Fino ad una trentina d’anni fa tale approccio era,
almeno in parte, condivisibile; la distinzione tra
le due categorie del lavoro subordinato e di
quello autonomo era elevata ed a quest’ultimo
non era possibile associare alcun legame di
subordinazione.
In questi ultimi decenni però il sistema socio-
economico è cambiato e lo spazio tra il lavoro
autonomo e quello subordinato è stato occupato
da una categoria di rapporti di lavoro atipici che
conserva delle due fattispecie legali tipiche, da
un lato l’autonomia e dall’altro lo svolgimento
della prestazione in via continuativa e nel
rispetto di una sorta di eterodirezione debole che
si estrinseca nel coordinamento alle esigenze del
committente.
La coesistenza di queste due caratteristiche ha
avuto la non trascurabile conseguenza di
associare alla totale assenza di tutele del lavoro
autonomo la medesima situazione di soggezione
e sottoprotezione che contraddistingue il lavoro
subordinato.
Le imprese “spesso”, hanno colto l’opportunità e
i vantaggi di questo paradosso ricorrendo in
6
maniera massiccia alle collaborazioni coordinate
e continuative e determinando una crescita
abnorme del fenomeno.
La questione dell’assenza di protezione ha
portato all’instaurazione di rapporti collaborativi
in frode alla legge, ovvero rapporti di
collaborazione che si sostanziavano in rapporti
di lavoro subordinato “mascherato”. A fronte di
questa situazione patologica era forte la
necessità di un cambiamento, una risposta che il
diritto del lavoro non poteva più esimersi
dall’offrire.
La riforma Biagi ha sostanzialmente ridisegnato
la figura delle collaborazioni coordinate e
continuative dando loro una sistemazione
sostanziale attraverso l’introduzione della nuova
fattispecie del “lavoro a progetto”. L’obiettivo
dichiarato del legislatore è stato quello di
realizzare “un sistema efficace e coerente di
strumenti intesi a garantire trasparenza ed
efficienza al mercato del lavoro e a migliorare
le capacità di inserimento professionale dei
disoccupati e di quanti sono in cerca di una
prima occupazione, con particolare riferimento
7
alle fasce deboli del mercato del lavoro”2 .
Occorre però domandarsi quali siano state le
reali finalità della riforma, nonché come siano
state affrontate le questioni riguardanti le tutele
da un lato, e la repressione delle pratiche
fraudolente dall’altro3.
Nel corso di questa trattazione, senza pretese di
totale esaustività, si proporrà un’analisi delle
“spinose” questioni che riguardano il cammino
della dottrina e del legislatore che ha portato alla
nascita del rapporto di lavoro a progetto. Inoltre
si cercherà, grazie ai molti contributi della
dottrina, di illustrare gli aspetti fondamentali del
rapporto mediando tra i vari interventi dottrinali
di cui tale disciplina è stata oggetto. Si cercherà
così di pervenire ad un’interpretazione per
quanto possibile univoca della disciplina del
lavoro a progetto e di valutarne l’opportunità in
modo da comprendere se e fino a che punto la
riforma realizzata sia stata coerente ed
opportuna rispetto alle problematiche che
bisognava affrontare.
2
Art. 3, Comma 1, D. Lgs. 276/03, Finalità.
3
Occorre sottolineare che la riforma delle collaborazioni coordinate e
continuative risponde ad una scelta politica molto precisa consistente nell’
impedire un utilizzo improprio ed abusivo delle collaborazioni, e quindi,
ridurre per quanto possibile le forme di flessibilità impropria riequilibrando
i rapporti di lavoro autonomo e subordinato, scelta che già era contenuta all’
interno del “Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia” redatto nel 2001.
8
CAPITOLO I
IL CAMMINO VERSO LA RIFORMA DELLE
COLLABORAZIONI COORDINATE E
CONTINUATIVE
1- Il cambiamento socio- economico del paese
negli ultimi cinquant’anni.
2- Il fenomeno della parasubordinazione.
3- Il contratto di collaborazione coordinata e
continuativa.
4. L’iter legislativo del lavoro a progetto.
9
1 Il cambiamento socio- economico del paese
negli ultimi cinquant’anni.
Il punto di avvio per una analisi delle ragioni
che hanno portato alla formulazione e successiva
approvazione della c.d. Legge Biagi deve essere
l’analisi del tessuto socio-economico italiano
nell’ultima parte del secolo scorso.4
Quasi un secolo fa, l’aumento della produzione
di massa, la segmentazione della produzione,
nonché la ripartizione del lavoro secondo un
modello tayloristico, determinarono un brusco
cambiamento sociale ed economico.
Tale cambiamento corrispose al passaggio da un
modello sociale prevalentemente agricolo ad uno
di tipo industriale, che ebbe come risultato un
repentino miglioramento generale delle
condizioni economiche del paese nei primi anni
sessanta.
Nel contesto in esame, caratterizzato come detto
da un brusco cambiamento di produzione, il
4
M. Tiraboschi, La riforma Biagi del mercato del lavoro, Giuffrè editore,
Milano, 2004.
10
modello di riferimento teso a regolamentare il
mutante mercato del lavoro non poté che essere
ispirato ad un accrescimento della tutela fisica
ed economica del lavoratore in quanto ritenuto, a
ragione, quale contraente debole del rapporto di
lavoro.
Il riconoscimento della debolezza contrattuale
del lavoratore rispetto al potere contrattuale
attribuito al datore di lavoro, rappresentò allora
il substrato che consentì l’affermazione della
contrattazione collettiva, affermazione che portò
poi alla conquista dell’estensione delle forme
assicurative obbligatorie contro gli infortuni sul
lavoro e contro le invalidità, la disoccupazione e
la vecchiaia.
L’ottenimento di tali garanzie da parte dei
lavoratori fu raggiunto in un momento di forte
espansione dell’economia italiana, che consentì
il raggiungimento di un equilibrio ottimale tra le
diverse ed opposte esigenze socio-economiche
del tempo.
In realtà, l’equilibrio scaturito dalle conquiste
sindacali e consistente in un trattamento
abbastanza benevolo per i lavoratori, risultò
11
essere caratterizzato da una rigidità molto
accentuata che non consentì al sistema creato di
adeguarsi ai cambiamenti economici e sociali
intervenuti successivamente 5 .
Già allora però si comincio a delineare una
distinzione fondamentale all’interno del mercato
del lavoro tra coloro che svolgevano un’attività
subordinata stabile, e coloro i quali non avevano
mai lavorato o lo avevano fatto esclusivamente
“in nero”. Si notavano cioè gli indizi di un
mercato del lavoro parallelo ed illegale, rispetto
a quello ufficiale che seppur con le sue rigidità
risultava essere giustamente garantista nei
confronti dei lavoratori.
Nonostante nello stesso periodo si registrò il
contemporaneo sviluppo del lavoro autonomo,
degli artigiani e soprattutto dei commercianti, il
rapporto giuridico di lavoro che assurse a
modello tipo fu quello subordinato, che
polarizzò così l’intera legislazione successiva in
tema di rapporti di lavoro.
I risultati della cristallizzazione del sistema del
lavoro si cominciarono a notare già verso la fine
5
Seppure il sistema creato non era affatto sproporzionato in termini
economici e sociali rispetto al contesto in cui vide la luce.
12
degli anni settanta, a causa della crisi petrolifera
che investì l’economia mondiale e che
naturalmente non risparmiò l’economia italiana.
La crisi portò con se la necessità di aumentare la
competitività del sistema Italia, incremento di
produttività che si sarebbe dovuto realizzare
attraverso la ricerca di una nuova combinazione
ottimale dei fattori della produzione, lavoro
incluso.
Si puntò cosi all’attuazione di politiche di
labour saving6 e alla destrutturalizzazione delle
grandi imprese che portò all’affermazione delle
piccole e medie imprese e alla conseguente
frammentazione successiva.
Anche se la concezione normativa del rapporto
di lavoro rimaneva incentrata sul lavoro
subordinato, il sistema dovette cercare un modo
di attuare una prima flessibilizzazione di fatto
del mercato del lavoro che, non potendo contare
su di una disciplina giuridica duttile riguardo al
rapporto di lavoro subordinato, si manifestò
sotto forma di una modifica strutturale al suo
6
Queste sono politiche tendenti alla migliore gestione e al risparmio della
forza lavoro che come naturale conseguenza negativa hanno una naturale
diminuzione della domanda di lavoro.
13
interno che portò alla crescita esponenziale
dell’utilizzo degli ammortizzatori sociali, dei
prepensionamenti, degli esuberi nonchè allo
sviluppo delle tecniche di robotizzazione dei
processi produttivi7.
Il prezzo della poca flessibilità del mercato del
lavoro italiano fu dunque pagato soprattutto
dallo stato.
Il legislatore di quegli anni però, anche a causa
della forte conflittualità sociale dell’epoca,
continuò a prendere come riferimento il rapporto
di lavoro subordinato e così andava sempre più
assumendo dimensioni significative il mercato
del lavoro “parallelo” sommerso.
Un fragile nuovo equilibrio del mercato del
lavoro in Italia fu faticosamente raggiunto
solamente alla fine degli anni ottanta, ma già
agli inizi degli anni novanta il mercato del
lavoro era caratterizzato dalla polverizzazione
del tessuto imprenditoriale, dalla forte
espansione delle forme di lavoro autonomo 8, da
una preoccupante dimensione del lavoro
7
Il sistema avrebbe dovuto prevedere quantomeno delle valvole di sfogo in
grado di agevolare il raggiungimento di un nuovo equilibrio del sistema
economico.
8
In particolare artigiani, commercianti e professionisti.
14
sommerso e dalla crescita esponenziale dei
lavoratori c.d. para-subordinati, lavoratori cioè
non dipendenti nel senso tradizionale del termine
e quindi non titolari delle garanzie previste per i
lavoratori subordinati.
L’esigenza di una nuova competitività del
mercato italiano si è infine riproposta verso la
metà degli anni novanta, tali anni furono
caratterizzati da un fenomeno di fusione delle
economie mondiali 9 e di conseguenza dei mercati
dei vari paesi, questo ha comportato la necessità
per il nostro paese di doversi adeguare a tali
cambiamenti aumentando di nuovo la flessibilità
del mercato del lavoro, questa volta però
l’incremento di flessibilità non poteva essere
ottenuto attraverso un ulteriore polverizzazione
del sistema produttivo10 in quanto questo non
avrebbe potuto consentire alle industrie italiane
di competere in ambito internazionale, dove
invece per operare occorre avere un sistema di
grandi imprese, “è finita quindi la lunga
stagione del piccolo è bello che ebbe tanti
9
La c.d. “Globalizzazione”.
10
Un ulteriore polverizzazione del sistema produttivo avrebbe comportato
un conseguente nuovo accollo di costi per lo stato non sostenibile anche a
causa dell’ esigenza sorta in ambito europeo di favorire il contenimento
dell’ indebitamento pubblico dei paesi membri dell’ unione.
15
laudatori tra i politici, gli economisti ed i
sociologi della seconda repubblica” 11 .
11
E. Scalfari, “Chi frena lo sviluppo dell’ azienda Italia”, su: “La
Repubblica” del 2 Giugno 2002.
16