determinata attività lavorativa, che ci permette di relazionarci con gli altri e di assumere
un ruolo all’interno della società. Con ciò non si intenda che sussistono lavori più
dignitosi di altri. Ogni lavoro in sé stesso considerato è dignitoso e utile al prossimo;
infatti, non sarebbe possibile immaginare una società ove gli individui svolgano tutti lo
stesso mestiere, per esempio il coltivatore diretto, o il medico, l’operaio.… E, tuttavia,
nel lungo periodo che trascorre tra l’era antica e l’era moderna, il lavoro è stato
considerato cosa vile, da addossare a uomini ridotti in schiavitù o in stato servile
3
.
Nelle società moderne diversi sono i lavori da svolgere, ma identici sono i soggetti
che li intraprendono: gli esseri umani maschi o femmine che siano, i quali si
diversificano tra loro solo per le diverse esigenze di tutela di cui abbisognano a seconda
del tipo di lavoro svolto. Per il bisogno ineluttabile di raggiungere livelli ottimali di
tutela non solo della salute, dell’igiene e del salario, ma anche dello stesso posto di
lavoro, i lavoratori si sono uniti in associazioni sindacali, che rese forti dal numero e
dalle comuni esigenze degli aderenti, si sono fatte portavoce degli interessi dei
lavoratori (i più deboli in genere sono individuati in quelli subordinati, ossia quelli
soggetti alla etero-direzione del datore di lavoro), che spesso sono contrapposti a quelli
dei datori di lavoro. Essi, mediante numerose lotte, sull’onda della normativa
costituzionale, sono riusciti a conquistare dalla legislazione speciale, un esteso e
articolato apparato di diritti e tutele garantistiche, volte a migliorare le condizioni di
trattamento dei lavoratori subordinati, tra cui la più importante, la salvaguardia del
posto di lavoro, mediante la disciplina limitativa del licenziamento.
Tutto ciò ebbe inizio con l’avvento della Rivoluzione Industriale che ha dato vita
a un soggetto sociale fondamentalmente omogeneo: il lavoratore comune dell’industria.
La classe operaia occupava quindi il centro della società, una classe formata da
individui deboli se paragonati ai datori di lavoro che, diversamente da loro,
possedevano i mezzi di produzione e non la sola forza lavorativa. Continuamente
sottoposti al ricatto contrattuale, avevano come unica scelta quella di accettare o meno il
lavoro, ovviamente alle condizioni datoriali. Di qui la nascita dei primi sindacati che,
con numerose lotte portate avanti con il mezzo dello sciopero, riuscirono a ottenere
3
SCOGNAMIGLIO, Considerazioni introduttive al convegno sul nuovo volto del diritto del lavoro, in Arg.
dir. lav., 2005, n. 2, pag. 458.
4
dalle varie classi di governo,via via succedutesi, il riconoscimento in leggi
4
di diritti
volti a garantire e a tutelare la salute, la sicurezza, la dignità e altri diritti di rilevanza
costituzionale spesso calpestati dai datori di lavoro, sino a giungere a ciò che più preme
ai lavoratori e che risulta essere dato, come già accennato in precedenza, dal
mantenimento del posto di lavoro, per mezzo della disciplina limitativa del
licenziamento.
Il lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato ha quindi rappresentato uno
dei cardini del nostro sistema del lavoro.
La coniugazione del tempo verbale “ha rappresentato” al passato è d’obbligo,
poiché ultimamente, l’internazionalizzazione dei mercati ha accentuato l’esigenza per le
imprese di ridurre i costi di produzione allo scopo di restare competitive.
L’espansione dell’area dei servizi e la rivoluzione tecnologica, hanno favorito una
diversificazione delle identità sociali dei produttori, con la conseguenza che la classe
operaia non ricopre più il centro delle società post-industriali, all’interno delle quali
viene a ridursi il peso quantitativo e politico del lavoro dipendente.
La stessa rivoluzione tecnologica abbinata sempre più alla esigenza di
competitività ha favorito l’automazione e il decentramento del processo produttivo,
determinando il superamento del diritto del lavoro incentrato sull’impresa e sul suo
mercato del lavoro interno. L’intero diritto del lavoro è stato edificato sulla base
dell’impresa fordista, che si isola dal mercato esterno e dalle forze che vi operano,
dando vita a un mercato del lavoro interno basato sulle relazioni gerarchiche mediate
dalla forma giuridica del contratto di lavoro subordinato. Tutto ciò è stato ormai
superato, in particolare con la nuova Riforma del Mercato del lavoro, la quale prelude
alla dissoluzione del mercato interno e incentiva il ricorso al mercato esterno che viene
razionalizzato sia sotto il profilo istituzionale, mediante la definitiva apertura ai privati
per la gestione dell’incontro tra domanda e offerta e dei servizi per l’impiego, sia per
4
Tra le quali, in epoca recente, la più importante per i lavoratori subordinati è data dalla Legge del 20
Maggio 1970 n. 300, meglio nota come Statuto dei lavoratori, la quale reca la firma dell’allora ministro
del lavoro Donat Cattin, ma deve la propria paternità politica al suo predecessore Giacomo Brodoloni che
ne aveva affidato l’elaborazione tecnica a Gino Giugni. Essa riconosce i diritti personali e sindacali dei
lavoratori nei luoghi di lavoro, pone rigorosi limiti ai poteri del datore di lavoro di modifica delle
mansioni e di trasferimento del lavoratore, regola l’esercizio del potere disciplinare, inoltre predispone
specifiche tutele antidiscriminatorie a favore dei lavoratori, tra le più importanti ricordiamo la
reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato, e da ultimo elimina tutte le
pratiche ricattatorie e intimidatorie cui hanno fatto ricorso i datori di lavoro.
5
quanto concerne i modelli negoziali che formalizzano quell’incontro nell’area della
subordinazione come in quella dell’autonomia (esempio dato dal lavoro a progetto).
L’impresa de-materializzata acquisisce le competenze sul mercato esterno e riduce
ai minimi termini le competenze interne e stabili, che vengono a loro volta
flessibilizzate. L’impresa perde di conseguenza la funzione di radicare nel suo seno
l’attività lavorativa e di costruirne l’identità, per diventare “mero contenitore di
un’attività lavorativa esterna, attivabile sulla base di nessi contrattuali di natura
commerciale, con una perdita complessiva della funzione identitaria del lavoro
nell’impresa”
5
.
Le caratteristiche delle odierne società post-industriali hanno accentuato, quindi,
l’esigenza di un rapido adattamento delle dimensioni occupazionali dell’impresa
all’entità della domanda di lavoro, la quale fa oscillare il fabbisogno di manodopera e
stimola le imprese a instaurare rapporti temporanei (spesso coincidenti coi maggiori
picchi stagionali o occasionali di produttività dovuta a eventuali ordini di produzione),
mentre nei confronti dei rapporti a tempo indeterminato, queste hanno reagito riducendo
la retribuzione e/o l’orario di lavoro.
Accentramento e automazione hanno messo in crisi la forma giuridica del
“monolite del rapporto di lavoro”
6
, con la necessità di sostituire la rigidità della sua
normativa vincolistica con la flessibilità sia nel rapporto di lavoro che nel mercato del
lavoro.
Di fatto, a una concezione statica e datata del lavoro (rappresentata dal rapporto di
lavoro a tempo pieno e indeterminato), se ne sostituisce in parte, una dinamica e
attualizzata (vedi i nuovi modelli contrattuali flessibili), e l’una e l’altra convivono
perché, se la modificata organizzazione del lavoro e la mutata struttura produttiva delle
aziende mettono in crisi il sistema tradizionale e richiedono maggiore flessibilità, nei
fatti, resta anche il lavoro tradizionale, a tempo pieno e indeterminato
7
.
5
PERULLI, Introduzione, in PERULLI, Impiego flessibile e mercato del lavoro, Torino, 2004, pag. XV.
6
SANTORO PASSARELLI, Flessibilità e diritto del lavoro, Torino, 1997, pag. 2.
7
CASOTTI-GHEIDO, Lavoro a progetto e nuove collaborazioni coordinate continuative:disciplina
progetto, formule, aspetti fiscali e previdenziali delle nuove collaborazioni, Milanofiori Assago, 2004,
pag. 16.
6
2. L’esigenza di flessibilità come sinonimo di precarietà?
Questo periodo storico appare caratterizzato da due sistemi del mercato del
lavoro, uno tradizionale e l’altro moderno; il primo sempre più scosso dal secondo, ma
entrambi contemporaneamente sussistenti, e come tali dovranno cercare un punto di
equilibrio a vantaggio di una flessibilità che non può e non deve significare precarietà
8
.
Qualche autore
9
, ritiene che la precarietà risulta essere la conseguenza naturale
della flessibilità, definendo quest’ultima non come un valore, bensì come un vincolo,
dettato dalle attuali caratteristiche del mercato mondiale. A questa flessibilità/precarietà,
bisogna saper contrapporre un’adeguata valorizzazione del capitale umano, sia
attraverso protezioni e tutele contro i rischi e le incertezze (mediante la previsione di
nuovi e migliori ammortizzatori sociali), sia con una seria politica formativa, affinché i
lavoratori siano dotati di “strumenti essenziali per effettuare le proprie scelte e
programmare il futuro, invece che essere alla mercé delle decisioni non sempre
avvedute delle imprese in cui sono impiegati”
10
.
A entrambi i sistemi (sia moderno che tradizionale) interessa raggiungere il fine di
garantire il lavoro e di renderlo accessibile a tutti. Obiettivo, questo, che accomuna
datori di lavoro, lavoratori, disoccupati e l’intera società civile.
La flessibilità non deve essere intesa nemmeno come smobilitazione delle
garanzie previste dall’ordinamento a favore del soggetto debole. Ma in positivo, la
flessibilità nel diritto del lavoro assume una pluralità di significati.
In primo luogo può essere intesa come articolazione delle tutele nell’ambito dello
stesso tipo contrattuale, che differisce per la presenza o assenza di determinati requisiti
o modalità di esecuzione della prestazione o di svolgimento del rapporto, quindi come
attenuazione delle disposizioni protettive previste dal codice civile agli articoli 2094 e
seguenti.
In secondo luogo, la flessibilità (della disciplina) ponendosi in contrapposizione
alla rigidità (che da sempre ha caratterizzato il lavoro subordinato), si fa portatrice di
diversi valori e interessi che vanno a vantaggio non solo del datore di lavoro, ma anche
del lavoratore. Il risultato è quello di rendere maggiormente accessibile il mondo del
8
SANTORO PASSARELLI, Flessibilità e diritto, cit., pag. 2.
9
GEROLDI-PRINCIPE, La riforma del mercato del lavoro e l’occupazione, in BORTONE, DAMIANO,
GOTTARDI (a cura di ), Lavori e precarietà: il rovescio del lavoro, Roma, 2004, pag. 38.
10
Ibidem.
7
lavoro a tutti quei soggetti che, per le loro peculiarità, potrebbero restarne fuori. Un
esempio (che forse può dirsi scolastico se di fatto non rivestisse primigenia importanza
per molte famiglie), è dato dalle lavoratrici-madri, per le quali sarebbe impossibile
conciliare un’attività lavorativa con la vita e la cura della propria famiglia se esistesse
solo il lavoro a tempo pieno! Quindi un lavoro a tempo parziale con clausole rigide
potrebbe per loro rappresentare la soluzione ai piccoli problemi economici quotidiani,
segno di come possa essere “positiva” la flessibilità (peccato che ultimamente tali
clausole a furia di renderle elastiche si siano “slabbrate”!!).
E ancora, la flessibilità può essere intesa come diversificazione della fattispecie e
perciò delle rispettive discipline.
Come se non bastasse, la flessibilità può evocare e modificare i rapporti tra legge
e contratto collettivo. Così, una determinata disciplina può essere considerata flessibile
quando delega la sua funzione regolamentare anche alla contrattazione collettiva, come
avveniva per gli accordi in tema di contratto a tempo determinato
11
. La flessibilità della
disciplina può anche indicare la derogabilità in sede collettiva di disposizioni che
restano inderogabili a livello individuale, come gli accordi in materia di mansioni in
peius
12
.
Da ultimo, nel rapporto di lavoro pubblico la flessibilità è un criterio di
organizzazione dell’amministrazione pubblica che si ripercuote sulla tipologia del
rapporto di lavoro anche in questo settore.
Tutti questi diversi significati, per l’autore
13
, tendono a rendere compatibili le
ragioni di efficienza e produttività delle imprese con l’esigenza di protezione e di tutela
dei prestatori di lavoro. Può forse dirsi che si è riusciti a contemperare le esigenze del
mercato del lavoro con la solidarietà verso i soggetti più deboli
14
, sebbene vi sia chi
sostiene che la realizzazione dell’obiettivo di flessibilità del mercato carica sulle spalle
del lavoratore (precario) una parte significativa del rischio di impresa
15
.
Tale contemperamento di esigenze in passato non ha avuto vita facile. Negli anni
settanta era diffuso il convincimento che il modello di sviluppo disegnato dalla politica
11
Art. 23, legge 28 Febbraio 1987, n. 56, peraltro oggi abrogato.
12
Art. 4 comma 11, legge 23 Luglio 1991, n. 223.
13
SANTORO PASSARELLI, Flessibilità e diritto, cit., pagg. 2-3.
14
Ibidem.
15
RODANO, Aspetti problematici del D. Lgs. n 276/2003. Il punto di vista della teoria economica, in
Giorn. dir. lav. rel. ind., 2004, n. 3, pag. 435.
8
dovesse sovrapporsi ai meccanismi di mercato, irrigidendolo con l’imposizione di un
servizio di collocamento obbligatorio e una unica forma di attività lavorativa
rappresentata dal lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.
Solo con il processo di integrazione europea e con l’allargamento degli orizzonti
del mercato del lavoro si è messa in luce la impossibilità di continuare in tale direzione.
Ben presto le autorità comunitarie si sono espresse verso la più totale intolleranza
dell’uso delle imprese pubbliche come strumenti di governo dell’economia in funzione
del raggiungimento di un non proprio precisato interesse pubblico. Si è affermata in
misura sempre maggiore la concezione per la quale l’intervento pubblico non può
sostituire le leggi del mercato nel ruolo di guida del processo economico, ma deve solo
limitarsi a dettare regole per garantirgli maggiore efficienza e correttezza. Per ottenere
tale risultato il nostro legislatore è dovuto intervenire su due fronti, uno attinente alla
disciplina del rapporto, l’altro alla disciplina del mercato.
Sul primo fronte d’intervento, nel merito della disciplina del rapporto e
nell’ambito dello stesso tipo contrattuale (es. quello subordinato), il legislatore ha
predisposto diverse tipologie di lavoro flessibile e una diversa articolazione delle
tutele
16
.
16
Un esempio della diversità di discipline nell’ambito dello stesso tipo (lavoro subordinato), è
rappresentato dal lavoro a tempo determinato e indeterminato che si differenziano tra loro anche sotto il
profilo del recesso (qui inquadreremo solo il recesso del datore di lavoro, noto come licenziamento).
Invero, le modalità di estinzione del contratto a tempo determinato sono due: quella naturale per scadenza
del termine (e in tal caso la cessazione del rapporto si verifica senza necessità di preavviso, essendo
quest’ultimo, incompatibile con la natura del contratto a termine); oppure, ante tempus, tramite recesso
ma solo in presenza di giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c., intendendo quest’ultima quale gravissimo
inadempimento di cui si è macchiato il prestatore di lavoro, la cui gravità deve essere tale da impedire la
prosecuzione, anche solo provvisoria, del rapporto. Nel contratto a tempo indeterminato, l’attuale
disciplina del licenziamento è il frutto di numerose norme stratificatesi nel tempo. In origine il recesso era
disciplinato dal solo art. 2118 del codice civile, il quale prevedeva il recesso ad nutum con il solo limite
del preavviso nei termini e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità. In mancanza del preavviso, il
recedente è tenuto a versare alla controparte un’indennità - detta di preavviso - equivalente all’importo
della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Successivamente si sono posti dei
limiti a questa libertà di recesso, prevedendo all’art. 1 della legge 604 del 1966 che, nel caso in cui la
stabilità del rapporto non sia assicurata da norme di legge, di regolamento o di contratto collettivo o
individuale, il licenziamento non può avvenire se non per giusta causa (art. 2119 c.c.), o per giustificato
motivo soggettivo, definito dall’art. 3 della medesima legge, come un “notevole” inadempimento degli
obblighi contrattuali del prestatore di lavoro; oppure, ancora, per giustificato motivo oggettivo (art. 3 l. n.
604/1966): in quest’ultimo caso il licenziamento è determinato “da ragioni inerenti all’attività produttiva,
all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Come può notarsi, l’ipotesi in oggetto
prescinde da comportamenti del lavoratore e fa invece riferimento ad esigenze oggettive d’impresa che
possono richiedere la soppressione di un determinato posto di lavoro che diviene superfluo in
considerazione di nuove scelte produttive o di una nuova organizzazione di lavoro operata
dall’imprenditore, oppure in quanto circostanze incolpevoli inerenti al lavoratore ostacolano il regolare
funzionamento dell’attività di impresa (ad esempio la sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore allo
9
Sul secondo fronte ha invece predisposto sia una regolamentazione flessibile della
gestione delle eccedenze di personale espulso dal ciclo produttivo per l’effetto del
decentramento, che delle politiche attive dirette ad incrementare l’occupazione con
tecniche di intervento che affidano all’attività amministrativa, all’unisono con quella
negoziale, il compito di tutelare i lavoratori contro la disoccupazione.
Soprattutto il primo fronte di intervento, ossia l’eccessiva articolazione delle
tutele, ha riportato delle conseguenze forse prevedibili e forse attese. Infatti, si è
assistito alla frantumazione dell’unità del tipo e alla emersione di una pluralità di tipi
volti a “scalfire” la dicotomia “lavoro autonomo – lavoro subordinato” e alla nascita di
figure che ponendosi a metà strada tra le due fattispecie sono definite atipiche.
La diversificazione delle tutele ha centrato solo in parte gli obiettivi assegnati, ma
non si può non osservare che nell’ambito del lavoro subordinato questa mira a
realizzare, quasi sempre, la temporaneità del vincolo obbligatorio, perseguendo una
strategia volta ad aggirare la maggiore rigidità normativa del rapporto di lavoro
costituita dalla limitazione del potere di recesso del datore di lavoro
17
.
svolgimento delle mansioni affidategli. Il licenziamento deve inoltre essere comminato secondo la
procedura generale prevista dall’art. 2 della legge n. 604/1966, così come modificato dall’art. 2, secondo
comma della legge n. 108/1990. Nel caso in cui, invece, il licenziamento venga intimato per motivi
disciplinari, si segue la procedura più complessa prevista dall’art. 7 della legge n. 300/1970.
17
SANTORO PASSARELLI, Flessibilità e diritto, cit., pag. 19.
10
3. Flessibilità e riforme: il perché dell’emanazione del decreto legislativo
n. 276/2003.
Di rendere più flessibile il mercato del lavoro si è sentita l’esigenza già nella
prima metà degli anni ottanta, quando il nostro Paese versava in una fase di forte stallo
economico dovuta alla crisi petrolifera degli anni settanta, che ha fatto lievitare il costo
del lavoro, e a maggior ragione se ne sente l’esigenza tutt’oggi.
L’attentato dell’11 settembre alle Twin Towers, gli interventi in Afghanistan e in
Iraq che hanno fatto sì che l’intero mondo occidentale si avventurasse in una micidiale
spirale di guerra-terrorismo, ha portato le economie occidentali a cadere in una fase di
forte depressione
18
.
In Italia, la globalizzazione, il fenomeno delle “Tigri Asiatiche” che “rubano
terreno” e acquirenti alle nostre imprese ponendo sul mercato italiano, comunitario e
straniero, prodotti a bassissimo costo
19
, i forti tagli ai fondi da destinare alle imprese
(purtroppo sempre più frequenti nelle ultime finanziarie), allo scopo di investirli in
ricerca per migliorare le infrastrutture e risultare più competitive, tutto questo ha messo
in seria crisi le imprese italiane, facendo perdere alle stesse notevole competitività.
Se alla perdita di competitività delle imprese e alla crisi della finanza pubblica,
aggiungiamo anche la perdita del potere di acquisto delle retribuzioni, e di conseguenza
la riduzione dei consumi, nonché un alto tasso di disoccupazione, otteniamo un quadro
serio dei fattori del “declino italiano”. Di conseguenza, a gran voce si è chiesto (sia da
parte di Confindustria che delle stesse associazioni sindacali, esclusa la CGIL) un
“aggiornamento” del mercato del lavoro, un intervento sostanziale che tenesse conto
delle esigenze non solo dei singoli lavoratori ma anche delle imprese, così da far
riemergere il Paese dalla crisi in cui sempre più sta affondando.
Un intervento che si è realizzato con l’emanazione del decreto legislativo n. 276
del 10 Settembre 2003, entrato in vigore il 9 Ottobre dello stesso anno, il quale ha
risposto al richiamo flessibilizzando e frammentando ancora di più i rapporti di lavoro e
le singole fattispecie contrattuali.
18
MARIUCCI, Dopo la flessibilità cosa? Riflessioni sulle politiche del lavoro, in Riv. giur .lav, 2005,
n.3, pag. 509.
19
Il che dovuto ai diversi costi di produzione del lavoro non solo in termini monetari ma di tutele
complessive. In particolare si fa riferimento a quei Paesi asiatici, ormai superpotenze economiche, che
non solo non sono dotati di validi ammortizzatori sociali o di statuti legislativi a tutela dei diritti dei
lavoratori, ma tutt’oggi ancora stentano a riconoscere ai propri cittadini i più elementari diritti umani.
11
Ma nessuna delle analisi serie dei fattori del “declino italiano” sopra richiamate
indica nella rigidità dell’uso della forza lavoro la radice dei problemi e nelle misure di
flessibilizzazione del lavoro la terapia
20
.
In realtà il mercato del lavoro ha subito continue opere di restyling da parte del
legislatore, che vedono questa riforma come ultima, ovviamente solo in senso
temporale. Essa si fa portavoce di innumerevoli e indiscutibilmente meritevoli finalità,
che si collocano nel quadro degli orientamenti comunitari in materia di occupazione,
concretizzandosi nel tentativo di promuovere l’aumento dei relativi tassi e in
contemporanea, della qualità e stabilità del lavoro. Tali finalità rappresentano il
traguardo di un percorso evolutivo lungo e complesso, incominciato in sede comunitaria
e successivamente trasferitosi e sviluppatosi anche in ambito nazionale.
A tale processo si è dato inizio con il Consiglio Europeo straordinario
sull’occupazione di Lussemburgo
21
del 20 e 21 novembre 1997, la cui validità è stata
successivamente confermata dal Consiglio Europeo di Lisbona del 23 e 24 Marzo 2000:
in quella occasione, si è infatti giunti a un accordo volto a creare una strategia
coordinata per le politiche nazionali dell’occupazione, basata su una metodologia
innovativa, denominata “sorveglianza multilaterale”, che consiste nella predisposizione
di obiettivi condivisi, verificabili e regolarmente aggiornati. In questa ottica il Consiglio
Europeo, su proposta della Commissione, adotta per ciascun anno, una decisione
relativa agli “orientamenti per la politica degli Stati membri in materia di occupazione”.
Nel Consiglio straordinario di Lussemburgo si è deciso di dare seguito alla
strategia dell’occupazione, nonostante il Trattato di Amsterdam del 1997 non fosse
ancora entrato in vigore; i provvedimenti approvati si sono fondati, in base a quanto
ovviamente concordato nel corso del vertice di Lussemburgo, su quattro pilastri
fondamentali: occupabilità, imprenditorialità, adattabilità delle imprese e dei loro
lavoratori, pari opportunità.
A partire dagli orientamenti per l’occupazione per il 2001, alle misure relative a
ogni pilastro sono stati premessi degli obiettivi (definiti orizzontali), diretti a creare
condizioni di piena occupazione, nell’ambito dei quali si è stabilito che gli Stati membri
20
MARIUCCI, Dopo la flessibilità cosa?, cit., pag. 509.
21
Il processo straordinario di Lussemburgo sull’occupazione, si è fondato sul Titolo VIII del Trattato di
Amsterdam entrato in vigore il 1° Maggio del 1999.
12
dell’Unione Europea devono fissare strategie nazionali volte a un complessivo aumento
dei tassi di occupazione.
Analizzando in maniera più approfondita i singoli pilastri, per quello che concerne
l’occupabilità, e di conseguenza l’aumento del tasso di occupazione, i singoli Stati
membri devono attivarsi allo scopo di favorire l’inserimento professionale dei
disoccupati, prevedendo delle misure di formazione e predisponendo politiche volte a
fare in modo che i lavoratori più anziani non lascino troppo precocemente il proprio
posto di lavoro. Il messaggio della “piena occupazione”, lanciato al vertice di
Lussemburgo e poi proseguito in quello di Lisbona, ha inteso spingere quindi, alla
ricerca di soluzioni per aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, la quale
risultava troppo bassa per riuscire a garantire la sostenibilità dei sistemi di sicurezza
sociale. L’elemento simbolico è rappresentato da un triangolo in cui la politica
economica, quella per l’occupazione e quella sociale si danno forza in maniera
reciproca e hanno un ruolo equivalente nel tracciare la via dello sviluppo.
In altre parole, il buon funzionamento del mercato del lavoro e la piena
occupazione, unita alla qualità degli standard sociali e alla solidità della rete di
sicurezza, devono caratterizzare quella combinazione di politiche necessaria a far
progredire la costruzione del modello sociale europeo. I “dati” che aiutano a
incrementare l’occupazione e a rafforzare la coesione sociale sono: un’elevata crescita
economica con un’inflazione contenuta e una finanza pubblica sana (esattamene ciò che
manca all’Italia e non solo ad essa). Ma anche un livello adeguato di tutele,
un’istruzione accessibile e di qualità, che accompagnati da politiche sociali mirate,
risultano essere di importanza fondamentale
22
per l’adattamento dei sistemi economici
al cambiamento, per incentivare l’aggiornamento delle capacità professionali della forza
lavoro e migliorare la competitività.
Da quanto osservato ne deriva che l’aumento del tasso di occupazione è un
obiettivo prioritario perché da esso dipende la possibilità di finanziare il sistema di
protezione sociale. L’interazione dinamica di questi tre ambiti (politica economica, per
l’occupazione e politica sociale) costituisce dunque, il nucleo fondamentale della
“agenda per la politica sociale” adottata al vertice di Nizza nel dicembre del 2000, con il
progetto (forse troppo ambizioso) di trasformare l’Unione europea nella “economia
22
GEROLDI-PRINCIPE, op. cit., pag. 21.
13
basata sulla conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, in grado di generare
una crescita economica sostenibile, con più posti di lavoro di migliore qualità e una
maggiore coesione sociale
23
”. Infatti, se già in passato la politica sociale ha permesso
all’Unione europea di gestire grandi cambiamenti attutendo gli effetti sociali negativi,
per il futuro è opportuno e fondamentale ammodernare il modello sociale investendo
nelle persone e costruendo un sistema di welfare attivo, così da esaltarne i valori di
solidarietà e di giustizia, senza compromettere i risultati economici. Questo comporta la
costruzione di un modello concertato di flessibilità e di sicurezza (definita “flexicurity”)
da un lato, mentre dall’altro è necessaria la costruzione di una strategia per
l’occupabilità basata su strumenti di politica attiva e sui servizi, ma anche sulla qualità e
la promozione sociale del lavoro con un aiuto consistente alle fasce deboli e un’effettiva
parità di genere.
Ciò che emerge da questo quadro d’insieme, è una visione del cambiamento
dinamica e cosciente del fatto che la crescita economica, in un sistema competitivo,
comporta continue innovazioni e capacità di adattamento e in merito “ci si rifiuta di
aderire passivamente all’idea che l’esito migliore sia quello determinato dall’agire
spontaneo del mercato (la c.d. mano invisibile)
24
”. Solo in questo quadro il lavoro può
effettivamente beneficiare del potenziamento dei servizi finalizzati all’incontro tra
domanda e offerta. Una trasformazione che deve necessariamente contare su una larga
presenza di soggetti privati, la cui azione, per ottenere un migliore risultato sul piano
dell’efficienza gestionale, va integrata a quella del servizio pubblico per l’impiego e dei
servizi sociali, in forme che devono trovare concreta attuazione ai livelli locali, dove le
parti sociali sono chiamate a intervenire attivamente, non solo per definire gli obiettivi
da perseguire, ma anche per progettare le misure da adottare per poi valutarne la loro
efficacia.
Nonostante i ripetuti richiami alla strategia europea quale fonte ispiratrice di ogni
riforma in materia di politica del lavoro, l’azione del Governo italiano nel campo
dell’occupazione, dall’applicazione delle direttive in materia di contratti a tempo
determinato, fino alle recenti deleghe sul lavoro e al decreto legislativo n. 276, si muove
in direzioni che hanno ben poco a che fare con i delicati equilibri sopra esposti. La
strada seguita in proposito dal nostro legislatore accoglie solo in parte le linee guida
23
Ibidem.
24
Ibidem, pag. 22.
14
comunitarie, ossia solo quelle che fanno riferimento alla flessibilità contrattuale in
funzione dell’occupabilità e dell’adattabilità del mercato del lavoro, ampliandone però a
dismisura la portata e trascurando i punti essenziali della stessa strategia europea.
Alcuni esempi sono dati dalla maggiore presenza dei privati nell’intermediazione di
manodopera, che se da un lato può risultare utile all’accrescimento dell’efficacia dei
servizi per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, dall’altro lato si trasforma in una
emarginazione del servizio pubblico, impoverendone il ruolo di utilità collettiva con
effetti negativi soprattutto per i lavoratori più deboli.
In riferimento al pilastro dell’imprenditorialità, gli obiettivi stabiliti sono volti a
semplificare l’avvio e la gestione delle imprese, eliminando eventuali ostacoli e
promuovendo la creazione di attività di lavoro autonomo. In sostanza si tratta di
predisporre sistemi di formazione in grado di sostenere gli imprenditori o coloro che
aspirano a divenire tali.
Quanto all’adattabilità, gli orientamenti per l’occupazione prevedono la necessità
di modernizzare l’organizzazione del lavoro, a livello sia di accordi tra parti sociali sia
di provvedimenti normativi in senso stretto. Questi accorgimenti, almeno in teoria,
dovrebbero favorire l’adozione di modalità flessibili nella gestione del rapporto di
lavoro (soprattutto con riferimento alle modulazioni dell’orario), senza incidere
negativamente sulla sicurezza e qualità del lavoro (ecco di nuovo la c.d. flexicurity, un
mix tra flessibilità e sicurezza).
Con riguardo all’ultimo pilastro, quello delle pari opportunità, gli Stati membri
sono chiamati a porre in essere misure volte ad incrementare il tasso di occupazione
femminile, tre le quali vi rientrano: la previsione di politiche attive rivolte
specificamente alle donne, la rimozione degli ostacoli che esse incontrano nella
creazione di attività imprenditoriali o di lavoro autonomo, la previsione di un’ampia
possibilità di ricorso a forme flessibili di lavoro (che non compromettano la qualità
stessa del lavoro), nonché la possibilità per le lavoratrici di accedere a percorsi di
istruzione e formazione permanenti. Si prevede anche che siano adottati provvedimenti
al fine di ridimensionare il tasso di disoccupazione femminile, di permettere che le
donne siano presenti in tutti i settori e le professioni in maniera omogenea, di
promuovere la parità retributiva per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
Anche su questo punto l’Italia risulta agli ultimi posti rispetto agli altri Stati membri,
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tant’è che in merito alle rappresentanti donne in politica numerosi sono stati i richiami
dell’Europa volti ad ottenere un aumento delle “quote rosa” all’interno del Parlamento
italiano, appelli che tuttavia sono rimasti inascoltati soprattutto dalla classe politica
attualmente al Governo che conta il minor numero di presenze femminili rispetto
all’altra coalizione.
Per quello che invece riguarda le donne, che abbiano o meno interesse a
partecipare attivamente alla vita politica, ciò che più riveste importanza, consiste nella
predisposizione di politiche volte a permettere alle lavoratrici di conciliare nel modo
migliore possibile le esigenze di vita familiare con quelle di lavoro.
Il raccordo tra gli obiettivi espressi a livello comunitario e le politiche nazionali
per l’occupazione è garantito dal Piano Nazionale d’Azione per l’Occupazione (NAP)
25
,
che rappresenta lo strumento di carattere programmatico, elaborato annualmente da
ciascuno Stato membro mediante il quale, ogni Stato si propone obiettivi in termini di
incremento del tasso di occupazione e di miglioramento della qualità del lavoro, nonché
le scadenze per realizzarli specificando le risorse finanziarie e amministrative che
intende impiegare per realizzarle.
La riforma del mercato del lavoro varata in Italia si colloca in questo complesso
contesto, anche se il decreto di attuazione emanato si è totalmente disinteressato di
disciplinare la tematica (peraltro presente nella legge delega) riguardante le forme di
tutela dei lavoratori nonché l’adeguamento degli ammortizzatori sociali, rimandata a un
secondo disegno di legge
26
. Sebbene questo disegno di legge contenga ancora
indicazioni piuttosto contraddittorie, possiamo anticipare che gli ammortizzatori sociali
sembrano concentrarsi su un parziale miglioramento del trattamento ordinario di
disoccupazione, non prestando alcuna attenzione per gli strumenti che si possono
attivare senza interruzione del rapporto di lavoro, a cominciare da quelli di solidarietà, e
senza alcuna considerazione in merito alla protezione della crescente massa di soggetti
contrattualmente meno tutelati.
25
Piano Nazionale d’Azione per l’Occupazione (NAP), è il documento programmatico in cui gli Stati
dell’Unione Europea danno conto dell’attuazione delle politiche del lavoro, dei progressi realizzati, delle
risorse anche comunitarie impegnate, ed espongono gli impegni futuri.
26
d.d.l. n. 848-bis, relativo alle modifiche dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e alla riforma degli
ammortizzatori sociali che giace ancora in Parlamento. Cosicché della disciplina dei licenziamenti, la cui
riforma era invocata a gran voce come strumento essenziale per promuovere nuova occupazione, non si
sono neppure modificate le parti che invece meritavano di esserlo, quali l’accelerazione delle procedure
per le controversie giudiziarie. La stessa Confindustria, nel corso di una recente audizione al Senato, ha
dichiarato di non essere più interessata al tema.
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Lo “Statuto dei lavori”
27
è una parte molto importante del “Libro Bianco del
lavoro” che non ha trovato spazio, però, nella legge delega. Questo statuto è quello
stesso ideato da Tiziano Treu nel 1998, il quale, sebbene non sia stato preso in
considerazione nella passata legislatura, è stato ripresentato nella nuova legislatura del
secondo governo Berlusconi.
Proprio Marco Biagi, coautore insieme con Tiziano Treu dello “Statuto dei
lavori”, ha recuperato e valorizzato la vecchia idea, e dopo avervi apportato modifiche
nell’impianto e in qualche contenuto lo cita e lo teorizza, appunto, nel Libro Bianco del
2001, su cui si basa la legge delega. Questo statuto consiste in un corpo di diritti
fondamentali rivolto a tutti i lavoratori, non solo a quelli del pubblico impiego o della
grande e media impresa, ed è realizzato in modo da superare – una volta per tutte – quel
dualismo tra ipertutelati e precari riconducibile ad una cattiva e miope distribuzione
delle tutele.
Molti autori hanno criticato il ritardo di tale codificazione; qualcuno
28
invece, la
giustifica, argomentando che prima della codificazione bisogna procedere ad aggregare
e fare emergere, attraverso le nuove tipologie contrattuali, quella miriade di prestazioni
lavorative collocate nell’area del lavoro grigio, e sempre più spesso in quella del lavoro
nero. Operando diversamente, solo parzialmente si sarebbe riusciti ad impostare la
questione dei lavori “dalla parte delle tutele” piuttosto che dalla parte della
qualificazione del rapporto, ottenendo come risultato uno Statuto dei lavori che si
colloca nella prospettiva della “dipendenza economica” del lavoratore, tagliando fuori
tutte le altre forme di lavoro. Quindi, “codificare prima di avere aggregato e fatto
emergere tutte quelle prestazioni, sarebbe stata probabilmente un’operazione meritoria
quanto priva di efficacia rispetto ai processi normativi reali”
29
. La necessità di far
emergere le collaborazioni fittizie e il lavoro nero ha dato il via a un processo di
emersione e ristrutturazione del mercato del lavoro; per raggiungere questo scopo,
secondo l’autore, è stata operata una forte diversificazione delle tipologie contrattuali,
volte in una prima fase alla regolarizzazione, strutturazione ed emersione dei numerosi e
27
D.d.l. 3 Marzo 2000 AC 6835.
28
TIRABOSCHI, Il decreto legislativo 10 Settembre 2003, n. 276: alcune premesse e un percorso di lettura,
in TIRABOSCHI (a cura di ), La Riforma Biagi del mercato del lavoro, Milano, 2004, pag. 20 e ss.
29
Ibidem.
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