7
Figura I.1 – Un’immagine del processo di cambiamento.
Fonte: Rielaborazione da V. Perrone, 1996.
Di fronte a questo cambiamento in atto, le imprese devono necessariamente
modificarsi ed adattare la loro organizzazione al diverso contesto. Ma, data la continua
accelerazione della velocità del cambiamento, occorre che esse sappiano costituire una
cultura dinamica che sia capace di sottoporsi a continue mutazioni, una base di valori
che abbia accettato il cambiamento come elemento costitutivo della propria vita
organizzativa. Devono in pratica istituzionalizzare la capacità del cambiamento: devono
nascere per cambiare.
Il modello organizzativo aziendale non può più basarsi sulla divisione scientifica del
lavoro, sulla burocrazia e sulla separazione dei lavoratori appartenenti ai diversi livelli.
Come vedremo nel corso della trattazione, i concetti e i principi che dovranno essere
alla base delle nuove realtà imprenditoriali del Duemila saranno ben altri. Primi tra tutti
ci saranno i concetti di conoscenza, apprendimento, mentedopera e rete virtuale.
Le imprese devono modificare anche il concetto di tempo
1
. Alla luce della situazione
attuale, il tempo e le variabili da esso influenzate possono essere infatti considerate
1
Il tempo e il suo valore hanno da sempre avuto un ruolo molto rilevante nel plasmare i caratteri di intere
società e culture al punto che i grandi cambiamenti storici e di civiltà sono stati accompagnati da un
cambiamento nella concezione del tempo stesso.
Ipercompetizione Globalizzazione
Evoluzione
sistema
politico-
sociale
Innovazione
tecnologica
Nuovo
modello
d’impresa?
8
come una misura della capacità di reagire ai cambiamenti e di esercitare un’influenza
sull’ambiente esterno
2
.
Il manager del Duemila si trova dunque di fronte ad una crescita di complessità che
non ha precedenti e che lo pone di fronte ad una crescente difficoltà a prendere
decisioni, che segna la fine dei modelli di riferimento forti, siano essi il capo
dell’impresa o un concorrente di riferimento nel settore che introduce un rischio
ineliminabile in qualunque decisione. Le possibili soluzioni per fronteggiare la
complessità sono di due tipi (vedi figura I.2):
ridurre la complessità, focalizzandosi su una parte del problema, usando la
gerarchia e inseguendo la moda;
convivere con la complessità, aumentando la capacità di calcolo e adottando
nuovi paradigmi.
Figura I.2 – Le soluzioni per affrontare la complessità.
Fonte: S.Vicari, 1996.
Il modo migliore per affrontare la complessità è quello di uscire dal vecchio
paradigma fordista del management scientifico, in cui tutto è pianificabile, ordinabile,
calcolabile e gestibile attraverso la gerarchia e il potere.
2
L’impatto del fattore tempo si può osservare non solo in rapporto al mercato ma anche nella relazione
tra variabili competitive come il tempo di risposta o la varietà di prodotto offerta e varabili interne, in
particolare la complessità organizzativa e i costi.
AFFRONTARE LA COMPLESSITÀ
Riduzione della
complessità
Convivenza con la
complessità
- focalizzazione su una
parte del problema
- uso della gerarchia
- inseguimento della moda
- aumento della capacità di
calcolo
- adozione di nuovi paradigmi
9
Occorre abbandonare l’idea che il management sia il portatore della razionalità e
della previsione in un mondo in cui tutto ciò non è più possibile. Ciò non significa
ritorno all’intuito, alla semplicità, al passato, all’artigianato, al mondo prima della
rivoluzione industriale. Non significa semplificazione o peggio semplicità, ma implica
esattamente il contrario: comporta aumento di complessità, richiede il passaggio da un
mondo governato da relazioni semplici ad un mondo di sistemi complessi, il cui
funzionamento va compreso, soprattutto attraverso un cambio di paradigma, non solo
nella concezione di impresa, ma anche nei principi di management.
L’adozione del nuovo paradigma pone però non pochi problemi: qual è il nuovo
paradigma? Come definirlo? Quali vantaggi si possono conseguire dalla sua adozione?
Tutto il discorso è ancora incerto e aleatorio a causa della difficoltà insita
nell’argomento. Ciò che è ormai certo è che il nuovo paradigma post-fordista pone alla
base di tutte le imprese i concetti di conoscenza e di rete: una prospettiva realmente
post-fordista, che vada oltre la transizione attuale, è quella che si realizza attraverso lo
sviluppo di conoscenze codificate (trasferibili) e l’organizzazione di reti globali in cui le
conoscenze possano essere utilizzate con le massime economie di scala (replicazione).
Il punto di avvio del nuovo paradigma è dunque legato alla rivoluzione tecnologica
attuale: quella che accoppia informatica (computer) e telecomunicazioni (Internet) e che
consente di realizzare nuove e più estese forme di divisione del lavoro cognitivo
(produrre e utilizzare conoscenza). Si è parlato di divisone del lavoro cognitivo perché
la risorsa produttiva più importante delle imprese del nuovo secolo è la conoscenza, non
più terra o capitale. Esatto. La conoscenza, risorsa immateriale per eccellenza, è il
fattore produttivo determinante.
Pertanto le organizzazioni che vogliono essere competitive nella realtà odierna si
devono trasformare in soggetti knowledge intensive. E gli stessi lavoratori dell’impresa
devono essere visti sotto un ottica diversa.
Essi non sono più manodopera. Essi sono diventati a tutti gli effetti mentedopera. In
questa nuova epoca viene infatti rivalutato il capitale umano in quanto i lavoratori della
conoscenza (knowledge workers) rappresentano la vera forza dell’impresa. Essi sono
importanti non solo per ciò che sanno fare, ma più in generale per ciò che sanno e per
ciò che potrebbero apprendere. Le capacità dei lavoratori diventano un qualcosa non
accertabile una volta per tutte in seguito ad un esame tecnico in sede di assunzione. Un
buon lavoratore si riconosce osservandolo giorno per giorno, nel momento in cui si
trova a dover affrontare le difficoltà lavorative e le supera apprendendo
contemporaneamente. Un buon knowledge worker è colui che decide e che osa ogni
giorno. E’ colui che, pur sapendo di poter applicare le sue capacità in un’altra azienda,
10
non cambia organizzazione perché si sente parte indispensabile per il raggiungimento
della vision manageriale e dunque agisce con professionalità, serietà e responsabilità.
Ma in questa nuova situazione, in cui ogni singolo lavoratore viene rivalutato come
persona e non come mezzo produttivo, che fine fa la posizione del manager? Se è il
singolo lavoratore colui che decide con responsabilità e professionalità, qual è il ruolo
del manager delle organizzazioni del Duemila? Ebbene, egli è innanzitutto un
knowlwdge manager, un soggetto che è in grado di gestire tutto il patrimonio di
conoscenze dell’impresa, che si trova frammentato nei diversi knowledge workers, in
modo che ogni addetto possa accedervi e operare prendendo sempre la decisione
migliore. E’ colui che ha una visione dell’organizzazione come una comunità di
individui, ognuno in grado di fornire diversi significati, contributi e opinioni, in luogo
della tradizionale enfasi sul controllo e sul comando. E’ colui che deve riuscire a
organizzare e gestire una realtà imprenditoriale che crea e utilizza la conoscenza. Il
management della conoscenza, richiede dunque non solo il governo di infrastrutture e di
reti per utilizzare, controllare e misurare il patrimonio intellettuale, ma anche la
progettazione di contesti sociali, organizzativi e di apprendimento appropriati per
sostenere lo sviluppo e la valorizzazione delle competenze individuali ed organizzative.
Il knowledge management, inteso nel senso di aiutare gli individui a condividere e
sfruttare le esperienze apprese, acquisire e condividere conoscenze riutilizzabili al fine
di ridurre i tempi necessari per svolgere un’attività e minimizzare la duplicazione degli
sforzi, diventa quindi il concetto più importante della nuova società della conoscenza
3
.
Concludo questa breve introduzione ricordando che la conoscenza d’impresa è il
tema del momento: l’innovatività è indiscutibilmente legata al bagaglio di conoscenza
dell’organizzazione. Rimangono però sconosciuti i meccanismi che sottostanno alla
creazione e alla diffusione della conoscenza: cos’è la conoscenza nell’organizzazione?
Quali aspetti del fenomeno possono essere gestiti? Cosa lega l’evoluzione
dell’organizzazione e lo sviluppo della conoscenza? Questo ed altri sono gli argomenti
affrontati in questo scritto.
3
Il knowledge management è per questo il tema centrale nei dibattiti e nei convegni degli ultimi tempi,
sia reali che virtuali.
11
1. La struttura della tesi.
Il primo capitolo, intitolato “Dal fordismo al post-fordismo” è dedicato all’analisi del
periodo di transizione nel quale viviamo. In esso appare un confronto tra il vecchio
paradigma fordista ed il nuovo paradigma post-fordista. Nel fare questo vengono
analizzati i più importanti contributi degli studiosi che hanno affrontato l’argomento, tra
i quali primeggiano quelli di E. Rullani, professore di Strategia d’impresa presso
l’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Il secondo capitolo, intitolato “Il ruolo della conoscenza nell’economia
dell’impresa”, analizza il tema della conoscenza come risorsa strategica nell’era
digitale. Dopo aver constatato il passaggio verso la “smaterializzazione” dei prodotti
aziendali, si focalizza l’attenzione sulla risorsa conoscenza, sui principi che la
governano, sul concetto in sé e sulla relazione tra questa e i soggetti umani. Dopo avere
inoltre analizzato la problematica della conoscenza del cliente finale, il capitolo giunge
alla conclusione con la messa in relazione delle conoscenze diffuse e i diversi “mondi
della vita”.
Il terzo ed ultimo capitolo, intitolato “L’implementazione delle teorie del knowledge
management nell’impresa”, tratta infine del concetto importantissimo di knowledge
management e dei suoi ambiti di applicazione. Si ridefinisce il ruolo del manager nel
nuovo millennio e la struttura imprenditoriale più idonea per consentirgli di operare al
meglio: la rete. Dopo questo, il capitolo si conclude analizzando le iniziative dei diversi
soggetti istituzionali nel campo del knowledge management e il contributo fornito dalla
rete Internet nella diffusione e valorizzazione del concetto.
Le considerazioni conclusive chiudono l’elaborato.
Buona lettura.
12
Capitolo Primo
DAL FORDISMO AL POST-FORDISMO.
SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Il fordismo; 3. La crisi del fordismo; 4. Il
superamento del modello fordista; 5. Il nuovo paradigma produttivo;
6. La rivisitazione dei principi fordistici nell’ottica post-fordista.
1. Introduzione.
Negli ultimi decenni, i caratteri assunti dalla competizione industriale hanno sancito
l’obsolescenza del paradigma taylorista-fordista e dei metodi tradizionali di
affermazione economica ad esso associati. La condivisione di tale assunzione è divenuta
il punto di partenza per la ricerca del paradigma produttivo del futuro.
L’attuale periodo di transizione, dal paradigma fordista al nuovo paradigma, viene
continuamente etichettato dagli studiosi in diversi modi (post-fordismo, neo-fordismo,
toyotismo, produzione flessibile, capitalismo reticolare…) senza giungere mai ad un
termine universalmente accettato. Questa è la palese testimonianza del fatto che tra i più
svariati sono stati i sentieri lungo i quali le imprese si sono inoltrate per raggiungere
l’efficienza richiesta dal nuovo quadro competitivo.
Come ricorda Enzo Rullani in una sua recente opera
4
, una metafora biblica afferma
che «nella creazione Dio assegna un nome alle cose, chiamandole in questo modo ad
esistere»: fino a che rimangono senza nome, le cose non sono accessibili agli uomini, o
almeno al pensiero e all’azione collettiva. Dunque, la “nominazione” è un esercizio
assai meno innocente di quanto possa sembrare a prima vista. Assegnare un nome
unitario a quanto di nuovo e inquietante sta emergendo nel nostro presente storico, non
è per niente un’operazione convenzionale o ininfluente. Al contrario, è un’ipotesi di
comprensione molto impegnativa, che chiude certe possibilità (quelle collegate al
paradigma in declino) e ne apre delle nuove. Cambia, in altri termini, il nostro modo di
comprendere il presente e di progettare il futuro. “Nominare” oggi il post-fordismo
come possibilità realistica, anche se non ancora reale, di evoluzione del capitalismo
industriale, significa cambiare il significato dei problemi con cui abbiamo a che fare
giorno per giorno, non limitarsi alle difficoltà del presente e puntare con decisione a un
diverso approdo, ricco di incognite, certo, ma anche di futuro (Rullani,1998). Tuttavia
denominare “post-fordismo” il paradigma emergente, ricco di potenzialità ma ancora
4
“Il postfordismo. Idee per il capitalismo prossimo venturo.” a cura di E. Rullani e L. Romano, Milano-
Etaslibri, 1998.
13
abbastanza indeterminato (in contrapposizione al paradigma assestato del “fordismo
realizzato”) rende il discorso sempre aleatorio.
Post-fordismo è ciò che viene dopo il fordismo. Ma se è solo questo, rischia davvero
di essere una parola passe-partout (Rullani,1998): facile da accettare, perché definita in
modo negativo rispetto ad un riferimento ben conosciuto (il fordismo), ma anche povera
di significati, perché comprende residualmente una congerie di fenomeni eterogenei,
non integrabili tra loro se non per il fatto che risultano dalla crisi del fordismo.
Numerosi studiosi si sono per questo preoccupati di andare oltre il termine post-
fordismo per dare maggior chiarezza e certezza al periodo di transizione nel quale ci
troviamo.
Bisogna inoltre tenere presente che l’assenza di una solida base di riferimento per
quanto riguarda il paradigma passato, non solo rende evanescente la discussione attuale
su cosa sia o non sia post-fordista, ma ha prodotto, passo dopo passo, due importanti
distorsioni ottiche, che sono entrate a poco a poco a far parte del senso comune:
si è finito col dare del fordismo un’immagine eccessivamente coerente e
razionale, attribuendogli una logica interna che corrisponde esattamente alle
intenzioni e autorappresentazioni dei suoi fondatori e interpreti.
si è data del post-fordismo un’immagine che, all’inverso, accoglie tutti i
possibili elementi di disordine, instabilità, incoerenza. Facendo di necessità virtù,
tutto ciò che eccede la coerenza del paradigma assestato viene idealmente
assegnato al non-paradigma post-fordista, facendone qualcosa di informe,
residuale, sfuggente. Entrano così a far parte dell’universo post-fordista elementi
eterogenei che, sommandosi tra loro, impediscono di dare al nuovo modello di
capitalismo una struttura riconoscibile e coerente.
Questa asimmetria nel trattamento riservato ai due paradigmi che si confrontano
nella transizione attuale non può portare niente di buono: sia perché ingessa le capacità
evolutive del fordismo, dandone alla fine una versione politicamente ed
economicamente riduttiva; sia perché rende il post-fordismo un confuso calderone in cui
tutto bolle.
Per riuscire a staccarci definitivamente dal fordismo occorre dunque aver chiaro cosa
esso abbia significato negli anni in cui si trovava ad essere unico paradigma egemone e
quali fattori abbiano determinato il suo superamento.
Solo dopo aver fatto questo potremo concentrarci sui vari contributi in letteratura che
affrontano lo studio del paradigma emergente.
14
2. Il fordismo.
La storia dell’industria moderna ci ha regalato in passato straordinari momenti di
svolta e trasformazione.
Il periodo che va dalla fine della ricostruzione post-bellica ai primi anni ’70 si
candida al ruolo di epoca storica dalle caratteristiche eccezionali, tassi di crescita ben al
di sopra dei trend secolari, garantiti da un sistema socio-economico-istituzionale (il
fordismo) che assicurò una duratura armonia tra regime di accumulazione e modo di
regolazione.
Il modello di sviluppo fordista era, infatti, caratterizzato da un’offerta che produceva
grandi quantità di merci e da una domanda che aumentava stabilmente a tassi alquanto
elevati. La sua modalità produttiva (produzione di massa) mirava a standardizzare i
prodotti per poterli realizzare in volumi aggregati di produzione e in lotti di ampie
dimensioni. Grazie alle economie di scala sempre più elevate, e quindi, ai costi di
produzione sempre minori che si riuscivano ad ottenere, esso creava i presupposti
perché i mercati fossero sempre più estesi.
F. W. Taylor e H. Ford rappresentano il vasto scenario di tentativi di
razionalizzazione dell’attività industriale sviluppatasi a cavallo dell’inizio secolo. Essi
sono, infatti, accomunati – quando non affrettatamente assimilati - nella paternità del
nucleo originario d’idee poste alla base della produzione di massa.
Essi pongono alla base del modello basato sulla grande impresa industriale e sulla
produzione di massa due presupposti concettuali:
il primo è che l’impresa sia una sorta di estensione della macchina
(H. Ford);
il secondo è che la gestione debba essere svolta secondo un’organizzazione
scientifica delle attività (F.W. Taylor).
Per quanto riguarda il presupposto concettuale dell’impresa come macchina, il
principio logico è il seguente: la macchina è il cuore dell’organizzazione, e ad essa
devono conformarsi i processi aziendali. A Ford spetta, infatti, il merito di aver
ripensato il processo manifatturiero come un flusso unitario, in cui l’attività
parcellizzata e standardizzata dei lavoratori si integra con le lavorazioni svolte da
macchine utensili dedicate e da transfer, oculatamente dislocate in modo da minimizzare
le distanze e facilitare il fluire della produzione e il progressivo completamento del bene
(catena di montaggio). Con Ford, l’integrazione del lavoro assurge ad essenza della
meccanizzazione che caratterizza il moderno processo produttivo. Come ogni pezzo
della macchina è dedicato all’assolvimento di una funzione, così ogni lavoratore e ogni
15
manager devono compiere una serie di attività estremamente specializzate e inserite nel
contesto di un’organizzazione rigida, gerarchica e piramidale.
L’assimilazione del processo produttivo ad un congegno meccanico di cui l’uomo e
la macchina rappresentano gli ingranaggi perfettamente integrati, ha effetti dirompenti
sulla produttività.
Il secondo presupposto è invece quello dell’organizzazione scientifica delle attività.
Affinché l’impresa funzioni con la massima efficienza è necessaria la pianificazione
attenta di tutte le attività: tutto deve essere studiato nei dettagli e quando si manifesta
uno scostamento tra quanto programmato e il funzionamento reale, si tratta di un difetto
che deve essere risolto migliorando l’organizzazione o la programmazione.
I fini perseguiti da Taylor attraverso la diffusione dell’organizzazione scientifica del
lavoro emergono, infatti, dal suo assimilarla ad una «completa rivoluzione mentale da
parte degli operai impiegati, del capofficina, […], tale che ambo le parti distolgono il
loro interesse dal surplus ed insieme lo concentrano per accrescere l’entità del surplus,
finché esso diventa così grande che non sarà più necessario litigare sul come debba
essere diviso» (F.W.Taylor in “L’organizzazione scientifica del lavoro”).
L’autore associa il conseguimento di tali obiettivi all’adesione a quattro principi:
studiare in modo scientifico ogni lavoro manuale precedentemente svolto su
base empirica;
selezionare la manodopera con metodi scientifici e quindi prepararla, istruirla
e perfezionarla;
instaurare rapporti di stima e di cordiale collaborazione tra direzione e
manodopera;
ripartire in modo omogeneo il lavoro e le relative responsabilità tra direzione e
manodopera.
Inoltre, nel caratterizzare il ruolo della direzione nel sistema di lavoro a compito
definito, Taylor sottolinea come al manager, oltre ad ovviare all’ignoranza
dell’operatore, spetti il compito di contrastare l’opportunismo del lavoratore. La
funzione del controllo, oltre che volta al miglioramento delle performance, assurge
quindi a carattere distintivo dello studio scientifico del lavoro.
Il fordismo è forse uno degli esempi più rilevanti di produzione di una lunga ondata
tecnologica: attraverso di esso le potenzialità della meccanizzazione e della produzione
su larga scala, ormai mature sul piano dei principi scientifici e della sperimentazione
prototipale, hanno trovato pieno dispiegamento, rivoluzionando la produzione e
soppiantando le tecnologie artigiane della piccola serie. Il fordismo ha sancito, infatti, il
successo della grande impresa, che riusciva non solo a sfruttare intensamente le
economie di scala, ma che poteva investire nell’applicazione delle nuove tecnologie che
16
si andavano continuamente affermando nella prima metà del secolo. Il modello della
produzione di massa, nel corso di cinquant’anni, è divenuto egemone su scala planetaria
segnando la successiva evoluzione scientifica e tecnologica.
Occorre inoltre tener presente che, nella storia dell’economia capitalistica, il
fordismo non è stato solo un modo di produzione, frutto congiunto dello scientific
management di Taylor e della riorganizzazione e meccanizzazione della produzione
introdotta da Ford, ma anche e pienamente un modello di regolazione sociale, che ha
saputo saldare in un circuito virtuoso straordinario produzione e consumo di massa, sino
a consentire per decenni tassi di crescita sostenuti e persistenti in tutti i paesi
industrializzati.
In riferimento alle modalità tecniche di produzione, il fordismo costituisce, di fatto, il
momento di definitiva affermazione e diffusione delle tecniche di Taylor e Ford. Ma,
sebbene queste offrissero potenti opportunità tecnologiche, in Europa non furono
immediatamente sfruttate appieno, a causa della sostanziale inadeguatezza del contesto
istituzionale. Le nuove tecnologie trovarono, infatti, adeguate opportunità di sintonia
con le forme istituzionali solo dopo il duplice travaglio della grande crisi della seconda
Guerra Mondiale (nonostante fossero state introdotte negli Stati Uniti già dall’inizio del
secolo).
Il modo di sviluppo fordista si è fondato dunque sull’armonia tra nuove opportunità
tecnologiche e forme istituzionali in grado di garantire una domanda di massa, capace di
accogliere i prodotti standardizzati della produzione di massa.
17
3. La crisi del fordismo.
Intorno alla metà degli anni ’70 il modo di sviluppo fordista comincia a manifestare
le prime incrinature. Inizia a fratturarsi quell’armonia tra regime di accumulazione e
modo di regolazione che era stata ambita negli anni ’30 e conquistata nel dopoguerra.
Occorre premettere che la crisi del modello fordista viene ricondotta dagli studiosi a
due rilevanti tipologie di eventi.
Da un lato, il succedersi di una serie di shock che hanno investito le economie
capitalistiche a partire dalla crisi petrolifera del ’73. Com’è noto essi sono sfociati
dapprima nell’interruzione di quel grande ciclo economico che, apertosi nell’immediato
dopoguerra, aveva rappresentato l’età dell’oro del fordismo e, successivamente, nel
complicarsi delle forme di sviluppo, con una ripresa economica che si è riaffacciata con
connotati assai diversi dal passato.
Dall’altro lato, la crisi della grande impresa, principale soggetto economico reale del
fordismo, cui si sono accompagnate trasformazioni organizzative e tecnologiche
dell’intero sistema industriale, la cui ampiezza ha dato adito all’ipotesi dell’affacciarsi
di svolte radicali nei modelli di successo dell’impresa. Tre nuove circostanze, tra le
altre, hanno in particolare dato una grande spallata alla concezione fordista di impresa,
rompendo l’incantesimo della produzione di massa e facendoci entrare nell’era post-
industriale: il toyotismo, la terziarizzazione e le nuove tecnologie (Vicari,1996).
Come rileva Mariotti in una sua opera del 1994, nella quale descrive appunto la crisi
del fordismo, in coerenza con la legge di Wolf il progresso tecnico connesso
all’intensificazione del lavoro e della standardizzazione dei prodotti inizia a manifestare
rendimenti decrescenti: le innovazioni diventano più rade e consentono incrementi di
produttività sempre minori. Inoltre la manodopera operaia inizia a manifestare una
crescente insofferenza verso l’organizzazione fordista.
Accanto al “divorzio tecnologico” tra tecniche di produzione di massa e sensibilità
della forza lavoro, fattori più prettamente economici pongono in dubbio la proficuità del
nesso lavoro-salario di tipo fordista. Il rialzo dei prezzi e l’inflazione comportano un
progressivo ridimensionamento di un meccanismo di distribuzione del reddito basato
principalmente sugli incrementi di produttività. In conclusione, il regime di
accumulazione richiedeva adeguati margini di profitto, che, nelle nuove condizioni
tecnologiche e competitive, potevano essere ottenuti solo tramite una radicale riforma
del modo di formazione dei salari reali.
18
Si assiste quindi alla rallentata dinamica della domanda nazionale e internazionale
con conseguente ridimensionamento dei tassi di crescita, ormai dimezzati rispetto agli
anni ’50 e ’60. Continuamente alimentata dalla pubblicità e talora anche da
differenziazioni fittizie, la domanda non si fa solo più variabile, ma anche più varia: sia
la domanda dei beni di consumo finali, sia la domanda di beni intermedi d’investimento
si fanno più differenziate e sofisticate, fino ad arrivare alla cosiddetta
“customerizzazione”, frutto dell’interazione con gli utilizzatori finali.
Dal lato dell’offerta, si passa da criteri di concorrenza basati sul prezzo ad uno
scontro competitivo basato sulla qualità. Sempre dal lato della necessaria
ristrutturazione dell’offerta la già richiamata esaustione delle economie di scala si
accompagna all’insorgere delle economie di varietà (scope economies) caratterizzanti la
produzione flessibile
5
.
In conclusione, sia sotto il profilo tecnologico, sia sotto quello del nesso lavoro-
salario, sia sotto quello della dinamica della domanda, il modo di sviluppo fordista
diventa in molti settori controproduttivo.
La crisi del modello fordista degli anni ’70 presenta almeno tre questioni insolute:
una tecnica di produzione ormai giunta ai suoi limiti naturali sia da un punto
di vista dei rendimenti, sia da un punto di vista dell’accettabilità sociale;
una domanda diventata turbolenta, ossia variabile e varia;
un contesto istituzionale non più adatto alle esigenze di accumulazione, ossia
in contrasto con la formazione di adeguati saggi di profitto.
Date queste considerazioni è comprensibile perché le nuove opportunità offerte dalle
tecnologie dell’informazione siano state applicate soprattutto nella ricerca di una
maggiore flessibilità produttiva. L’esigenza di una flessibilità produttiva costituiva,
infatti, il punto dolens del modo di sviluppo fordista, che era invece caratterizzato da
una produzione standardizzata e da una domanda indifferenziata di massa (adatta al
precedente contesto ambientale stabile).
La ricerca di una maggiore flessibilità produttiva rappresenta il primo passo verso il
superamento del fordismo.
5
L’etimologia della parola flessibile porta alla luce il concetto di adattamento di un sistema al mutare di
circostanze ad esso esogene: un apparato produttivo è flessibile se contiene in sé i meccanismi che
consentono l’adattamento alle mutate condizioni quantitative e/o qualitative della domanda di mercato (o
altre variabili esogene).
194
4. Il superamento del modello fordista.
Il superamento del fordismo era ed è un’affermazione che non può essere fatta con
leggerezza. Si tratta conseguentemente di definire quale altro modello si stia affacciando
alle soglie della storia e con quali prospettive di sviluppo, posto che nulla nella passata
esperienza garantisce che il dissolversi di un modello di regolazione avvenga nel segno
del miglioramento continuo delle condizioni di vita.
Fino a che il post-fordismo resta un concetto residuale, diventa tra l’altro
impossibile, in un presente così sfaccettato e mobile come l’attuale, stabilire in modo
fondato dove termini il fordismo e dove cominci il post-fordismo, mettendo fine ad una
“controversia di confine” che oggi oppone i fautori della continuità a oltranza a quelli
della “svolta epocale”, palingenetica, dove tutto cambia e niente resta più come prima.
Non si può negare, comunque, che profondi cambiamenti hanno interessato le
imprese industriali negli ultimi decenni coinvolgendo in modo pervasivo le diverse
attività aziendali, non solo tramite innovazioni tecnologiche ma anche attraverso un
ampio insieme d’innovazioni di natura prevalentemente organizzativa e gestionale. Tutti
i caratteri dell’impresa appaiono oggi molto diversi rispetto a quelli tipici dello sviluppo
industriale nel passato.
Con l’affermazione su scala mondiale delle aziende giapponesi, i modelli che sono
stati definiti con i termini di “sistema produttivo Toyota” o giapponese sono diventati il
punto di riferimento per il radicale cambiamento dei concetti e criteri di progettazione e
gestione produttiva. Negli anni ’90, in relazione al forte impatto che hanno avuto i
lavori di Womack e altri suoi collaboratori, è sembrato che la lean production, intesa
come l’insieme dei tratti di validità universale del modello di produzione giapponese,
potesse dare un volto e una connotazione precisa al nuovo paradigma. Ma al di là delle
critiche che da più parti sono state formulate nei suoi confronti e la contrapposizione ad
essa di modelli alternativi, è il processo di revisione in atto da alcuni anni nelle imprese
giapponesi a mettere in discussione la valenza generale della lean production.
Dunque persistono tuttora problemi e dubbi sulla identificazione del paradigma
emergente, manifestati dal fatto che per la sua denominazione si ricorre ancora al
termine generico di post-fordismo.
Il dibattito sull’evoluzione dei modelli di produzione è caratterizzato da posizioni
molto differenti e interpretazioni contrastanti, che lasciano aperte molte questioni:
quali sono i caratteri di continuità o discontinuità dell’evoluzione in corso,
rispetto alla tradizione consolidata?
i modelli proposti rappresentano effettivamente l’uscita dal paradigma
fordista-taylorista o sono un suo sviluppo, una variante?
20
è possibile individuare un nuovo paradigma emergente?
come può essere identificato il nuovo paradigma?
qual è il grado di universalità e generalità dei cambiamenti in atto?
La varietà di posizioni e orientamenti sull’evoluzione dei modelli di produzione
viene ricondotta dagli studiosi a diversi filoni interpretativi.
L’obiettivo del prossimo paragrafo sarà dunque quello di riportare alcuni dei più
autorevoli contributi sull’argomento, per dimostrare come ogni autore abbia individuato
un suo filo logico nell’interpretare i recenti sviluppi della realtà industriale.