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nelle aule parlamentari sia tra le parti sociali, con conseguenti sentimenti e
reazioni contrastanti, oltre a prese di posizione di tipo ideologico.
Il legislatore italiano ha sempre dimostrato poca propensione verso gli
strumenti di gestione flessibile della forza lavoro e non fa eccezione la disciplina
del lavoro a tempo parziale, a lungo disincentivata a favore del lavoro a tempo
pieno.
Al contrario l’Unione Europea ha spinto, sin dagli anni ’70 e ’80, gli Stati
Membri a adottare tutti gli strumenti adeguati a modernizzare l’organizzazione
del lavoro, anche attraverso le forme flessibili d’impiego, con lo scopo sia di
rendere le imprese produttive e competitive che di raggiungere l’equilibrio tra
flessibilità e sicurezza sul lavoro.
Un cammino, questo, iniziato dall’Unione già dagli anni ’80, con la
proposta di diverse direttive in materia di lavoro atipico nelle sue varie forme
(tempo parziale, tempo determinato, lavoro temporaneo), che si è concretizzato
con l’emanazione della Direttiva n° 97/81 in materia di lavoro a tempo parziale,
che conclude il primo capitolo.
Tale direttiva, deriva da un iter iniziato con l’Accordo quadro sul lavoro a
tempo parziale concluso il 6 giugno 1997 tra le organizzazioni intercategoriali
europee:
• UNICE (unione delle confederazioni dell’industria e dei datori di lavoro
dell’Europa);
• CES (confederazione europea dei sindacati);
• CEEP (centro europeo delle imprese a partecipazione statale).
Con questo documento, le parti sociali europee hanno inteso imprimere
un’accelerazione allo sviluppo economico ed alla lotta alla disoccupazione, la cui
probabile soluzione pare sempre più legata ad una concezione flessibile del
lavoro, ed investire la pratica lavorativa del part-time di un importante ruolo
politico e sociale, demandandole il compito di favorire, come già evidenziato,
l’entrata nel mondo del lavoro d’intere categorie sociali, oltre a tutti gli individui
5
impossibilitati ad utilizzare l’intera giornata nello svolgimento di una prestazione
lavorativa, e di venire incontro al crescente bisogno di flessibilità delle imprese.
Quest’ultima necessità, probabilmente legata alla stessa attitudine delle imprese a
sopravvivere in un mercato sempre più competitivo, può portare alla
considerazione che lo sviluppo del lavoro a tempo parziale attenga ad una realtà
certamente più auspicata dalle imprese che dalla totalità dei lavoratori.
In tale situazione, le parti firmatarie dell’accordo quadro, si sono
preoccupate di effettuare dei forti richiami ad alcune forme di garanzia ritenute
prioritarie per questi ultimi, quali il principio di non discriminazione e la tutela
della volontà del lavoratore stesso, concetti ricorrenti nell’intero impianto
legislativo dell’intervento di riforma del part-time.
La direttiva del Consiglio dei Ministri Europei, che ha seguito detto
accordo, con la finalità di uniformare le realtà lavorative e le opportunità per i
lavoratori degli stati membri, non ha mancato di suscitare perplessità, ma è stata,
in ogni modo, un gran passo in avanti nell’armonizzazione delle diverse
normative nazionali.
E’ maturata grazie alla concertazione delle parti sociali, le quali hanno
lasciato agli Stati membri un’ampia possibilità di scelta in sede
d’implementazione, ponendo sì dei “paletti”, attraverso una serie di diritti minimi
uguali per tutti, ma, senza imbrigliare le parti contraenti ad una serie eccessiva
d’adempimenti burocratici, ponendo l’accento, anche a livello nazionale, sulla
necessità della collaborazione di tutte le forze sociali.
La linea tracciata è quella di una flessibilità, da non confondere con la
precarietà, in quanto si combina con la sicurezza, cercando di ridimensionare le
soluzioni d’eccessivo garantismo e di disciplinare i casi di flessibilità senza
limiti.
1
Certamente, questo rappresenta un metodo e non la soluzione per rendere
compatibili le esigenze dei vari soggetti che s’incontrano nel mercato,
1 Brollo Marina, Il lavoro a tempo parziale D.Lgs. n.61/2000, IPSOA, 2001.
6
predisponendo delle regole in grado di adattarsi ai mutamenti del contesto
economico e sociale.
Le opportunità che il part-time offre ai datori di lavoro di adattare la
propria struttura produttiva alle necessità di variazioni della produzione, devono
accordarsi con le esigenze familiari, di formazione e di maggiore tempo libero
dei lavoratori, garantiti nei loro diritti elementari di sicurezza e del rispetto di
pari diritti nei confronti del lavoratore full-time, è questa la strada tracciata dalla
direttiva ed è questa la strada che i legislatori europei devono seguire.
Ed è questa la strada imboccata dal legislatore italiano, che, alle garanzie
sviluppate negli anni precedenti, ha aggiunto quei caratteri di flessibilità ispirati
dalla Direttiva, anche se in taluni casi ha inserito adempimenti non previsti in
sede europea, mantenendo la disciplina contrattuale del rapporto a livello
collettivo, lasciando poco spazio alla regolazione individuale.
Il secondo capitolo analizza come il Legislatore italiano, approvando il D.Lgs.61
del 25.2.2000, ha recepito la direttiva CE n.97/81, rivisitando organicamente il
rapporto di lavoro part-time in termini innovativi rispetto a quanto previsto
dall’ora abrogato art.5 legge n.863/1984.
La nuova normativa, interveniva su un quadro generale, i cui dati, in seguito
evidenziati, facevano ben sperare sulle potenzialità di questo strumento
contrattuale che già dimostrava un progressivo sviluppo, a partire dal 1997, della
quota di lavoratori part-time; infatti, nell’anno 2000, questa aveva raggiunto la
quota di 1.779.000 unità, pari al 8,4 % del totale degli occupati, di cui, quasi
1.300.000 donne; in altri termini circa il 16 % delle occupate lavoravano a tempo
parziale.
Negli ultimi anni il lavoro a tempo parziale aveva assunto un peso sempre
maggiore nel contesto del mercato del lavoro italiano, grazie a tassi di crescita,
assai sostenuti e abbondantemente superiori a quelli delle altre forme di lavoro:
tra il ’99 ed il 2000 l’incremento occupazionale in termini assoluti era stato pari a
388.000 nuovi posti di lavoro, il 36 % dei quali (oltre 143mila) caratterizzato da
7
un contratto a tempo parziale. In termini di variazione su base annua, il tasso di
crescita degli occupati part-time era stato del 8,7 % contro 1,3 %
dell’occupazione a tempo pieno. (vedi tab. 1)
Questo risultato, il più alto fino ad ora, era dovuto in larga misura ad un
notevole incremento dell’occupazione part-time maschile, che solo l’anno
precedente aveva fatto rilevare un tasso di crescita nullo. Si confermava inoltre la
tendenza all’incremento dell’occupazione part-time femminile con tassi ormai
costantemente intorno alla soglia del 10% su base annua.
2
Tab.1: occupazione part time per sesso in Italia nel 1999 e nel 2000
Nonostante questo, nel tentativo di assimilare i canoni del documento
europeo, si capisce come il legislatore italiano abbia dovuto, innanzi tutto, fare i
conti con i problemi d’adattabilità della direttiva con la legislazione vigente nel
nostro paese.
S’intuisce, infatti, che, se l’obiettivo è posto nei termini che “la
realizzazione del mercato interno deve portare ad un miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori nella Comunità europea” e che “tale
processo avverrà mediante il ravvicinamento di tali condizioni, soprattutto per
quanto riguarda le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo indeterminato,
come il lavoro a tempo parziale, il lavoro a tempo determinato, il lavoro
2 ISFOL, Analisi sul mercato del lavoro del 13 novembre 2001.
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temporaneo e il lavoro stagionale”
3
, il ruolo attribuito alla riforma ha un peso
considerevole.
E’, infatti, semplice comprendere come questo si sia, anche, fatto sentire
nell’esperienza del legislatore italiano, il quale, in linea con quanto si è detto
all’inizio, ha dovuto tener conto delle attese tanto dei lavoratori che delle
imprese, entrambi chiamati a valutare il successo o la bocciatura di una nuova
regolamentazione del lavoro a tempo parziale.
Il capitolo si conclude evidenziando come, ad appena un anno
dall’emanazione del D.lgs.61/2000, il provvedimento suddetto è stato modificato
dal D.lgs.100 del 26.2.2001, che, probabilmente in risposta ad alcune istanze
provenienti dal settore dei datori di lavoro, ha cercato di rendere il part-time
ancor più flessibile non riuscendo, comunque, ad eliminare gli inutili
appesantimenti burocratici che modificavano l’autonomia delle parti.
Nonostante l’incremento dell’utilizzo del lavoro a tempo parziale,
evidenziato nell’analisi ISFOL, il nostro paese non era nel 2003, in termini
percentuali, in linea con gli altri paesi della Comunità Europea, infatti, tali
contratti erano solo il 9 % contro il 18 % della media europea, il 25 % della Gran
Bretagna ed il 42 % dell’Olanda, oltretutto, in Europa usavano il part-time meno
dell’Italia solo Spagna e Grecia meno del 8 %.
4
Occupati a tempo pieno ed a tempo parziale
5
Tabella per Tipo d’orario - Maschi
Tempo pieno 12.842
Tempo parziale 702
Totale 13.544
4 www.welfare.gov.it, Perché una campagna per la diffusione dei contratti a tempo parziale,
anno 2003.
5 CNEL, Statistica 2005, Occupati a tempo pieno ed a tempo parziale 2003.
9
Tabella per Tipo d’orario - Femmine
Tempo pieno 6.532
Tempo parziale 2.165
Totale 8.697
Tabella per Tipo d’orario - Maschi e Femmine
Tempo pieno 19.374
Tempo parziale 2.867
Totale 22.241
In questo contesto s’inserisce il capitolo conclusivo di questo lavoro che,
inizia con un breve excursus sul significato del libro Bianco sul mercato del
lavoro presentato dal Ministro Maroni il 3/10/2001, che contiene un’ampia serie
di richiami al reale intendimento del legislatore Europeo, rivolti a promuovere la
modifica della pregressa disciplina del lavoro a tempo parziale con la contestuale
< rimozione degli inutili appesantimenti burocratici che mortificano l’autonomia
delle parti >.
6
In seguito viene esaminato il contenuto dell’art.3 legge 30/2003, cd. Legge
Biagi, con la quale si è delegato il Governo a adottare, entro un anno dalla data
d’entrata in vigore della stessa, uno o più decreti legislativi per <promuovere il
ricorso a prestazioni di lavoro a tempo parziale quale tipologia idonea a favorire
l’incremento del tasso d’occupazione e, in particolare, del tasso di partecipazione
delle donne, dei giovani e dei lavoratori con età superiore ai 55 anni, al mercato
del lavoro.>
7
La legge 30, quindi, puntava a mantenere il necessario equilibrio tra
l’esigenza dei lavoratori di poter disporre ed organizzare una parte del loro tempo
per finalità diverse dal lavoro e quella delle imprese di poter ampliare o
6 Libro Bianco del mercato del lavoro, Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ottobre
2001.
7 Legge 14 febbraio 2003 n.30, art.3.
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correggere il tempo di lavoro in relazione all’emergere di nuove esigenze della
produzione. Il lavoro a tempo parziale, che per lo più è a tempo indeterminato,
offre la possibilità di un lavoro a molte più persone e consente in alcuni casi di
trasformare in rapporto a tempo indeterminato forme di lavoro precarie o
sommerse. Basti pensare alla possibilità di sostituire periodici contratti di lavoro
stagionali (per definizione precari) con contratti a tempo indeterminato di part-
time cosiddetto verticale.
Il capitolo si conclude con l’analisi dell’art.46 del D.lgs.276 del 10
settembre 2003 che, emanato a seguito della delega ricevuta dal Governo con la
legge 30, ha modificato diversi profili della disciplina fino ad allora vigente.
In particolare le modifiche apportate ai Decreti Legislativi del 2000/2001
sono volti ad attenuare alcuni dei vincoli che tale disciplina presentava,
valorizzando nella regolamentazione d’alcuni istituti, l’autonomia contrattuale
delle parti.
8
L’obiettivo del legislatore è di incentivare l’utilizzo del contratto
aumentando la flessibilità nell’utilizzo dello stesso, avvicinando, di fatto, la
logica e la disciplina del part-time a quella del full-time.
L’introduzione delle clausole elastiche e flessibili non è più subordinata
alla preventiva conclusione di contratti collettivi, infatti, in mancanza di
previsioni dell’autonomia collettiva in funzione limitativa o regolativa,
l’esercizio dello ius variandi richiede il solo consenso individuale del lavoratore
interessato.
Tale patto scritto può essere anche contestuale alla conclusione del
contratto, sicché la genuinità del lavoratore appare del tutto discutibile.
Valutazione leggermente diversa può essere operata per quanto concerne
lavoro supplementare e straordinario, la cui esigibilità da parte del datore di
lavoro deve essere richiesta e concessa volta per volta: tuttavia, lo stesso
8 Fondazione studi Consulenti del lavoro, Commissione dei Principi Interpretativi in materia di
lavoro, Principio n.3 “ Il lavoro a tempo parziale”.
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consenso individuale è ora sufficiente anche in mancanza di disposizioni
collettive, ma non è più necessario quando il contratto collettivo attribuisca
espressamente il diritto potestativo al datore di lavoro.
In questo caso il rifiuto del lavoratore, pur non potendo integrare gli
estremi del giustificato motivo di licenziamento, legittima l’adozione di sanzioni
disciplinari, rafforzando, in tal modo, la pretesa all’adempimento del datore di
lavoro.
Se quello evidenziato è l’aspetto più significativo della riforma, si deve
considerare che l’attribuzione al datore di lavoro d’ampi margini di flessibilità
comporta la diminuzione del ruolo sindacale a favore dell’autonomia privat6a
individuale. Tale caratteristica è, forse, meno evidenziata, anche perché
l’intervento integrativo della contrattazione collettiva è ancora ampiamente
presente ma, questa è la novità, non è più indispensabile per il funzionamento del
sistema risultando, sotto molti profili, solamente eventuale e, come tale,
potenzialmente evitabile.
9
9 www.di-elle.it, Borali Maurizio, Il nuovo part-time ed il lavoro intermittente, Diritto e Lavoro
online, 2004.
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Capitolo 1
IL LAVORO A TEMPO PARZIALE DALLE ORIGINI
ALLA NORMA COMUNITARIA
1.1. Le origini dell’istituto
Nel corso della seconda guerra mondiale il lavoro a tempo parziale è stato
utilizzato, soprattutto con forze di lavoro marginali, come donne, anziani,
studenti ed invalidi, impiegate nell’attività produttiva per rimpiazzare,
ovviamente, quelle impiegate nelle operazioni belliche.
Negli anni 50-60’, la medesima esigenza di farvi ricorso si è presentata per
motivi diametralmente opposti quali la piena occupazione e le tensioni che ne
conseguirono nel mercato del lavoro.
Nei primi anni 70’, nuove forme di gestione del tempo di lavoro sono
proposte per tutelare le esigenze di una migliore qualità della vita.
Negli anni 80’, mutato il quadro del mercato del lavoro, esigenze, sempre
crescenti, di flessibilità si cumulano e si intrecciano con la crescita della
partecipazione femminile al mondo del lavoro e con una maggiore resistenza, da
parte dei lavoratori, a ritirarsi dalla realtà produttiva.
Il part-time ha rappresentato, in periodi di scarsità di manodopera (anni
post guerra e anni 60’), una possibilità per potenziare l’offerta di lavoro; in
periodi d’elevata disoccupazione (anni 70’- inizi anni 80’), a quest’iniziale
funzione si sono affiancate l’esigenza di ampliare, o di difendere, i livelli
occupazionali e di incrementare la produttività delle imprese.