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INTRODUZIONE
Questa tesi nasce da un mio bisogno, professionale e personale, di riflettere su ciò che io
considero il motore del nostro lavoro di educatori e pedagogisti, vale a dire l’équipe.
Sempre di più all’équipe viene chiesto di saper lavorare insieme e in sinergia con i diversi
servizi, in un’ottica multi-professionale, dove le diverse figure coinvolte devono saper
interagire per integrare e valorizzare i propri saperi.
Lavorare in servizi socio-educativi, richiede competenza, professionalità, impegno,
motivazione, capacità di critica e di auto-critica.
Spesso i gruppi di lavoro devono saper adattarsi a continui turn-over e ad affrontare le
innumerevoli emergenze della quotidianità. Il tempo prezioso che si ha a disposizione è
talvolta occupato dall’infinita burocrazia che toglie tempo ed energia al proprio lavoro, ma
che allo stesso tempo lo struttura e lo rende visibile.
I gruppi di lavoro hanno bisogno che qualcuno si prenda cura di loro; le persone necessitano
di avere il tempo e lo spazio per poter pensare al proprio operato, e hanno anche bisogno di
essere formate e di formarsi.
In questo elaborato, frutto anche della mia esperienza professionale da educatrice, vorrei
riflettere sul gruppo inteso come luogo di formazione, ossia come tempo e spazio dove
ognuno di noi ha, o meglio, dovrebbe avere la possibilità, di accrescere le proprie
competenze, mettendole al servizio degli altri, confrontandole e negoziandole con gli altri,
luogo ideale di incontro e scontro, in cui le risorse e le difficoltà possono essere strumenti per
formarsi e auto-formarsi.
Far parte di un gruppo non significa necessariamente sentirsi parte di quel gruppo e/o di
quella organizzazione, e non significa neanche condividerne i valori, le aspettative o le
difficoltà.
Naturalmente, non posso qui addentrarmi nella letteratura del gruppo.
Oggi, tra l’altro abbiamo a disposizione innumerevoli studi che di volta in volta hanno
evidenziato i tanti aspetti del fenomeno, in tutte le sue specificità, dalla costituzione, alle
dinamiche intra e inter gruppo ecc.
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Il gruppo è stato analizzato e studiato dalla psicologia, dalla psicoanalisi, dalla sociologia,
dall’antropologia e da tutte le scienze sociali; i contributi da parte della pedagogia sono
ancora pochi e in generale si focalizzano sul gruppo-classe in ambito scolastico.
Io vorrei, qui, assumere una prospettiva prevalentemente pedagogica, anche se, come ci
insegna la pedagogia, non posso esimermi dal considerare i contributi delle altre scienze, nella
convinzione che tra le Scienze umane, per affrontare questioni di questo tipo, debbano
stabilirsi rapporti di collaborazione e di rimandi reciproci nel rispetto delle proprie autonomie.
In questo elaborato, la domanda principale che mi sono posta è: se e a quali condizioni un
gruppo di lavoro, può essere considerato luogo di formazione? In particolare, a quale tipo di
formazione ci si riferisce, se il gruppo è formato prevalentemente da educatori, che operano
in servizi socio educativi?
Nel primo capitolo, dopo un breve excursus sul gruppo, e dopo aver messo in evidenza il
contributo di Lewin, per il quale ‘il gruppo è qualcosa di più, anzi qualcosa di diverso dalla
somma dei suoi membri, ed è un soggetto in trasformazione, capace di esercitare una funzione
che è allo stesso tempo adattiva, riflessiva e correttiva’, esporrò il percorso necessario che
deve fare un qualsiasi gruppo per diventare un gruppo di lavoro.
Che cos’ è un gruppo? Quali condizioni sono necessarie perché si possa parlare di gruppo di
lavoro e di lavoro di gruppo?
Saranno gli autorevoli contributi di Quaglino, Di Nubila e Agosti ad aiutarmi a rispondere a
queste domande e a strutturare in modo puntuale il percorso che permette la maturazione del
gruppo di lavoro verso lo stato dell’integrazione, da cui dipende il lavoro di gruppo.
Nel secondo capitolo mi occuperò della struttura del gruppo, caratterizzata da sette variabili,
che mi permetteranno, nel capitolo successivo di riflettere in particolare sul ruolo del
coordinamento.
Ed è nel terzo capitolo che approfondirò il significato del fare coordinamento.
Cercherò di rispondere alle seguenti domande: è sufficiente soddisfare tutti i requisiti di un
gruppo di lavoro, affinché si possa parlare di coordinamento efficace? Esiste un
coordinamento perfetto?
Che cosa significa coordinare un gruppo di lavoro?
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Per una riflessione costruttiva, assocerò il coordinamento al concetto di interdipendenza
positiva, vale a dire alla percezione che ciascuno ha di sé e alla consapevolezza della propria
utilità nel gruppo e all’idea di una leadership distribuita.
Dopo aver riflettuto sul gruppo e sul coordinamento, mi chiederò, nel quarto capitolo, se e a
quali condizioni un gruppo di lavoro, può essere considerato luogo di formazione?
Seguendo l’approccio riflessivo, mi chiederò che cos’è la formazione? È solo trasmissione di
concetti? È possibile apprendere e formarsi mediante la pratica professionale?
Il gruppo di lavoro prende forma, anzi una nuova forma, e si trasforma, ogni volta che guarda
e riflette sul proprio operato, è il luogo, dove è possibile partecipare, agire e riflettere
sull’esperienza, ed è a partire da queste considerazioni che rifletterò sul gruppo, la cui qualità
non dipende dalle sole competenze del coordinatore, ma necessita delle risorse dell’intero
gruppo.
A questo punto, dovrò dedicare spazio alle tecniche che il coordinatore può usare per
facilitare la valorizzazione delle risorse del gruppo.
In particolare, nel quinto capitolo, presenterò cinque tecniche: la lezione, il brainstorming, il
metaplan, il role playing e lo studio dei casi. Avere alle spalle una buona metodologia e saper
usare tecniche appropriate però non significa avere sempre la soluzione ai problemi o saper
sempre cosa fare.
Infine, nel sesto capitolo, presenterò il contributo della Cooperativa Reggiana servizi sociali
(Co.Re.s.s) che da trent’anni si occupa di servizi alla persona, e per la quale lavoro da cinque
anni; focalizzerò la mia attenzione sulle funzioni del gruppo di lavoro e del coordinatore.
Per Co.Re.s.s. la formazione non è solo trasmissione di conoscenze, e non è tempo e
luogo per ricevere risposte, è piuttosto stimolo alla ricerca e alla riflessione, è tempo per
interrogarsi sul senso del lavoro di cura.
Per concludere proverò a pormi delle domande per un’eventuale ipotetico periodo di
osservazione, avente lo scopo di verificare la reale presenza della leadership distribuita, in
particolare facendo riferimento all’area della progettualità.
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CAP.1 DAL GRUPPO AL LAVORO DI GRUPPO
In questo primo capitolo, dopo aver introdotto la prospettiva da cui intendo guardare il
fenomeno del Gruppo di lavoro, e dopo un breve excursus sul gruppo, traccerò il percorso
necessario per permettere al gruppo di diventare un gruppo di lavoro, potenzialmente capace
di lavorare insieme secondo l’ottica dell’integrazione.
1.1 Dalla pedagogia agli assunti del modello Andragogico
La Pedagogia, oggi è considerata scienza di confine, laddove il concetto di confine rimanda
ad un’area di comune sconfinamento, in cui costruire e condividere conoscenza tra saperi
differenti, che, da punti di vista diversi, osservano, riflettono e progettano.
È un sapere che ha la consapevolezza di essere in divenire; riconosce le moltepicità delle
istanze che concorrono a costituirlo, ed è sempre disponibile a ridescriversi, all’interno di un
itinerario mai definitivamente concluso, dove si muove tra ricerca di autonomia ed esigenza di
interdisciplinarità.
È quindi un sapere segnato da attraversamenti, collegamenti e intrecci con altri saperi.
Ed è anche un sapere generale, riflessivo, critico ed emanciativo, impegnato a definire la
propria identità articolandola, da una parte, nella direzione della ricerca teorica, e dall’altra
parte nella direzione della prassi pedagogica, vale a dire nella progettazione-realizzazione-
verifica dei processi formativi e trasformativi (Frabboni, Minerva, 2003:8-11).
L’oggetto della pedagogia è la formazione; formazione pluridirezionale e multidimensionale
dell’uomo e della donna, all’interno delle più generali dinamiche di natura biologica e
culturale, storica e sociale (Frabboni, Minerva, 2003:40).
La formazione è caratterizzata dalla complessità, dall’intenzionalità, dalla progettazione e
dalla problematicità, che è costante ri-apertura, è interminabilità, ma anche complessità
dialettica, cioè dialetticamente aperta su se stessa (Agosti, 2006:25).
Come ci ricorda Cambi, nella formazione è presente un tipo di complessità che è nello stesso
tempo rete - rizoma - labirinto.
È rete, in quanto è pluralismo co-ordinato di fattori, interagente ed integrato, è rizoma perché
è apertura anche inedita, sempre e per struttura, ed è un processo che genera ovunque e in
modo imprevedibile. È anche labirinto perché è un processo terminabile e interminabile, dal
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quale non si può uscire, anche se si ambisce a farlo, ed è un luogo dove dobbiamo stare per
agire (Agosti, 2006:23-26).
Siamo allora davanti ad una iper-complessità che sfida costantemente se stessa.
La categoria dell’intenzionalità dà alla formazione un carattere tensionale, una prospettiva in
qualche modo utopica.
Complessità e intenzionalità, suggerisce ancora Cambi, devono mostrarsi dentro un modello,
sia pur temporaneo, evolutivo e soggetto a revisione.
Il modello è il progetto, che funge da orientatore, da regola e da sfida, assumendo, da
questo punto di vista, uno statuto problematico (Frabboni, Minerva, 2003:41).
Come ho scritto precedentemente, la pedagogia ha uno statuto inquieto, plurale e aperto, e la
stessa formazione non può procede in un percorso lineare.
La formazione è nella pedagogia come categoria reggente, ma ci sta anche come compito
teorico e pratico, come problema aperto e sempre ri-aperto, e come vademecum, ossia come
nozione da non perdere mai di vista, e da rendere operativa, sia nell’agire, sia nel progettare,
sia nel pensare la progettazione formativa (Cambi in Agosti, 2006: 28-29).
Il linguaggio della pedagogia è plurale e si nutre del linguaggio della filosofia, delle scienze
umane e applicate, della storia e in parte anche del linguaggio del senso comune, ma
riorganizza questi codici in modo originale, rendendoli raccordabili e funzionali alle diverse
necessità di formalizzazione e denominazione dei suoi soggetti e contesti di intervento
(Frabboni, Minerva, 2003:45).
La pedagogia si occupa quindi di tutti i soggetti in formazione (differenti per genere, lingua,
cultura, forme di intelligenza), nei diversi tempi della vita, cioè dall’infanzia all’anzianità, in
una pluralità di luoghi, dalla scuola, alla famiglia, alle organizzazioni lavorative.
Alla fine degli anni ’70, negli Stati Uniti, Malcolm Knowles ha introdotto nell’ambito
formativo una nuova teoria: l’Andragogia, sostenendo che gli adulti e i bambini imparono
diversamente.
L’andragogia offre, per l’apprendimento in età adulta, dei principi fondamentali che a loro
volta consentono, a chi progetta e conduce l’apprendimento, di costruire, per gli adulti,
percorsi più efficaci.
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L’andragogia è quindi un modello che si rivolge alle caratteristiche dell’attività di
apprendimento, e non agli obiettivi e agli scopi; è allora applicabile ad ogni atto di
apprendimento in età adulta, dalle campagne in educazione sociale allo sviluppo delle risorse
umane nelle organizzazioni (Knowles, 1973:20).
Sappiamo che il modello pedagogico (relativo all’insengamento-apprendimento), concepito
per insegnare ai bambini, in generale attribuisce all’insegnante la responsabilità delle
decisioni relative a: contenuti, metodi, tempi e alla valutazione dell’apprendimento; il modello
andragogico, invece, si concentra sulla formazione degli adulti, ed è caratterizzato da una
serie di assunti alternatvi che non esclude gli assunti pedagogici.
La questione che mi sono posta e che fa da cornice a questo elaborato è: se e a quali
condizioni un gruppo di lavoro, formato prevalentemente da educatori che operano
all’interno di servizi socio-educativi per il disagio adulto, può essere considerato luogo di
formazione?
In questi ultimi decenni, studiosi appartenenti a diverse discipline, in particolare in psicologia,
si sono interessati al fenomeno del gruppo, lo hanno analizzato e studiato da diversi punti di
vista, ne hanno estrapolato anche le caratteristiche più nascoste, facendone un luogo di
incontro e scontro, crescita e impasse ed evidenziandone il bisogno intrinseco di essere
valorizzato da qualsiasi tipo organizzazione.
La letteratura sul gruppo da un punto di vista pedagogico non è molto vasta, fanno eccezione i
contributi relativi al gruppo-classe in ambito scolastico, che invece risultano numerosi.
Io voglio provare a fare una riflessione proprio da un punto di vista pedagogico, e il gruppo a
cui faccio riferimento è il gruppo di lavoro in un’organizzazione, in particolare in ambito
socio-educativo, e affinché la riflessione possa essere soddisfacente, come ci insegna la
pedagogia, non posso esimermi dal prendere in considerazione i contribuiti delle altre
Scienze.
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Credo che per le riflessioni che farò in questo elaborato, sia importante però fare riferimento,
sia pur spesso in modo implicito, in particolare agli assunti dell’attuale modello andragogico,
poiché si rivolgono prevalentemente agli adulti, i quali hanno bisogni diversi rispetto ai
bambini:
1. Il bisogno di sapere: gli adulti, prima di impegnarsi ad apprendere qualcosa, hanno la
necessità di sapere perché lo devono fare, quindi come ci suggeriscono i formatori
degli adulti, il primo compito del facilitatore di apprendimento è aiutare i discenti a
prendere coscienza del bisogno di sapere. Il mezzo più efficace per accrescere il
livello di consapevolezza che si ha del proprio sapere è costituito dalle esperienze,
nelle quali le persone scoprono da soli il divario tra il punto in cui sono ora e quello al
quale vorrebbero arrivare. Nelle organizzazioni possono essere utili, per esempio, i
sistemi di valutazione del personale, la rotazione delle mansioni o le valutazioni
diagnostiche delle prestazioni (Knowles,1973:77);
2. Il concetto di sé del discente: gli adulti hanno un concetto di sé stessi come persone
responsabili delle proprie decisioni e della propria vita e sviluppano un bisogno
psicologico di essere considerati dagli altri come persone capaci di gestirsi
autonomamente. Quando partecipano a dei corsi di formazione, spesso in modo
inconsapevole, ritornano al condizionamento ricevuto nelle loro precedenti esperienze
scolastiche, quindi in un rapporto di dipendenza dall’insegnante, quindi i formatori
degli adulti si devono sforzare di creare esperienze di apprendimento, nelle quali gli
adulti possano sentirsi discenti autonomi (Knowles,1973:78);
3. Il ruolo delle esperienze del discente: la qualità e la quantità di esperienze vissute di un
adulto, è diversa da quella di un bambino, di conseguenza un qualsiasi gruppo di adulti
sarà più eterogeneo in termini di stili di apprendimento, motivazioni, bisogni e
interessi; gli stessi adulti hanno risorse diverse e necessitano di attingere all’esperienza
passata per riflettere sui contenuti della formazione, ad esempio mediante le
discussioni di gruppo, gli esercizi di simulazione o attività di problem solving.
È interessante notare che le esperienze degli adulti rappresentano ciò che loro sono,
quindi in situazioni in cui percepiscono che gli altri non apprezzano la loro esperienza