caso olandese riguarderà le caratteristiche del lavoro a tempo determinato,
interinale e part-time. Seguirà il confronto tra lavoratori permanenti, temporanei
e interinali, la probabilità che le imprese offrano lavori temporanei o part-time e
le transazioni da contratti temporanei a permanenti. Nel quarto capitolo saranno
indicati i mutamenti delle forze lavoro dal 1993 al 2001, la distribuzione
territoriale d’ogni singola forma atipica e la sua evoluzione dal 1998 al 1999,
(per il lavoro interinale, i dati sono integrati con quelli del 2000, tratti da
Confinterin), i nuovi contratti non sono distribuiti uniformemente nel territorio
nazionale. Una parte di questo capitolo sarà dedicata alla regione in cui i
contratti atipici sono maggiormente diffusi: la Lombardia la quale è
caratterizzata da una maggiore femminilizzazione del part-time, crescita dei
contratti di collaborazione e bassa diffusione del lavoro a termine. Quest’ultimo,
a differenza del resto del Paese, è maggiormente utilizzato per esigenze di
formazione che come contratto stagionale. Saranno presentati due casi: le
collaborazioni coordinate e continuative nella provincia di Modena (una città
con un numero elevato di collaboratori) e le caratteristiche del lavoro atipico
nella provincia di Piacenza. Nel primo caso saranno indicate le caratteristiche
biografiche dei collaboratori, le mansioni svolte, i canali attraverso i quali è stato
ottenuto un impiego in questa forma e le traiettorie occupazionali. Nel secondo
caso sarà trattata l’evoluzione degli anni novanta, nella provincia di Piacenza,
dei contratti d’apprendistato, di formazione e lavoro, dei lavori socialmente utili,
delle collaborazioni e del part-time.
Infine, il quinto capitolo tratterà la valutazione dei nuovi contratti atipici
secondo la domanda e l’offerta di lavoro: quindi i motivi d’utilizzo di queste
forme da parte delle imprese e dei lavoratori, il livello di soddisfazione delle
imprese per le discipline, le necessità di formazione e il livello di flessibilità di
questi contratti, le mansioni svolte dai dipendenti atipici, le caratteristiche
biografiche di questi dipendenti e le nuove esigenze di tutela.
Capitolo I Introduzione del lavoro atipico in Italia
I 1 Aspetti definitori
E’ difficile definire il lavoro atipico perché questo è individuato per differenza
rispetto alle prestazioni di lavoro considerate “tipiche”. Spesso questo concetto è
applicato a fenomeni diversi che coincidono solo in parte, a seconda dei diversi
obiettivi d’indagine di chi analizza l’occupazione. Il lavoro atipico è diverso dal
lavoro irregolare o svolto nel cosiddetto settore informale. Anzi, chi lo sostiene è
convinto che possa fare emergere una parte dell’economia sommersa,
rimuovendo le rigidità istituzionali del mercato del lavoro. La definizione è data
da Frey e Livraghi, secondo i quali è una forma di lavoro regolare che può
svolgersi in modo dipendente o autonomo. L’atipicità del lavoro dipendente è
data dall’assenza di stabilità o da un orario inferiore rispetto a quello
ordinariamente previsto dai contratti collettivi, mentre l’atipicità del lavoro
autonomo è data dall’assenza di partita IVA. I lavori atipici più diffusi sono i
contratti a tempo determinato, i lavori socialmente utili, quelli di collaborazione
coordinata e continuativa, il lavoro interinale, quello a domicilio, il part-time, e
il telelavoro. Tra i contratti a tempo determinato si hanno quelli con finalità
formative: di formazione e lavoro, d'apprendistato. Sono comprese nella
definizione anche alcune forme che non si configurano come rapporto di lavoro:
rapporto di tirocinio formativo o stage, piani d’inserimento professionale, borse
lavoro.
I 2 Trasformazioni strutturali e flessibilità
L’esigenza di flessibilità del lavoro è una conseguenza delle trasformazioni
strutturali che in questo periodo interessano tutti i Paesi avanzati. Prima di
parlarne ritengo opportuno ricordare che l’introduzione dell’occupazione
standard è abbastanza recente:
1
è avvenuta in Italia negli anni Sessanta, quando il
“miracolo economico” ha permesso a lavoratori di grandi fabbriche di
conquistare garanzie normative per rendere stabile e proteggere il rapporto di
lavoro a tempo indeterminato, prima questi lavoratori erano soggetti alla
massima instabilità non coperta dal possesso di competenze professionali.
Tra le varie trasformazioni, le più importanti
2
sono: l’integrazione dei mercati, il
progresso tecnico e il cambiamento strutturale dell’economia.
In questo periodo alcuni studiosi parlano di terza rivoluzione industriale perché
le innovazioni tecnologiche avvengono continuamente e a ritmi accelerati.
Queste, pur avendo anche ricadute sulle produzioni industriali, derivano dalle
necessità crescenti e sempre più specifiche delle attività terziarie. Queste
richiedono alta intensità di ricerca e di qualificazione del capitale umano. In
particolare riguardano innovazioni nel settore delle comunicazioni e nel
trattamento delle informazioni di cui l’esempio più notevole è dato da internet.
Questa è una rivoluzione tecnologica basata sull’”economia della conoscenza”,
determina cambiamenti di modi di produrre, di stili di vita, di modelli di
consumo, dell’organizzazione produttiva del lavoro e la nascita di nuove figure
professionali.
Il cambiamento strutturale dell’economia porta ad un sistema basato sulle
attività terziarie, di cui la finanza è diventata uno snodo cruciale.
Il terzo cambiamento riguarda la globalizzazione e l’integrazione internazionale
dei mercati reali e finanziari. Il funzionamento dei mercati finanziari rappresenta
il cuore della globalizzazione, ormai questo fenomeno è contraddistinto da una
dimensione internazionale: anzi, secondo molti economisti, non sarebbe già più
possibile controllare i flussi di denaro che si spostano verso le frontiere degli
stati nazionali, e, anche se lo fosse, non sarebbe comunque efficiente. Suzanne
De Brunhoff non condivide l’ideologia economica predominante ma propone
una visione alternativa della relazione che intercorre fra la globalizzazione, i vari
capitalismi nazionali, e la dimensione dell’azione politica. Egli nomina
“internazionalizzazione” della finanza la globalizzazione finanziaria, considerata
la forma più clamorosa. Non la considera una struttura globale ma un processo
in atto e non implica solo i diversi tipi di segmentazione, ma anche alcuni
caratteri contradditori. Egli sostiene che non esista un unico mercato globale:
<<nulla è equivalente a ad un solo tasso d’interesse, ad un unico sistema di
prezzi per i beni prodotti, che siano validi a livello inernazionale>>. Una causa
della relativa segmentazione finanziaria è la segmentazione monetaria dei
1
Semenza R. 2000
2
Marelli, Porro 2000
sistemi economici, questo significa che le attività finanziarie sono denominate
nelle differenti valute e queste non sono tra loro perfetti sostituti (le variazioni
dei tassi di cambio non sono, infatti, coperte dai differenziali fra i tassi
d’interesse nominali).
Per quanto riguarda la globalizzazione, le diverse caratteristiche dell’economia
mondiale sono sottolineate da diverse visioni alternative. Per esempio gli aspetti
che contribuiscono ad una determinata configurazione della Comunità Europea
sono la regionalizazione, la varietà di modelli capitalistici, i caratteri finanziari
dell’accumulazione del capitale.
Una risposta di quest'esigenza di flessibilità è data dai contratti atipici.
La maggior parte degli economisti, quando parlano di flessibilità, si riferiscono a
definizioni date da uno studio recente sulla competitività delle imprese
lombarde, ne esistono tre tipi: in entrata e in uscita, retributiva, organizzativa e
funzionale.
Il primo comprende diversi strumenti che permettono di ridurre i vincoli
sull’assunzione e dismissione dei lavoratori: contratti a tempo determinato,
periodi di prova, orario ridotto, norme sui licenziamenti individuali e collettivi,
contratti di solidarietà, Cassa integrazione guadagni, liste di mobilità,
prepensionamenti e dismissioni agevolate. La seconda riguarda la possibilità di
legare alcuni elementi retributivi all’andamento economico dell’impresa, del
settore o del sistema economico: premi e aumenti salariali individuali connessi
al valore di parametri di riferimento, incentivi di gruppo, premi corrisposti a
livello aziendale in funzione della performance dell’impresa, fringe benefit ecc.
Nella flessibilità organizzativa o funzionale sono compresi gli interventi
sull’organizzazione del processo produttivo, questa implica anche un
ampliamento delle mansioni dei lavoratori: flessibilità nell’orario di lavoro,
cambiamenti nel contenuto delle mansioni individuali o di gruppo
(accorpamento dei compiti, job rotation, “isole” di lavoro).
I 2.1 Il cambiamento tecnologico: la “new economy”
Al centro della terza rivoluzione industriale si ha l’informazione, così come la
prima era connessa al vapore e la seconda alla produzione di beni di consumo di
massa.
Ci sono diverse opinioni su questi cambiamenti. Molti si esaltano, cercando di
individuarne e se possibile anticiparne tutte le enormi potenzialità, altri ne sono
invece angosciati, finora i primi sembrano essere la maggioranza. La rivoluzione
elettronica e informatica sta già cambiando gli stessi modi di vita perché sta già
sconvolgendo i modi di produrre, distribuire una notevole quantità di beni e
servizi. Tra le varie innovazioni, quelle riguardanti il trattamento e
l’elaborazione delle informazioni e le telecomunicazioni, la cosiddetta
information and communication tecnology, (Ict), interessano praticamente tutti i
settori produttivi. Uno shock dell’offerta è rappresentato quindi dall’adozione di
nuove tecnologie e di nuovi metodi organizzativi. Questi hanno causato
cambiamenti nella combinazione ottimale dei fattori di produttivi, oltre ad
aumentare la loro produttività totale. L’occupazione ha quindi sofferto anche
dopo lo shock tecnologico. Le nuove tecniche hanno favorito il risparmio di
lavoro. Questo è avvenuto soprattutto in Europa. Questo può essere il motivo
della minore crescita occupazionale e della maggiore dinamica della produttività
in Europa rispetto agli Stati Uniti. In realtà, soltanto in anni più recenti, le
innovazioni nell’Ict, anche tutti i cambiamenti profondi, in genere richiamati con
il termine new economy, hanno accelerato in modo consistente la dinamica della
produttività del lavoro anche negli Stati Uniti. Nonostante questo l’occupazione
ha continuato a crescere, soprattutto grazie alla nuova fase espansiva. Al
risparmio di lavoro delle nuove tecniche produttive e informatiche nei settori
d’utilizzo, sia industriali sia terziari, va aggiunta la minimizzazione dell’input di
lavoro delle stesse industrie high teach, perché incorporano al loro interno in
modo massiccio le innovazioni labour-saving. Si spera che, poiché questi sono i
comparti che si espandono più rapidamente, la loro crescita assoluta sia tale da
rendere comunque possibile un aumento occupazionale. Dall’altra parte
l’informatica, il trattamento delle informazioni, la progettazione del software e
più in generale la produzione dei servizi avanzati, sono in molti casi, altamente
labour intensive. Richiedono però una diversa qualità del lavoro: in particolare è
richiesto lavoro più qualificato.
Con le nuove tecnologie di produzione flessibile, in numerosi Paesi è stata
superata, dagli anni ‘80 la fase fordista dello sviluppo capitalistico mondiale. Le
esternalità positive (di tipo marshalliano) che si verificano anche nei confronti
dell’accumulo e della disseminazione della conoscenza, e anche della
disponibilità in loco di manodopera qualificata, determinano in gran parte il
successo delle piccole e medie imprese e dei distretti industriali. Queste
tendenze non comportano necessariamente la crisi della grande impresa, purché
questa riesca a sfruttare elementi di flessibilità, tecnologica e organizzativa. Con
i nuovi modelli organizzativi si ha la deverticalizzazione dei processi produttivi,
l’esternalizzazione delle attività di servizio, l’outsourcing, la suddivisione dei
sistemi d’impresa in moduli, (business unit) relativamente autonomi, la loro
interconnessione attraverso reti globali, l’”automizzazione” del lavoro e
l’instaurazione di rapporti di lavoro flessibili.
Phelp, inoltre sottolinea in un recente articolo anche che la riduzione del tasso
naturale di disoccupazione nella fase espansiva negli Stati Uniti possa essere
dovuta al boom dei mercati azionari. Se il mercato borsistico è in fase espansiva,
la valutazione delle attività è maggiore del costo: quindi sono incentivati gli
investimenti aggiuntivi. Un’attività importante per le imprese è la manodopera.
Le imprese devono investire nei loro dipendenti attraverso la qualificazione
professionale e in altri modi, con lo scopo di produrre validi lavoratori. Il
mercato azionario è d’alto profilo se i profitti che derivano da questo
investimento (e da ogni altro tipo d’investimento dell’impresa) sono aumentati o
se è salito il valore di mercato di quei profitti o entrambe le cose.
I 2.2 Cambiamenti organizzativi dell’impresa nella sua fase post-fordista
I cambiamenti nella divisione del lavoro sono dovuti in parte ai mutamenti
organizzativi dell’impresa. Questi si possono classificare in interni ed esterni
all’impresa ed essere riassunti in una sorta di “schema idealtipico”. In questo
caso le caratteristiche dell’industria italiana possono essere utilizzate come
principale riferimento empirico, quindi i tipi ideali d’impresa saranno due: la
grande e la piccola. I cambiamenti della grande impresa possono essere divisi in
tre gruppi: divisione interna del lavoro, quella tra “make” e “buy”, rete dei
fornitori. I primi riguardano i cambiamenti nella divisione orizzontale del lavoro
tra mansioni, ruoli e funzioni e nella divisione verticale del lavoro tra i vari
livelli della piramide aziendale. Un esempio di divisione orizzontale è la
tendenza dalla separazione all’integrazione delle funzioni nel processo
produttivo che si sviluppa a tutti i livelli, fino al livello micro della singola
mansione. Un esempio di divisione verticale è l’appiattimento della scala
gerarchica, che ha come obiettivo non un sistema di comando/controllo più
democratico ma un’accelerazione e una parziale de-gerarchizzazione del flusso
d’informazioni nell’azienda, e quindi anche un’accelerazione dei processi
decisionali (tutto questo è collegato all’imperativo funzionale della “flessibilità”,
tipico dell’impresa “post-fordista”). Quest’ultimo rientra in un cambiamento più
generale nella divisione (o distribuzione) delle informazioni, che si sviluppa in
modo parallelo ai cambiamenti nella divisione del lavoro.
I cambiamenti nella divisione tra “make “ e “buy” riguardano l’esternalizzazione
di parti crescenti del processo produttivo e organizzativo e cambiamenti nella
distribuzione di funzioni tra l’azienda madre e quella fornitrice. Quest’ultima,
pian piano sviluppa nuove funzioni legate alla progettazione, alla certificazione
di qualità, alla fornitura just in time che prima erano centralizzate nell’azienda
madre in questo modo diventa così meno un semplice produttore di pezzi
progettati e controllati dall’azienda madre. Quest’ultimo cambiamento può
riguardare anche la rete dei fornitori. La rete dei fornitori è anche riorganizzata
in una rete che fornisce “sotto sistemi” più che singoli cambiamenti. In questa
rete ci sono nuove imprese (e a volte anche nuovi tipi di lavoratori) in varie
posizioni: da molto povere ad altamente qualificate. Un esempio può essere dato
da aziende che partono da lavori elementari di “facchinaggio” e si sviluppano
poi fino a fornire sistemi integrati di logistica e trasporti sia all’interno sia
all’esterno dell’azienda-madre. Anche le piccole imprese con un prodotto finale
proprio sono interessate a mutamenti organizzativi. Fino a poco tempo fa, queste
operavano in nicchie di mercato relativamente protette, spesso “create” da
qualche tipo d’innovazione incrementale di prodotto. Adesso la competizione
globale con aziende simili d’altri Paesi e la crescente flessibilità delle imprese
più grandi, che può permettere loro di entrare in queste nicchie, può erodere
questa relativa protezione. I cambiamenti di questo tipo d’imprese presentano sia
analogie sia differenze con quelli delle piccole aziende fornitrici. Si hanno
cambiamenti interni all’impresa e un nuovo mix tra “make” e “buy”. I
cambiamenti interni all’impresa si possono riassumere sotto l’etichetta
“razionalizzazione e differenziazione organizzativa”, ma rispetto al caso delle
grandi aziende il mix è diverso. Per esempio, una funzione di progettazione era
già presente in queste aziende con prodotto proprio. Questa diventa però più
complessa, include anche gli aspetti di marketing e di ricerca e sviluppo,
collegati alla transizione dalla pura produzione su commessa a forme di
“anticipazione della domanda futura” basate su un’analisi del mercato e una
corrispondente attività di ricerca e sviluppo. In modo simile alle aziende
fornitrici si assiste anche ad una crescente importanza del calcolo e
pianificazione dei tempi e dei costi di produzione. Le piccole imprese hanno
sempre seguito la pratica del decentramento produttivo, ora però questa può
seguire schemi nuovi. In passato riguardava soltanto speciali lavorazioni che, se
effettuate all’interno dell’azienda avrebbero causato diseconomie di scala
oppure era collegato a “punte” di produzione. Anche nella piccola impresa si
assiste ora sempre più spesso alla logica di concentrarsi sul core business,
decentrando tutto il resto. La conseguenza di questo è il feedback
sull’organizzazione interna, per esempio accrescendo l’importanza e il peso
della funzione di programmazione della produzione, e più in generale cambia la
forma complessiva della struttura organizzativa aziendale, in cui aumenta lo
spazio delle funzioni “indirette”, legate alla progettazione, al mercato e alla
programmazione, rispetto alle funzioni direttamente produttive.
I 2.3 L’aumento di domanda di lavoro qualificato
Il mismatch tra le competenze tecniche e le capacità professionali richieste dai
nuovi settori produttivi o necessarie per sfruttare in modo efficiente le nuove
tecnologie, da un lato e le qualità dell’offerta di lavoro disponibile dall’altro, è
uno dei problemi d’aggiustamento più importanti, conseguente alle innovazioni,
specie quelle radicali implicanti un cambiamento nel paradigma tecnologico, ed
alle trasformazioni strutturali dell’economia. Le implicazioni importanti che
possono derivare da questo divario non riguardano solo la necessità di
riqualificazione di manodopera ma anche la stessa determinazione del saldo
netto occupazionale attribuibile alle nuove tecnologie.
La prima fase d’introduzione di nuove tecnologie è caratterizzata dallo
spiazzamento di forze lavoro: è la fase di sostituzione di tecniche produttive
obsolete e dell’adozione d’innovazioni, soprattutto di processo. L’innovazione è
di prodotto nella seconda fase, d’integrazione e di crescita: avviene l’espansione
delle industrie avanzate le quali producono nuovi beni o servizi. Solo nella terza
fase le nuove tecnologie si diffondono nell’intero sistema e sono totalmente
assimilate dal mondo produttivo. Già nella prima fase sono presenti le nuove
mansioni, caratterizzate da un contenuto professionale più elevato. Esse si
differenziano e si moltiplicano nella seconda, poi, nella terza, si estendono anche
alle attività di coordinamento amministrativo e gestionale. Per predisporre in
modo efficace gli interventi formativi, d’orientamento e d’inserimento al lavoro
è essenziale una conoscenza, il più possibile precisa, dell’evoluzione tendenziale
della domanda di lavoro. Diventano inadeguati il semplice processo
d’addestramento iniziale alle nuove tecnologie, i noti meccanismi tradizionali
d’apprendimento, di “accumulo delle conoscenze”, del tipo learning by doing.
La formazione di base, e non tanto quella tecnico professionale, è considerata
molto importante. Una conseguenza del vecchio modello d’organizzazione del
lavoro era una spinta parcellizzazione delle mansioni e una parcellizzazione del
lavoro, congiuntamente ad una ripetitività delle stesse mansioni, ad una
gerarchizzazione dei lavoratori, ad un accentramento del potere decisionale e di
coordinamento (per mezzo degli strumenti della previsione, della
programmazione e del controllo). Nel modello taylor-fordista le conoscenze
discendono dai laboratori e dai centri di ricerca alle linee produttive, seguono
quindi la logica top-down. In questo caso il lavoratore è remunerato in base al
tempo della prestazione oltre alla posizione lavorativa. La logica bottom-up è
invece seguita dal modello d’organizzazione del lavoro di tipo “toyotista” o
giapponese: in questo caso le conoscenze sono il risultato di un processo
induttivo, il quale parte dalle esperienze dirette dei lavoratori, quasi sempre
tecnici polivalenti (alternatisi nelle varie mansioni anche attraverso la job
rotation), i quali interagiscono tra loro e sono pienamente responsabilizzati. In
questo caso il lavoratore percepisce una remunerazione legata ai risultati. Il
learning by doing, la formazione continua e ricorrente, un adeguato stimolo delle
attività di ricerca e sviluppo saranno lo strumento che gli operatori dovranno
perseguire con sempre maggiore determinazione se l’arma vincente per i
lavoratori sarà la capacità d’adattamento alle nuove tecnologie, così come alle
nuove strutture produttive e ai contesti istituzionali. Le società odierne possono
essere definite società dell’apprendimento perché gli investimenti in capitale
umano sono assolutamente vitali, così come da tempo gli investimenti in ricerca
sono diventati più decisivi di quelli in capitale fisico.
Per quanto riguarda le politiche pubbliche, nella fase d’aggiustamento le misure
di tipo difensivo per fare fronte alla disoccupazione tecnologica sono necessarie,
ma non sono fondamentali come le politiche d’attacco. Lo scopo di queste
dovrebbe essere quello di evitare o compensare almeno parzialmente
l’obsolescenza del capitale umano, attraverso un’appropriata riqualificazione
della manodopera coinvolta nei processi d’aggiustamento e prevedendo specifici
corsi di formazione per i lavoratori espulsi dai settori tradizionali e senza le
capacità adeguate. Nel lungo periodo il sistema educativo dovrebbe dare una
flessibilità mentale, culturale oltre che professionale, che sola può facilitare la
capacità d’adattamento ai cambiamenti in corso che caratterizzano le società
avanzate (tecnologici, organizzativi, di mercato, culturali) e non limitarsi a dare
conoscenze specifiche all’altezza delle nuove tecnologie, al di là di uno standard
minimo di “alfabetizzazione informatica”. Nella maggior parte dei casi, per
questa flessibilità è necessaria una solida preparazione di base. Questa
comprende capacità di adattarsi a situazioni nuove ed impreviste, abilità di
problem-solving, creatività: capacità di avere nuove idee e di sfruttarle. Le
competenze particolari sono ancora necessarie, queste però possono essere date
attraverso la formazione specifica d’impresa e l’addestramento sul posto di
lavoro (training on the job). Con queste attività aumentano i “costi di turnover”
(in questi sono compresi la formazione, i costi di ricerca e di selezione del
personale, di assunzione e inserimento nella struttura produttiva), incentivano
quindi la stabilità del rapporto di lavoro. Potrebbero quindi sostituire le
regolamentazioni già fatte, le dismissioni volontarie dei lavoratori sono più
probabili in un contesto di piena flessibilità e mobilità, essi potrebbero, infatti,
vendere sul mercato le competenze professionali acquisite. Ci possono essere
quindi situazioni di “fallimento del mercato” nell’attività di formazione e
secondo una rilevazione empirica, nei Paesi e nei settori con più elevati turnover
la formazione è minore. I dubbi sull’esistenza di una relazione sempre positiva
tra competitività (delle imprese o dei sistemi) e mobilità del mercato del lavoro
nascono anche da questo, data l’importanza dell’esperienza e della formazione
sul posto di lavoro per l’accumulo di adeguate “abilità intellettuali”.
Per rispondere alle nuove sfide tecnologiche è necessario aumentare gli skill dei
lavoratori - la loro competenza, cioè la conoscenza incorporata in capitale
umano – e di colmare nel modo più completo possibile il cosiddetto “deficit
formativo” o di risorse umane. Questo è dimostrato sia dalla teoria economica
sia dall’evidenza empirica. Quest’ultima mostra che nei contesti in cui, è più
elevata la qualità del lavoro oltre all’accumulazione di capitale e al progresso
tecnico, si riscontrano i più elevati tassi di crescita.
I 3 Tendenze dell’offerta di lavoro
Negli ultimi trent’anni si assiste a una crescita della partecipazione femminile e
a una maggiore continuità nell’attività lavorativa. Di fronte a una forza lavoro
maschile in declino, quella femminile cresce in tutti i Paesi avanzati. E’
cambiata anche la composizione della forza lavoro femminile: in passato le
donne nelle fasi centrali di età partecipavano poco al mercato del lavoro, oggi
rappresentano la componente più dinamica. Le ore di lavoro sono in declino
dall’inizio del secolo in tutti i Paesi avanzati. Le differenze tra Paesi sono il
riflesso delle differenze del peso del part-time e di altre forme di flessibilità di
orario. Lo spostamento in avanti di tutte le fasi del ciclo di vita è dato anche
dalla crescita dei salari femminili: si ritardano i matrimoni, le nascite,
aumentano i divorzi e le separazioni mentre si cerca un rapporto più
continuativo con il mercato del lavoro. La riduzione dei tassi di partecipazione
maschili è dovuta invece alla diminuzione dei tassi di partecipazione dei giovani
e degli anziani, per effetto dei più lunghi periodi di studio e dell’anticipazione
del pensionamento. Il cambiamento del comportamento delle donne sul mercato
del lavoro non è dovuto però soltanto alla crescita dell’istruzione e dei salari
relativi. Le scelte di lavoro delle donne, rispetto a quelle degli uomini sono
maggiormente interdipendenti con le decisioni familiari e riproduttive, e
riflettono forti cambiamenti culturali.
I 3.1 Selettività nella ricerca del lavoro
I disoccupati non si accontentano di un lavoro qualsiasi ma sono selettivi nella
loro ricerca e rifiutano i posti che non corrispondono alle loro aspettative in
termini di orario, tipo e luogo di lavoro. In aprile’97 solo il 25 % dei disoccupati
era disposto a lavorare a qualsiasi orario, il 27,9% esclusivamente a tempo pieno
e il 33,5% preferibilmente a tempo pieno. A seconda dell’età e delle tipologie
dei disoccupati le preferenze sono diverse: più del 37% dei giovani accetterebbe
un lavoro “preferibilmente a tempo pieno”, al 26,4% andrebbe bene un lavoro a
qualsiasi orario. Il gruppo che sembra meno flessibile appartiene alla fascia di
età tra i 25 e i 29 anni perché il 30,5% di questo gruppo lavorerebbe
esclusivamente a tempo pieno, probabilmente la maggiore rigidità riflette le
maggiori aspirazioni professionali della più alta percentuale di giovani con titoli
di studio elevati, la maggiore disponibilità al tempo parziale caratterizza invece
il gruppo dei 30+. Se si analizzano i dati ottenuti incrociando l’età e la tipologia
del disoccupato si nota che i più favorevoli al part-time sono soprattutto gli altri
disoccupati di tutte le età, in quanto oltre l’80% di questo gruppo è costituito da
donne le quali hanno una maggiore attitudine a lavorare a orario ridotto perché
devono sostenere carichi familiari.
Per quanto riguarda il tipo di occupazione, la percentuale di chi cerca un lavoro
a tempo indeterminato è il 56,8%, non è data nessuna preferenza dal 38%, ed è
cercato un lavoro a tempo determinato solo dal 2,1%. Poiché la disponibilità al
part-time è correlata alla ricerca del lavoro a termine, sono soprattutto gli altri
disoccupati a cercare questo tipo di occupazione: il 5,5% contro il 2% delle
persone in cerca di primo impiego e lo 0,9% dei disoccupati in senso stretto. La
disponibilità alla mobilità, anche per gli spostamenti a breve raggio, è
abbastanza scarsa, il 38% non vuole spostarsi dal comune di residenza, mentre il
38,5% sarebbe disposto a lavorare in un comune raggiungibile giornalmente. Il
fatto che molti disoccupati siano poco disponibili a spostarsi porta a pensare che
in questi casi la mancanza di lavoro non sia considerato un problema serio:
piuttosto che cambiare residenza preferiscono rimanere disoccupati, e la
disponibilità è inversamente correlata con l’età. Buona parte dei disoccupati
tende quindi ad aspettare molto pur di ottenere un lavoro rispondente alle
proprie aspettative. Questo motivo può essere spiegato dal fatto che la categoria
più colpita dalla disoccupazione è data dai giovani i quali sono sostenuti dalla
famiglia che svolge un ruolo di rete protettiva e riesce a mantenere anche per
periodi più prolungati. I giovani che vivono all’interno della famiglia
costituiscono la maggioranza dei disoccupati: circa il 60% del totale dei senza
lavoro si definisce figlio, mentre solo il 19% assume il ruolo di persona di
riferimento (capofamiglia), e il 16,6% ricopre il ruolo di coniuge. La
disoccupazione è quindi poco concentrata sulle figure chiave della famiglia:
mentre il tasso di disoccupazione medio è del 12,5%, le persone di riferimento
hanno un valore del 5%, i coniugi del 10,4%, e i figli del 25,5%. Poiché i
giovani hanno difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, i figli rimangono
nella famiglia oltre l’età giovanile: la percentuale dei figli con più di 25 anni
senza un impiego supera il 35%. Questo mancato inserimento dei giovani, pur
non comportando seri problemi economici, può comportare la diminuzione delle
capacità professionali e una demotivazione alla ricerca attiva di un lavoro dovute
alla lunga durata della disoccupazione.