò a gestire il gruppo per cinque anni. Negli anni
successivi tutti i soci, ad esclusione della Montedison, tramite la controllata
Montefibre, si ritirarono. La Montefibre rimase così l’unico azionista e
diventò proprietaria di una struttura che contava ancora nove stabilimenti
(Perosa, Susa, Borgone, Collegno, Lanzo, Mathi, Rivarolo Canavese,
Strambino e Sant’Antonino). Nel 1971 si ebbe l’ennesimo cambiamento
della ragione sociale: il complesso divenne “Vallesusa Industrie Tessili”.
Venne varato un piano di ristrutturazione con investimenti di circa
diciassette miliardi di lire per l’ammodernamento e la razionalizzazione
della capacità produttiva, puntando alla specializzazione (per esempio lo
stabilimento di Rivarolo doveva specializzarsi nella tintoria e nel fissaggio
tessile). L’obiettivo finale era il risanamento economico entro il 1974. Ma
le ristrutturazioni, previste sulla carta, non vennero mai concretamente
avviate, peggiorando così ancora di piø la già grave situazione finanziaria e
creando deindustrializzazione nelle valli torinesi e contrazione
dell’occupazione femminile.
Nel mese di ottobre del 1975, la Montefibre avviò il processo di
liquidazione della "Vallesusa Industrie Tessili” portando così alla
disgregazione finale di quella che era stata una delle piø importanti realtà
16
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata, p. 121
~ 16 ~
industriali del Piemonte nel settore tessile. Il patrimonio immobiliare venne
ceduto a privati o ad enti pubblici come i Comuni.
2.1.1 La condizione lavorativa femminile
Come si è detto, circa il 75% della forza lavoro del gruppo era
costituita da donne. Per piø di mezzo secolo le lavoratrici vennero adibite
anche a lavori faticosi. Erano donne residenti nei comuni limitrofi o
immigrate. Queste ultime erano considerate piø facilmente adattabili a
causa della loro bassa scolarizzazione. Molte di loro iniziavano a lavorare
giovanissime (12 - 14 anni) e avevano poca esperienza di lotta sindacale.
Di conseguenza, pur in presenza di azioni intimidatorie dei padroni, la
manodopera femminile non riusciva ad elaborare una coscienza di classe e
a far valere le proprie rivendicazioni. Questa situazione si protrasse anche
nel secondo dopoguerra poichØ, in mancanza di tutele legali, riusciva
difficile la formazione di processi di sindacalizzazione per la difesa e la
tutela dei diritti delle lavoratrici. Il timore di perdere il posto di lavoro
vicino a casa contribuì anch’esso a limitare le iniziative di lotta. La
manodopera femminile fu per anni sfruttata, in particolar modo dalla fine
17
della seconda guerra mondiale fino agli anni sessanta. Le condizioni
lavorative femminili si differenziavano a seconda del settore in cui erano
impiegate. Si avevano situazioni diverse anche nelle diverse fasi della
lavorazione: la tessitura e la filatura. In quest’ultima lo sfruttamento era
maggiore; anche perchØ il lavoro era semplice e ripetitivo e consentiva
l’impiego di ragazze anche molto giovani. La filatura avveniva in locali piø
17
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata
~ 17 ~
polverosi rispetto a quelli della tessitura, nella quale si compivano diversi
18
tipi di operazioni: dalla preparazione della trama e dell’ordito alla
creazione del tessuto.
Le operaie in tessitura erano però gravate anche da altre mansioni, che
andavano dalla pulitura dei macchinari e delle sale di lavoro a piccoli
interventi sulle macchine da effettuarsi in caso di necessità per evitare
intasamenti dei fili nei meccanismi, operazioni queste che spesso erano
causa d’infortuni per la completa assenza di norme di sicurezza. Al di là
della durezza delle condizioni del lavoro femminile nelle fabbriche, il
giudizio dell’opinione comune e, in particolar modo degli organi
ecclesiastici, risultava negativo nei confronti delle donne che lavoravano
fuori dalle mura domestiche. Si continuava infatti a ritenere naturale la
divisione dei ruoli lavorativi fra uomini e donne e la destinazione della
donna alle cure familiari. Il lavoro femminile fuori dalle mura domestiche
era considerato come un “grave male sociale” e i datori di lavoro venivano
invitati dalla Chiesa locale a non impiegare donne sposate per non
19
distoglierle dalle cure domestiche. Bisognerà attendere il Concilio
Vaticano II per vedere un rinnovamento dell’analisi del mondo operaio.
18
l' ordito o catena, è l'insieme di fili tesi sul telaio; la trama è l’unico filo che percorre da una parte
all'altra l'ordito.
19
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata, p. 23 nota 56 (G. ZARRI, La memoria di lei, Torino, SEI, 1996, p.
9)
~ 18 ~
La diversità di trattamento fra uomini e donne appare ancora piø
marcata se si analizzano le posizioni aziendali strategiche. L’egemonia
maschile è evidente sia per quanto concerne le mansioni aziendali, sia per
le retribuzioni che erano sensibilmente diverse fra uomini e donne. In ogni
caso i salari, anche maschili, del Cotonificio Vallesusa erano inferiori alla
20
media di quelli corrisposti nel settore in Piemonte. Gli uomini ricoprivano
ruoli importanti: erano dirigenti, capi reparto, impiegati, manutentori e
avevano buone possibilità di carriera. Alle donne tutto ciò era quasi sempre
precluso, se non in sporadici casi quando diventavano “maestre” o, in casi
ancora piø rari, impiegate. Diventavano maestre le lavoratrici piø abili e
svelte. Il loro compito era quello di coordinare e distribuire il lavoro di sei-
dieci apprendiste e controllare i filati realizzati. Percepivano un salario
superiore a quello delle altre lavoratrici in quanto avevano maggiori
responsabilità. Le condizioni lavorative, come si è detto, erano pessime: il
piø delle volte i macchinari, troppo alti per le stature delle addette,
provocavano deformazioni della colonna vertebrale che nelle meno
21
fortunate intervenivano già in giovane età.
Importante nel reperimento di manodopera femminile fu il fenomeno
migratorio. Dal Nord Est d’Italia (regioni venete) si ebbero significativi
spostamenti di ragazze spesso solo dodicenni, che erano condotte in
convitti il piø delle volte costruiti dai Cotonifici stessi, ma gestiti da organi
religiosi. Si trattava di ragazze provenienti da famiglie di contadini o
20
Secondo quanto riportato nel testo dalla Pocchiola, al Cotonificio Vallesusa, il salario medio orario per
un operaio di II categoria, alla fine degli anni cinquanta, era di 172 lire, le operaie della stessa categoria
ne percepivano 158. Anche i quotidiani si occuparono dei CVS. La Gazzetta del popolo scrisse che i salari
del Vallesusa erano “inferiori a quelli del cotonificio Leumann e di molte altre aziende del Chierese; la
media salariale mensile non supera le 32.000. ( M. T. POCCHIOLA VITER, opera citata, p. 93 nota 37 “La
Gazzetta del Popolo”, 8 febbraio 1961.)
21
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata, p. 36
~ 19 ~
mezzadri con parecchi figli, dai quattro ai dieci. Per nuclei famigliari così
numerosi un salario aggiuntivo al lavoro nell’agricoltura poteva significare
la sopravvivenza. Nei convitti le giovani venivano ospitate spesso assieme
a sorelle, ma anche qui le condizioni di vita erano dure e lo sfruttamento
non mancava. Erano limitate le possibilità di incontro tra le ospiti, ridotta o
censurata la corrispondenza epistolare, vigevano rigide regole di
comportamento e di abbigliamento, gli spazi personali a disposizione erano
angusti e le pratiche religiose quotidiane erano obbligatorie. Una parte del
salario veniva trattenuta direttamente dalle suore per il vitto e l’alloggio
forniti. Negli anni cinquanta dal salario, che ammontava in media a 14.000
lire al mese ed era destinato quasi totalmente alle famiglie delle convittrici,
venivano detratte circa 9.300 lire per l’alloggio e il vitto, che era spesso
carente. In aggiunta venivano detratte le spese per il bucato, le divise, spese
varie mensili che venivano scrupolosamente annotate dalla madre superiore
su un registro. Così a fine mese poteva accadere che le convittrici
22
maturassero un debito di 2.000 – 3.000 lire. Le ragazze in aggiunta
dovevano svolgere quotidianamente precise mansioni domestiche come
allevamento e cura degli animali da cortile, pulizia delle aree comuni ed
altre ancora.
Le relazioni delle ragazze con le suore si basavano su un rapporto di
subordinazione e deferenza. Le istituzioni ecclesiastiche, in particolar
modo le parrocchie, vista la loro presenza organizzata e articolata sul
territorio, ricevevano informazioni dal padronato sulle possibilità
d’impiego di manovalanza femminile e indirizzavano le giovani dove vi era
richiesta di manodopera. Facevano da filtro e garanzia nelle assunzioni,
22
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata, p. 45. Nota 41 testimonianza di Marcella D’Amelio.
~ 20 ~
23
operando come dei veri e propri uffici di collocamento. Nei luoghi di
lavoro i modelli religiosi tipici dell’Ottocento furono applicati fino agli
anni cinquanta del Novecento. Si basavano su un’idea di convivenza
armonica e di accettazione degli assetti sociali vigenti. Tali schemi
chiedevano alle convittrici operaie grande impegno lavorativo e spirito di
servizio a scapito della formazione di una coscienza di classe. In tal modo
24
venne evitata la percezione dello sfruttamento. Sebbene le disparità e le
inferiorità salariali creassero malcontenti, negli anni immediatamente
successivi al secondo conflitto mondiale, le maestranze si adattarono a tale
regime pur di avere un salario sicuro. Negli anni cinquanta per migliorare
la situazione di scontentezza il padronato concesse delle liberalità; così a
chi aveva una anzianità di servizio almeno ventennale e durante la guerra
non aveva abbandonato gli stabilimenti vennero concessi sussidi dalle
2.000 alle 3.500 lire. Vennero altresì versate integrazioni alla pensione agli
25
ex dipendenti; alle donne in maternità furono donati corredi per i piccoli.
Nel primo dopoguerra furono introdotte a livello nazionale nuove norme
legali volte ad abolire le diseguaglianze di genere, che ebbero il loro apice
con l’introduzione del suffragio universale e nel 1948 con la
promulgazione della Costituzione Italiana. Tuttavia per molto tempo tali
principi non vennero recepiti nei luoghi di lavoro per la resistenza al
cambiamento dei poteri costituiti e per la forza coercitiva della controparte.
Furono necessari scioperi e lotte anche in forma articolata per vedere
riconosciuti tali diritti. Solo nel 1964 fu firmato il contratto nazionale dei
23
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata, p. 46
24
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata, p. 48
25
POCCHIOLA VITER M. T., opera citata, p. 53
~ 21 ~
lavoratori tessili e venne riconosciuta alle lavoratrici la stessa retribuzione
percepita dagli uomini a parità di mansione. Fu questo il momento in cui
finalmente venne applicato il principio di parità retributiva uomo-donna.
Tale conquista avvenne però in un momento in cui la crisi del settore tessile
e la conseguente ristrutturazione portarono ad una profonda riduzione del
numero di operai e operaie. Paradossalmente questa importante conquista,
per le lavoratrici risultò negativa perchØ non fu piø conveniente per le
aziende impiegare personale femminile che fino a quel momento aveva
costi minori rispetto al personale maschile.
~ 22 ~
2.2 La Società De Angeli–Frua di Agliè: cenni storici
La "Società Anonima De Angeli-Frua, per l'industria dei tessuti
26
stampati” venne fondata a Milano il 14 novembre 1925. a seguito della
trasformazione della ragione sociale della “Società Anonima Italiana
Ernesto De Angeli per l’Industria dei Tessuti Stampati”.
26
http://www.perfiloepersegni.it/allegati/Scheda%20Azienda%20de%20angeli%20frua.pdf
~ 23 ~