10
come una sorta di sfida lanciata all’assemblea, e il sorriso, assieme alla
sfida proposta, rappresenta il primo mondō (“domanda e risposta”) zen.
4
Il
kōan, dunque, è una diretta auto-espressione del Buddha o del Dharma,
ovvero una spontanea espressione della mente risvegliata dei patriarchi che
originariamente li hanno formulati, poiché la loro illuminazione è identica a
quella di Shakyamuni. Con il Buddhismo Zen, infatti, il Buddha scende
sulla terra e diventa umano, mentre, al tempo stesso, la terra viene
santificata dalla sua presenza e il linguaggio si fa strumento di
illuminazione.
Da tale punto di vista, si potrebbe dire che il kōan sia una medicina
“omeopatica,”
5
dal momento che si usa il linguaggio per curare la malattia
del linguaggio, ossia la dualità tra soggetto e oggetto che esso produce, e
approdare alla visione unitaria della realtà, basata sul vuoto, tipica del
Mahāyāna. L’azione liberatrice, quindi, non sta tanto nel disfarsi del
linguaggio e rimanere quieti e immobili in una dimensione che va oltre la
discriminazione, quanto nel recuperare il linguaggio con una
consapevolezza totalmente nuova.
Ciò è evidente se si considera che i sūtra acquistano la loro ragion
d’essere in quanto espressione della verità e lo Zen, che rivendica di essere
una “tradizione separata al di fuori delle scritture” e “non fondata su parole
e caratteri,”
6
attinge la sua posizione verso il linguaggio e l’esperienza
dell’illuminazione da numerosi sūtra Mahāyāna, quali il Lankāvatāra
Sūtra, il Vajracchedikā Sūtra, lo Hŗdaya Sūtra, il Vimalakīrti Nirdeśa
Sūtra o l’Avatamsaka Sūtra. Diverse sono, inoltre, le influenze della scuola
Mādhyamika e del pensiero di Laozi e di Zhuangzi, che esamineremo nel
primo capitolo.
4
Cfr. Richard DE MARTINO, “On Zen Communication”, in Communication, 8, 1983, pp. 13-28.
5
Cfr. Bernard FAURE, Chan Insights and Oversights: An Epistemological Critique of the Chan
Tradition, Princeton, N. J., Princeton University Press, 1993.
6
Tale definizione dello Zen è generalmente attribuita a Bodhidharma (G. Daruma), il fondatore della
scuola Zen. [Cfr. Albert WELTER, “Mahākāśyapa’s Smile: Silent Transmission and the Kung-an (Kōan)
Tradition,” in Steven Heine, and D. S. Wright (eds.), The Köan: Texts and Contexts in Zen Buddhism,
Oxford, Oxford University Press, 2000, p. 79]
11
Malgrado l’elaborazione di un linguaggio e di una pratica originali come
quelli del kōan, lo Zen mostra un indebitamento con la vasta tradizione
Mahāyāna e la cultura cinese. La volontà di stabilire una propria tradizione,
tuttavia, portò la scuola Zen a identificare Bodhidharma come suo
fondatore e sua fonte di legittimità e a rigettare le altre dottrine e istituzioni
buddhiste. L’ortodossia venne definita attraverso la codificazione dei kōan
nel periodo Song e la creazione di biografie di maestri chan (C. Chuandeng
lu, G. Dentōroku), trascrizioni di discorsi (C. Yulu, G. Goroku) e vere e
proprie raccolte di kōan, quali il Wumenguan (G. Mumonkan), compilato
da Wumen Huikai (1183-1260) nel 1228, e il Biyan lu (G. Hekiganroku),
compilato da Yuanwu Koqin (1063-1135) nel 1125. I kōan, infatti, limitano
qualsiasi tipo di arbitrarietà, preservando nel tempo l’identità di
illuminazione e rendendo chiara l’intenzione (yi) dei patriarchi. Con essi,
inoltre, il nucleo della pratica spirituale si sposta dagli esercizi meditativi e
contemplativi, caratteristici del sentiero buddhista tradizionale (Skt.
mārga), che mirano ad eliminare le contaminazioni, alla interazione
personale tra maestro e discepolo, ovvero il cosiddetto dialogo di incontro
(C. jiyuan wenda, G. kien mondō). Nella scuola Chan, infatti,
l’identificazione del maestro non è data dai sermoni dottrinali, ma dal tipo
di interazione che egli ha con gli studenti, poiché la verità viene indicata
attraverso le attività spontanee della vita quotidiana.
La codificazione dei kōan, comunque, come vedremo nel secondo
capitolo, portò all’uso di questi ultimi come oggetto di meditazione,
culminando nel kanhua Chan (“Chan dell’osservare la frase critica”) di
Dahui Zonggao (1089-1163), secondo il quale ci si doveva concentrare
sullo huatou (“frase critica” di un kōan), senza soffermarsi sul suo
significato, fino ad arrivare al Grande Dubbio (daigi) e alla Grande Morte
(daishi), ossia il risveglio.
12
A tale concezione della pratica del kōan contribuì anche l’insegnamento
di Yuanwu Koqin, il quale insegnò che i kōan non sono semplicemente
delle “parole morte” (C. siju) o trascrizioni dei dialoghi con i maestri
antichi, ma sono delle “parole vive” (C. huoju), che indicano direttamente
la mente di ciascun individuo e che hanno una rilevanza immediata (C.
xiancheng, G. genjō) nel sentiero verso l’illuminazione. In tal senso, il kōan
potrebbe essere visto come un tipo di enunciato performativo, il cui
significato deriva non tanto dalla sua intelligibilità, quanto dalla sua
capacità di catalizzare il risveglio, ovvero dalla sua qualità performativa.
La codificazione, inoltre, condusse all’inizio della pratica del jakugo,
ossia l’annessione di “frasi completanti,” in prosa o in versi, ai kōan delle
raccolte,
7
come è possibile vedere nel Mumonkan e nello Hekiganroku.
Uno dei primi sostenitori della pratica del jakugo in Giappone, come
vedremo nel terzo capitolo, fu il maestro zen Shuhō Myōchō, che ottenne il
titolo postumo di Daitō Kokushi (1282-1337). Daitō visse nella fase finale
dello Zen antico
8
e contribuì, con la sua enfasi sull’importanza del kōan e
sul primato dell’illuminazione, a rendere autoctona e indipendente una
scuola che sembrava alquanto estranea per linguaggio, pratica,
organizzazione monastica e architettura. Egli, infatti, scelse di non andare a
studiare in Cina, poiché era convinto che lo Zen autentico si potesse trovare
anche in Giappone, e divenne il punto di riferimento costante dei più grandi
maestri rinzai, quali Ikkyū (1394-1481) e Hakuin Ekaku (1686-1768).
Malgrado Myōan Eisai (1141-1215) venga considerato il fondatore della
scuola Rinzai (C. Linji),
9
infatti, egli era essenzialmente un maestro tendai,
che, attraverso un sincretismo di insegnamenti e pratiche dello Zen, dello
7
Attraverso questa pratica, venne ricreato, in forma scritta, un contesto orale generalmente legato al
dialogo di incontro.
8
Per Zen antico si intende lo Zen del periodo Kamakura, mentre lo Zen dei periodi Muromachi e
Momoyama rappresenta lo Zen classico.
9
Bisogna, comunque, precisare che i tentativi di introduzione dello Zen in Giappone risalgono al periodo
Heian, ma il loro fallimento dimostra che probabilmente i tempi non erano ancora maturi per accogliere
tale forma di Buddhismo.
13
Shingon e del Tendai, intendeva rivitalizzare la scuola cui apparteneva in
un periodo di grande decadenza spirituale.
Un’altra personalità che contribuì all’introduzione e al consolidamento
della scuola Zen in Giappone fu Dōgen Kigen (1200-1253), fondatore della
scuola Sōtō (C. Caodong), che, come vedremo nel quarto capitolo, compilò
una raccolta di trecento casi antichi, intitolata Shōbōgenzō Sanbyakusoku, e
introdusse una nuova visione del kōan come genjō kōan (“il kōan
realizzato”).
Mentre la visione psicologica o filosofica del kōan proposta da diversi
studiosi del ventesimo secolo ha spesso fatto pensare ad una biforcazione
troppo netta fra la razionalità e l’inesprimibile illogicità del kōan o di una
realtà trascendentale, Dōgen riporta l’attenzione alla razionalità del
Buddha-dharma. Egli, infatti, interpreta la pratica del kōan come una
realizzazione (genjō)
10
momento per momento di tale razionalità ed una
continua rivelazione di significati, mettendo in evidenza la complessità del
linguaggio zen. Quest’ultimo, infatti, è un linguaggio multi-dimensionale,
che crea e annulla significati al tempo stesso, poiché è sia mitologico che
demitologico. Se nel kanhua Chan prevale l’aspetto demitologico e ironico
del kōan, nello Zen di Dōgen, la cui continua attività ermeneutica portò alla
creazione del Kana Shōbōgenzō, è fondamentale l’aspetto simbolico e
metonimico.
In Dōgen, il simbolo viene esplorato in tutta la sua polisemia, in modo
da rivelare diversi aspetti della verità e il linguaggio non viene più visto
come un mezzo che conduce ad un fine, ma come un mezzo che incarna il
fine. Ciò vuol dire che le parole, il silenzio e tutti i fenomeni dell’universo,
così come sono (inmo), sono auto-espressioni (jidōshu) e attività della
Natura di Buddha.
11
10
Si intende realizzazione sia nel senso di “comprensione” che nel senso di “rendere reale” attraverso se
stessi.
11
Il linguaggio, infatti, pur essendo essenzialmente dualistico, quando entra a far parte della non-dualità,
abolisce qualsiasi iato fra parola e referente e fra realtà e simbolo.
14
Il genjō kōan è, appunto, la realizzazione del kōan come assoluta verità
dinamicamente presente nella vita e la comprensione della realtà oggettiva
attraverso il superamento della soggettività. Lasciar cadere il corpo/mente,
infatti, è il fondamento della pratica, che è identica all’illuminazione
(shūshō ichinyo). Dalla pratica, dunque, non ci si deve aspettare nulla,
eccetto che “stare semplicemente seduti” (shikantaza).
L’importanza della pratica del kōan nella scuola Sōtō è evidente anche
nel periodo Muromachi, in cui, come testimoniano i kirigami,
12
il
linguaggio e le tecniche dello studio del kōan permearono le attitudini dei
monaci sōtō nei confronti di tutte le pratiche religiose.
Nel periodo Muromachi, inoltre, il maestro zen Ikkyū (1394-1481)
denunciò le divisioni e la decadenza spirituale che erano sorte nella scuola
Rinzai.
Diversi furono i tentativi di riformare la scuola Rinzai,
13
ma, come
vedremo nel quinto capitolo, il problema venne risolto solo nel periodo
Tokugawa, quando Hakuin Ekaku riuscì a rivitalizzare la scuola Rinzai,
rigettando la convinzione generale che il Buddhismo si trovasse nell’epoca
della fine del dharma (mappō). Basandosi sugli insegnamenti di Xutang
Zhiyu (G. Kidō Chigu, 1185-1269), Hakuin cercò di tornare alla rigida
pratica del kōan del periodo Song, cui aggiunse nuovi elementi giapponesi
e una particolare attenzione ai metodi per salvaguardare la salute.
Secondo Hakuin, il praticante zen poteva raggiungere, attraverso i propri
sforzi (jiriki), molteplici illuminazioni, poiché il satori, una volta raggiunto,
doveva essere continuamente approfondito per mezzo di una sistematica
pratica post-satori. A tale scopo, Hakuin elaborò un sistematico percorso di
studio del kōan, distinguendo fra cinque categorie di kōan: hosshin
(“Dharmakāya”), kikan (“funzionamento”), gonsen (“espressioni verbali”),
12
I kirigami sono documenti che descrivono le procedure dei rituali privati e adottano spesso un formato
di domanda e risposta molto simile a quello dei kōan.
13
Una delle spinte a realizzare tale riforma venne dall’introduzione in Giappone, nel periodo Tokugawa
(1600-1868), della scuola Ōbaku, che rivendicava di essere l’autentico Zen.
15
nantō (“difficili da penetrare”) e kōjō (“andare oltre”) o goi jūjūkin (“i
cinque ranghi e i dieci precetti”). Tale sistema sta alla base dell’odierna
pratica del kōan e implica la necessità di realizzare il kenshō (“vedere la
propria natura”) prima di intraprendere qualsiasi attività intellettuale e di
non accontentarsi di tale realizzazione, ma andare sempre oltre (kōjō). Il
kenshō, infatti, permette di vedere la non-dualità fra soggetto e oggetto,
ovvero fra il praticante e il kōan su cui medita, ma il vero obiettivo è far
coesistere entrambi gli aspetti, condizionato e incondizionato, della propria
vita. Tale concezione si basa sul principio di reciproca interpenetrazione fra
shō’i (“Dritto”) ed hen’i (“Curvo”), ovvero fra Assoluto e relativo, nel
contesto dei Cinque ranghi (goi).
L’originalità di Hakuin, comunque, è manifesta non solo
nell’elaborazione di un sistema di kōan, ma anche nella creazione di nuovi
kōan, quali il “Suono di una sola mano” (Sekishu no onjō), che potessero
condurre i praticanti zen al Grande Dubbio. L’invenzione del kōan del
“Suono di una sola mano” coincide con la profonda intuizione di Hakuin
del significato dei Cinque ranghi, in quanto egli identifica il “Suono di una
singola mano” con il secondo rango, il “Dritto all’interno del Curvo” (G.
Henchūshō, C. Pian-zhong-zheng), in cui si realizza l’interpenetrazione
senza ostruzioni fra Assoluto e mondo fenomenico, fra shō’i ed hen’i.
La rivitalizzazione dello Zen Rinzai ad opera di Hakuin, inoltre, portò ad
una popolarizzazione della scuola e a una divulgazione dei suoi temi
peculiari sia tra i guerrieri che tra le classi sociali più umili. Tale attitudine
nei confronti dei laici accomuna Hakuin a Dahui Zonggao, i cui
insegnamenti stanno alla base dello Zen Rinzai non solo giapponese, ma
anche coreano.
Il confronto fra gli insegnamenti di Dahui, Chinul, fondatore della scuola
Rinzai coreana, e Hakuin, nella parte finale del quinto capitolo, infine,
mostra che la pratica del kōan non può prescindere dal linguaggio e dalla
16
comprensione intellettuale, siano essi intesi come barriere da superare,
come basi dell’illuminazione o come compimento dell’illuminazione.
Possiamo concludere, pertanto, che il kōan è un’autentica
esemplificazione della Via di Mezzo, ovvero una manifestazione della
fusione tra verità convenzionale e verità ultima, per cui il linguaggio non è
altro che verità e la verità non è altro che linguaggio.
17
CAPITOLO 1. FORMAZIONE E SVILUPPO DEL
KŌAN
1.1. IL KŌAN: FUNZIONE E ORIGINI
È difficile dare una definizione di “kōan” che possa essere immediatamente
compresa anche da coloro che non hanno familiarità con il Buddhismo Zen
o la più ampia tradizione Mahāyāna di cui esso è autentica espressione.
Pertanto, credo che sia opportuno, innanzitutto, fornire degli esempi, per
accostarci ad una pratica che spesso è stata considerata un assurdo enigma
o indovinello. Il kōan più conosciuto è, senza dubbio, il “Mu” di Jōshū (C.
Zhaozhou):
Un monaco chiese a Jōshū: “Un cane ha la Natura di Buddha?”
Jōshū rispose: “No (C. Wu, G. Mu).”
1
Altri kōan molto noti sono:
Nansen un giorno vide i monaci della sala orientale e della sala occidentale litigare per
un gatto. Egli sollevò il gatto e disse: “Se voi sapete darmi una risposta, io non lo
ucciderò.” Nessuno seppe rispondere. Nansen tagliò il gatto in due.
2
Nansen raccontò la precedente storia a Jōshū e chiese la sua opinione. Jōshū, allora, si
tolse i sandali e, mettendoseli sulla testa, andò via. Nansen disse: “Se tu fossi stato lì, il
gatto sarebbe stato salvato.”
3
Un monaco chiese ad Ummon: “Che cos’è il Buddha?”
Ummon rispose: “Un cumulo di escrementi secchi.”
4
1
Caso 1 del Mumonkan [Cfr. Katsuki SEKIDA, Two Zen Classics: Mumonkan and Hekiganroku, New
York, Weatherhill, 1977, p. 27 (la traduzione dall’inglese è mia). Cfr. anche R. H. BLYTH, Zen and Zen
Classics, vol. IV: Mumonkan, Tōkyō, Hokuseidō, 1974-76, p. 22]. Bisogna notare che il termine “mu,” in
genere usato come prefisso negativo, significa letteralmente “non,” sottintendendo una negazione non
assoluta, che gioca con il limite sfuggente tra negazione e affermazione.
2
Caso 14 del Mumonkan e caso 63 dell’Hekiganroku. [Cfr. Katsuki SEKIDA, Two Zen Classics…, cit.,
pp. 58, 319]
3
Caso 64 dell’Hekiganroku [Cfr. Ibidem, p. 320]. L’intero episodio, costituito dai due casi, viene anche
riportato in Yoel HOFFMAN, Zen radicale: I detti del maestro Jōshū, trad. di Fabrizio Pregadio, Roma,
Casa Editrice Astrolabio - Ubaldini Editore, 1979 (ed. or. Radical Zen: the Sayings of Master Jōshū,
1978), p. 15.
18
Un monaco chiese a Tōzan: “Che cos’è il Buddha?”
Tōzan disse: “Tre libbre di lino.”
5
Da tali esempi si evince che i kōan sono delle massime, dei dialoghi o degli
aneddoti, di forma molto breve e di natura paradossale, che hanno come
loro figure principali i patriarchi della scuola Chan/Zen. Sfidando spesso la
logica e il senso comune, essi si collocano in una dimensione che va al di
là dei dualismi e delle relative dicotomie attraverso cui opera la mente
convenzionale ed esprimono i vari aspetti del risveglio zen.
La funzione dei kōan, inoltre, è duplice, in quanto, da una parte,
costituiscono dei criteri in base ai quali viene giudicata l’autenticità del
risveglio, dall’altra, rappresentano degli espedienti grazie ai quali quei
criteri possono essere raggiunti e realizzati. Alla base di questa duplice
funzione sta la concezione dei kōan come espressione della mente
risvegliata dei patriarchi. Esaminiamo, ora, più in dettaglio, il significato di
tali definizioni.
Si pensa che, nella loro fase iniziale, i kōan fossero degli eventi nati
spontaneamente e naturalmente nel contesto della pratica quotidiana, in cui
si assisteva ad una trasmissione della Mente da maestro a discepolo. Tale
trasmissione della Mente trova le sue origini in una storia narrata nel
Mumonkan
6
e altri testi antichi
7
, secondo la quale Śākyamuni Buddha, di
fronte ad una assemblea di discepoli riunitasi sul Monte Grdhrakuta,
sollevò semplicemente un fiore, senza proferire alcuna parola. Tutti i
discepoli furono disorientati dal suo gesto, eccetto uno, Mahākāśyapa, che
sorrise. Gautama, allora, disse: “Io ho l’Occhio del Vero Dharma, la
Meravigliosa Mente del nirvāņa, la Vera Forma del Senza Forma, il
4
Caso 21 del Mumonkan. [Cfr. Katsuki SEKIDA, Two Zen Classics…, cit., p. 77]
5
Caso 18 del Mumonkan. [Cfr. Ibidem, p. 71]
6
Il Mumonkan (C. Wumenkuan) è una raccolta di kōan compilata dal maestro chan Mumon (C. Wumen)
nel 1228.
7
Baolin chuan (801), Tiansheng guangdenglu (1029), Da fantian wang wen fo jueyi jing (testo
probabilmente apocrifo del periodo Song, che va dal 960 al 1279).
19
Cancello del Sottile Dharma, indipendente dalle parole e trasmesso oltre la
dottrina. Questo io ho affidato a Mahākāśyapa.”
8
Secondo Richard De Martino, l’episodio del Buddha Gautama che
solleva il fiore incarna il primo kōan dello Zen, in quanto può essere
considerato come una sorta di sfida lanciata all’assemblea.
9
Tale studioso,
infatti, sostiene che “un kōan è una presentazione zen nella forma di una
sfida zen” ed insiste sul fatto che il kōan non debba essere concepito come
un enigma incomprensibile e privo di senso o un problema irrisolvibile, ma
come una diretta auto-espressione del Buddha o del Dharma. Il kōan,
perciò, è un problema solo fino a quando non viene trovata una risposta alla
sfida che esso propone, come fa Mahākāśyapa, per il quale il messaggio
contenuto nel kōan è estremamente significativo, chiaro e trasparente. Il
sorriso è, qui, la risposta appropriata, che, assieme alla sfida proposta,
costituisce il primo mondō (domanda e risposta) zen, mentre
l’approvazione della risposta da parte di Gautama può essere considerata la
conferma della prima formale trasmissione zen.
10
Ora, in quanto auto-espressione del Buddha o del Dharma, il kōan è
anche una spontanea espressione della mente risvegliata dei patriarchi che
originariamente li hanno formulati, poiché la loro illuminazione è identica a
quella di Śākyamuni. Il linguaggio del kōan, quindi, dà forma
all’esperienza “vuota” dei grandi maestri del passato, indicando, con la sua
stranezza, che il risveglio è qualcosa di fondamentalmente altro rispetto alla
mente ordinaria e, nonostante ciò, ostinatamente ancorato alla realtà
quotidiana. Tale espressione, comunque, non è fine a se stessa, poiché mira
a innescare nel discepolo l’illuminazione istantanea. Nel kōan, dunque,
troviamo la concretizzazione dei due principi fondamentali del Buddhismo
8
Cfr. Katsuki SEKIDA, Two Zen Classics…, cit., p. 41. (caso 6 del Mumonkan)
9
Cfr. R. DE MARTINO, “On Zen Communication”, in Communication, 8, 1983, pp. 13-28.
10
Ritorneremo in seguito su questo argomento per analizzare la connessione della storia con la
rivendicazione da parte del Chan di “non essere fondato sulle parole e sulle scritture.”
20
Mahāyāna, prajñā (“saggezza”) e karuņā (“compassione,” volontà di
salvare tutti gli esseri viventi). Come Ruth Fuller Sasaki fa notare:
Il kōan non è un enigma da risolvere con un abile ingegno. […] Quando il kōan viene
risolto si realizza che esso è una semplice e chiara affermazione fatta dallo stato di
coscienza che ha aiutato a risvegliare.
11
Mumon (1183-1260), autore del Mumonkan, nel commentario al primo
caso della sua raccolta di kōan, ovvero il Mu di Jōshū, afferma:
Per essere padrone dello Zen, devi passare la barriera dei patriarchi. Per raggiungere
questa sottile realizzazione, devi troncare completamente la via del pensiero. […] Ora
io voglio chiederti, che cos’è la barriera dei patriarchi? Ebbene, essa è questa singola
parola “Mu”. Questo è il portale principale dello Zen. Perciò, è chiamato il
“Mumonkan (la barriera senza porta)” dello Zen. Se tu lo attraversi, non solo vedrai
Jōshū faccia a faccia, ma camminerai anche mano nella mano con i successivi
patriarchi, legando le tue sopracciglia con le loro, vedendo con i loro stessi occhi,
ascoltando con le loro stesse orecchie.
12
In questa prospettiva, il kōan non è solo un’espressione o manifestazione
della mente illuminata dei patriarchi, ma è anche uno strumento con cui
poter attingere alla loro stessa illuminazione, un “colpo di mattone per
battere al cancello”.
13
In altri termini, il kōan può essere inteso come un
upāya (“abile mezzo”), uno strumento pedagogico che funge da
catalizzatore del primo passo, la trascendenza del sé, verso l’esperienza del
kenshō.
14
La dottrina dell’upāyakauśalya, ossia l’abilità nella scelta e nell’impiego
dei mezzi salvifici, riconosce al maestro spirituale la capacità di scegliere
11
Cfr. Isshū MIURA and Ruth Fuller SASAKI, The Zen Kōan, New York, Harcourt, 1965, p. XI-XII (la
traduzione dall’inglese è mia).
12
Cfr. Katsuki SEKIDA, Two Zen Classics…, cit., pp.27-28. Vedi anche R.H. BLYTH, Zen and Zen
Classics…, cit., pp. 31-32.
13
Cfr. Ibidem, p. 26.
14
Kenshō significa “vedere la propria natura”, ossia vedere la Natura di Buddha che è comune a tutti gli
esseri viventi e che sta al di là delle forme dualistiche di pensiero, caratteristiche del nostro intelletto.
L’esperienza del kenshō non si limita al ritiro dal mondo convenzionale o alla semplice samādhi, in cui
viene eliminata la distinzione fra soggetto e oggetto, ma comporta anche un ritorno al mondo
convenzionale.
21
l’insegnamento più adatto alle diverse capacità e propensioni individuali
dei discepoli e, più in generale, ai diversi contesti culturali.
Come è ben spiegato nel Sūtra del Loto,
15
il Buddha fece uso dei mezzi
salvifici nell’impartire i suoi insegnamenti ai discepoli, interpretando la
dottrina non come una realtà assoluta, ma come una zattera da abbandonare
appena si è raggiunta l’altra sponda, un veicolo da utilizzare per superare la
sofferenza. In una tradizione come quella zen, non fondata su parole e
caratteri (G. furyū monji), i kōan, essendo pura parola, non potevano che
essere interpretati come upāya, destinati ad esseri viventi che, immersi nel
mondo fenomenico, non possono prescindere dal linguaggio. È, tuttavia,
interessante notare che, in tale contesto, il maestro spirituale che si avvale
degli upāya non è più il Buddha, ma il patriarca, che è considerato uguale
al Buddha, dal momento che, come dice il maestro chan Mazu Daoyi (707-
786), “questa stessa mente è il Buddha.”
16
In base a tale presupposto, verso la fine del periodo Tang (618-907) e nel
periodo Song (960-1279), i kōan furono considerati degni di essere
ricordati e trascritti in biografie di maestri chan (Chuandeng lu),
registrazioni di discorsi (Yulu) e vere e proprie raccolte di kōan. Si può dire
che la storia dei kōan cominci, in realtà, in questo periodo, quando
massime, dialoghi o aneddoti contenuti nelle biografie e nelle registrazioni
dei discorsi dei patriarchi di epoca Tang, percepita come “epoca d’oro”
della scuola Chan, vengono selezionati, innalzati come esempio, e, di
conseguenza, sottoposti ad interpretazioni e commenti.
A questo proposito, è bene notare che il termine cinese “gongan” (“caso
pubblico”), da cui deriva la parola giapponese “kōan,” venne ad essere
riferito alle massime selezionate dai testi chan solo intorno al dodicesimo
secolo, ossia in piena epoca Song. Prima di questo periodo, venivano usati
dei termini diversi, quali “yinyuan” (“evento”) o “guze” (“caso antico”).
15
Cfr. Luciana MEAZZA (a cura di), Sutra del loto, Milano, RCS Rizzoli Libri S.p.A., 2001, pp. 71-98.
16
Cfr. Katsuki SEKIDA, Two Zen Classics…, cit., p. 98.
22
La pratica di commentare sui casi antichi, come testimoniano le fonti
Yulu, iniziò intorno al decimo secolo ed era inserita in contesti formali,
come assemblee pubbliche nella sala del Dharma ed incontri privati o
semiprivati con i discepoli che entravano nella stanza del maestro (rushi)
per ricevere istruzioni individuali. In entrambe le situazioni, era spesso il
discepolo o un membro dell’assemblea a richiedere al maestro un
commento, sollevando (ju) o innalzando un caso antico come esempio
(nian). Poteva accadere, comunque, che fosse il maestro stesso a sollevare
un caso, per sollecitare i commenti del pubblico, che avrebbe poi giudicato,
o semplicemente per introdurre il proprio commento. Da ciò possiamo
dedurre che la pratica del commento sui casi antichi non era solo un mezzo
per trasmettere la saggezza dei patriarchi ai discepoli, ma anche
un’occasione per mostrare l’autorità del maestro stesso, cui è riservato il
diritto di giudicare. Nei testi della metà dell’undicesimo secolo, oltre ai
commenti orali esposti in contesti formali, troviamo anche dei commentari
in versi sui casi antichi (songgu), in cui al caso, interamente citato, vengono
annessi dei componimenti.
Sebbene il termine “kōan” venga spesso usato in riferimento ai dialoghi
(C. wenda, G. mondō) che appaiono nelle biografie o nei testi Yulu, nel suo
senso più ristretto, esso può riferirsi a qualsiasi testo che combini i due
elementi che abbiamo considerato finora: una massima, un dialogo o un
aneddoto tratti dai testi chan e un commentario, in prosa (niangu) o in versi
(songgu), su di essi.
17
Questa restrizione di significato, che rende
necessaria la presenza di un commento autorevole, è giustificata
dall’etimologia della parola gongan, con la quale i casi antichi vengono
rapportati ai casi legali sottoposti al giudizio di un magistrato.
17
Per una trattazione approfondita dell’argomento, cfr. T. Griffith FOULK, “The Form and Function of
Kōan Literature: A Historical Overview,” in Steven Heine, and D. S. Wright (eds.), The Kōan: Text and
Contexts in Zen Buddhism, Oxford, Oxford University Press, 2000, pp. 15-45.