II
Quale può essere, pertanto, oggi, il ruolo della dimensione del gruppo nei
contesti socio-organizzativi e come cambia il suo reale utilizzo rispetto al passato?
Sono questi, in sostanza, gli interrogativi che stanno alla base e motivano il
forte interesse verso il tema della dimensione del gruppo nei contesti socio-
organizzativi odierni, tema che verrà affrontato di seguito, nei prossimi capitoli.
Dunque, il primo capitolo è centrato sulla dimensione del gruppo; in esso
vengono presentati i principali modelli che si occupano di tale dimensione e si
cerca di delinearne le peculiarità e le caratteristiche analizzandone la struttura
su più livelli, per poter così cogliere il particolare funzionamento che riguarda
proprio tale dimensione. Per questo motivo l’attenzione viene rivolta in
particolar modo ai processi che solitamente avvengono in un gruppo, alle
dinamiche che in essi si attivano, ma anche all’aspetto delle difese e delle
resistenze che i singoli agiscono quando sono concretamente coinvolti in tali
situazioni.
Il capitolo successivo vuole invece focalizzare la propria attenzione sul
concetto di apprendimento nei processi formativi, ma nello specifico in
relazione alle dimensioni dell’individuo, del gruppo, e a quelle organizzative,
soprattutto associato all’idea del cambiamento. Si vuole cioè vedere che tipo di
rapporto esista tra formazione e apprendimento, nonché verificare quale tipi di
apprendimento la formazione è in grado di trasferire nei contesti socio-
organizzativi attraverso utenti particolari, quali sono i gruppi. Si vedrà inoltre
qual è oggi il grado di interesse da parte delle organizzazioni verso lo strumento
gruppo, e quale il suo utilizzo da parte della formazione per migliorare gli
apprendimenti organizzativi e per crearne di nuovi. A proposito di questo, è
importante sottolineare che la formazione è “comunque uno fra i vari strumenti
organizzativi pensanti e sussistenti, non l’unico né il principale” (Cucchi,
Roncalli, 1991
1
), non per darne una visione riduttiva, ma per dare maggiore
risalto, invece, alla specificità degli ambiti che la riguardano.
1
M. Cucchi, P. Roncalli, Il processo di formazione nella prospettiva della teoria dell’azione
organizzativa, in B. Maggi (a cura di), La formazione: concezioni a confronto, Etas Libri, Milano,
1991.
III
Inoltre, la finalità è anche quella di cogliere come cambia
l’apprendimento nei contesti organizzativi, se cambiano le richieste che le
organizzazioni fanno alla formazione, e se la formazione cambia, o dovrebbe
cambiare, per adattarsi ai continui cambiamenti in tali contesti.
Nel terzo capitolo, invece, la centratura è sugli approcci e sugli strumenti
formativi che in modo particolare considerano e valorizzano la dimensione del
gruppo. Il tentativo, infatti, è di cogliere l’importanza e lo spazio che oggi può
ancora avere il gruppo, alla luce di quelli che sono gli strumenti, dai più tradizionali,
basati ad esempio sulla dimensione narrativa, a quelli di più recente diffusione (come
la formazione a distanza), di cui oggi le formazione si avvale. L’interesse verso
questi ultimi orientamenti, centrati appunto sull’utilizzo di strumentazioni
informatiche, è mosso, in particolar modo, dalla percezione di una certa incongruità,
e, quindi, di una apparente inconciliabilità, tra la diffusione di tali strumenti, che
portano con sé un’idea di superinvestimento del singolo in apprendimento, oltre che
un’idea virtuale di gruppo operativo nei contesti di lavoro, e quella che sembra
essere un’esigenza fortemente percepibile, e cioè quella di utilizzare i gruppi come
strumento di intervento organizzativo, in contesti in cui sempre più, di fatto, si parla
di dimensioni cooperative e collaborative.
Il quarto capitolo, infine, affronta i temi trattati nei capitoli precedenti,
riprendendoli però da un punto di vista non più teorico, e quindi riferito alla
letteratura, ormai ricchissima circa questi temi, ma attraverso un’indagine
basata sulle esperienze dirette di formatori professionisti che lavorano a
contatto con questi contesti lavorativi. Si è, quindi, cercato di dare risposta a
quei quesiti che sono via via emersi in questi capitoli, ma anche di trovare
conferma, o meno, ad alcune ipotesi precedentemente esposte.
1
Capitolo 1. Che cosa sono i gruppi
1.1. APPROCCI TEORICI ALLO STUDIO DEI GRUPPI
La letteratura sui gruppi è assai ampia. Il gruppo è stato, infatti, oggetto
di studio di diverse discipline come ad esempio la sociologia, la pedagogia,
l’antropologia e non per ultima la psicologia. Pensare di giungere ad una
possibile sintesi fra i numerosi approcci si presenta un’impresa davvero
complessa; è più facile tentare una classificazione relativa dei modelli che si
occupano dei gruppi, tenendo conto di volta in volta, separatamente, delle
diverse variabili possibili.
Considerando il concetto di sviluppo di un gruppo è possibile
individuare, secondo la classificazione che ne fa G. Contessa (1999), una prima
grande categoria di modelli che possiamo definire “progressivi, lineari o
evolutivi”. Secondo questo approccio il gruppo viene concepito come un
sistema che si evolve dall’informale al formale, dallo stato magmatico a quello
strutturato, da una fase infantile ad una adulta. Si tratta di una concezione
sviluppata dalla cultura industriale e perciò carica dell’ottimismo illuministico
nei confronti del progresso, e applicata come paradigma ai gruppi di lavoro e di
produzione.
Un limite di questo modello risiede nel fatto di non riuscire a spiegare
perché alcuni gruppi non seguano le fasi indicate o le seguano per periodi molto
diversi fra loro. Un secondo limite è quello di ritenere positivo soltanto uno
sviluppo completo, in grado cioè di giungere alla fase finale del suo processo
evolutivo, e d’altra parte, di ritenere negativo ogni ritardo, arresto o
regressione, quasi a voler affermare che il prodotto finale sia più importante del
processo.
2
Ovviamente l’attenzione maggiore è sul futuro, inteso come il tempo del
destino evolutivo del gruppo che influenza il presente.
La linearità che il modello propone viene suddivisa, a seconda dei
diversi autori che se ne occupano, da un minimo di tre ad un massimo di
quindici fasi. W. Schutz (1978) ad esempio si riferisce a gruppi di crescita e di
formazione il cui processo di sviluppo si articola in tre distinte fasi:
1. la prima è data dal movimento tra dentro e fuori, tra inclusione ed
esclusione, che caratterizza i membri di un gruppo. Si tratta di una
oscillazione tra due sentimenti contrastanti, tra il timore di essere
escluso e il desiderio di essere incluso. E’ una fase che può alimentare
lo spettro della non accettazione e dar vita a comportamenti opposti di
ipo o iper-socialità. In entrambi i casi i soggetti hanno una bassa auto-
stima per cui temono di non essere accettati dal gruppo;
2. la seconda fase, quella del controllo, è quella nella quale il gruppo si
muove intorno al problema del potere, e i cui temi centrali sono
l’autorità, la competenza e la responsabilità. In questa fase entrano in
gioco le dimensioni di impotenza e di onnipotenza dando luogo a
comportamenti disfunzionali di ipercontrollo o di delega totale;
3. l’ultima fase, quella caratterizzata dall’intimità e la coesione del
gruppo, si verifica nel caso in cui la seconda fase venga superata
senza la frantumazione del gruppo. I sentimenti dei membri oscillano
tra vicino e lontano, caldo e freddo, profondità e superficialità dando
vita a comportamenti ipo o iper-affettivi.
Secondo l’autore la curva che attraversa le fasi di inclusione, controllo e
intimità in genere si conclude con la fine del gruppo.
Un altro modello possibile è quello che propone B. Tuckman (1965).
Esso consiste di quattro fasi successive:
1. la formazione è la fase che implica un movimento iniziale di
esplorazione fra i membri e di sperimentazione dei relativi
comportamenti;
3
2. la fase di tempesta presenta un clima più emotivo dove emergono
dimensioni conflittuali, competizioni e anche dissensi per stabilire la
gerarchia di potere tra i membri;
3. la fase successiva è quella della regolazione della coesione, dove la
confidenza tra i membri è maggiore anche perché regolata da norme
condivise che distribuiscono il potere in modo accettabile per tutti;
4. la fase della performance, e cioè della realizzazione del compito per
cui il gruppo si è formato, chiude il processo di sviluppo lineare del
gruppo.
Una seconda tipologia di modelli è quella che considera il gruppo non
più in termini di linearità, ma come un sistema che si muove verso il basso e
cioè secondo un movimento “a spirale”. Il passare del tempo non aumenta
l’efficienza del gruppo, ma piuttosto la sua coscienza. Le fasi del gruppo si
sviluppano in circolo e in profondità. Questa classe di modelli trova la sua
ispirazione nel pensiero europeo, nella tradizione psicoanalitica, nei gruppi non
centrati sulla performance. Il limite principale di molti di questi modelli, anche
se non di tutti, risiede nella maggiore attenzione data ai singoli membri
piuttosto che al gruppo come insieme. L’accentuazione dunque è più sul lavoro
dei singoli ‘in’ gruppo, che sul lavoro ‘di’ gruppo. Inoltre la centratura è sul
passato, non sul presente o sul futuro. Per quanto riguarda questa tipologia di
modelli possiamo citare autori quali Bion, Whitaker e Slater nel mondo
anglosassone e Enriquez, Anzieu, Kaes in ambito francese. Fra questi merita un
discorso a parte il modello proposto da Bion, il più importante fra quelli che si
occupano di gruppi.
W. Bion (1971) afferma che il gruppo ha due nature, una che lavora e
una che si arresta su “assunti basici”. Il gruppo che lavora è continuamente
esposto al gruppo che si comporta come se la sua vita e la sua crescita
dipendessero da questi assunti di base che rappresentano la dimensione emotiva
non manifesta, dunque implicita e inconsapevole, carica di sentimenti repressi.
In altre parole questi assunti di base sono il luogo in cui ogni membro collude
con l’uno o l’altro, in tempi diversi.
4
Tali assunti di base vengono raggruppati dall’autore in tre categorie. La
prima riguarda i comportamenti di “dipendenza” dei membri del gruppo dal
leader, o dall’operatore che lo conduce, gli unici in grado di dare al gruppo
sicurezza, protezione e aiuto. Se tale assunto non trova soddisfazione ne
derivano sentimenti di ostilità e frustrazione che coinvolgono i membri
dell’intero gruppo, poiché, come afferma Kernberg (1999), “il gruppo
dipendente è (...) caratterizzato dall’idealizzazione primitiva, dall’onnipotenza
proiettata, dal diniego, dall’invidia e dall’avidità, con tutte le difese che li
accompagnano”. Il secondo assunto è quello che Bion definisce di “attacco-
fuga”: si tratta di un gruppo, questo, in cui i soggetti si aspettano che il leader li
guidi nella guerra contro il nemico e li protegga dalle lotte interne. Il terzo
assunto di base infine è quello definito “di accoppiamento”, nel quale le
relazioni fra due membri sono viste come generative di una sorta di “messia” in
grado di risolvere i problemi per il gruppo.
Un terzo tipo di modelli che si occupano di gruppi dal punto di vista del
loro sviluppo sono quelli definibili “ciclici”, che concepiscono, cioè, la vita del
gruppo come una serie di fasi continue e persistenti. Il tempo dei modelli ciclici
è l’eterno presente, in linea con la filosofia orientale Zen e Tao dalla quale
prendono ispirazione. Secondo questo tipo di modelli il gruppo viene concepito
come sfondo o contesto del cambiamento individuale. Esemplare di questa
categoria è il contributo di Anthony G. Banet Jr. (1976), ispirato alla filosofia
taoista che vede totalità e unità come un flusso di esperienza nel quale si
intrecciano un principio ricettivo (yin) ed uno attivo (yang). La vita del gruppo
è dunque una continua dialettica tra i due principi, la cui interazione produce
otto posizioni basiche (la creatività, il supporto, le emozioni, il silenzio, la
reattività, il confronto, l’intelletto e l’interazione), sulle quali ruota ciclicamente
l’asse dei comportamenti secondo un movimento pendolare.
Il modello che propone invece K. Lewin (1951) è difficile da classificare,
vista la vastità e l’articolazione; egli è il maggiore studioso in tema di gruppi in
campo psicologico e, per questo, può essere considerato il fondatore della
scienza dei gruppi, oltre che l’inventore del termine “dinamiche di gruppo”.
5
Oggi è possibile dire che tutti i modelli della seconda metà del XX secolo
derivano dalle sue acquisizioni e che tutti i gruppi non terapeutici, ancora oggi
esistenti, possono considerarsi ispirati al pensiero di Lewin. Si può, dunque,
tentare di sintetizzare tale modello riassumendo le principali affermazioni
dell’autore sul concetto di gruppo:
I. il gruppo è un campo di forze attrattive e repulsive in equilibrio quasi-
stazionario;
II. la configurazione del gruppo è la risultante dello scontro tra le forze del
campo;
III. il campo di forze comprende sia le forze soggettive (i vissuti, i desideri, le
aspettative, ...), sia le forze oggettive (strutture, poteri, vincoli, ...);
IV. il campo di forze esiste nel tempo presente, qui ed ora;
V. i comportamenti individuali dipendono dalla personalità e dal campo di
forze;
VI. l’intero è diverso dalla somma delle parti in quanto ha proprietà specifiche;
VII. le proprietà strutturali del campo sono caratterizzate dai rapporti fra le parti
piuttosto che dalla loro natura.
Il modello che ne deriva indica uno sviluppo circolare del gruppo
secondo un movimento che si può definire perenne. In questo senso Lewin ha
gettato le basi di un modello euristico generativo che possiamo considerare la
base di tutti i modelli successivi.
Un’altra tipologia di modelli che si occupano del gruppo si focalizza
invece sulla dimensione corporea. Sono detti appunto “modelli corporei”. Oggi
la diffusione di questi tipi di gruppo è limitata alla psicoterapia o alla
psicomotricità, ma qualche loro acquisizione e tecnica ricade anche sui gruppi
di formazione e di lavoro. L’idea centrale che sottende tali modelli è quella di
mettere sotto osservazione i corpi presenti in un gruppo e le interazioni non
verbali più che quelle verbali. Questa grande categoria si ispira soprattutto
all’eredità di W. Reich, prosegue con la bio-energetica di A. Lowen, la tecnica
di Ida Rolf, e giunge fino ad oggi con la proliferazione delle pratiche Zen o
New Age.
6
Esistono altri modelli, poi, che, invece, vengono definiti sulla base della
tecnica di intervento messa a punto dal conduttore, o sull’attività principale che
impegna i soggetti facenti parte il gruppo. Ad esempio, all’interno di questa
categoria si possono distinguere i gruppi di psicodramma, i gruppi di auto-aiuto,
quelli di analisi immaginativa, i gruppi di simulazione e i gruppi di problem-
solving. Bisogna dire che il panorama in questo senso è vastissimo perché si
basa su tecniche e attività il cui emergere o svilupparsi è in continuo
movimento. I gruppi di psicodramma sono caratterizzati dal fatto di coinvolgere
i partecipanti in una attività drammatica, teatrale, di messa in scena spontanea;
ciò che viene drammatizzato è un vissuto, un ricordo, una esperienza
significativa del singolo partecipante. Il gruppo collabora alla messa in scena
fornendo l’ambientazione fisica o emotiva e gli attori di supporto. La
teatralizzazione, se ben guidata, può produrre catarsi e cambiamenti nel singolo.
In questa categoria di modelli i diversi approcci non si distinguono per
specifiche teorie o concezioni del gruppo, ma, appunto, solo per la tecnica
utilizzata. Infatti un gruppo di psicodramma, ad esempio, può essere concepito
sia in termini di linearità che di circolarità, ed essere inquadrato secondo un
paradigma psicoanalitico piuttosto che corporeo.
Per quanto riguarda le tecniche di simulazione ne esistono diverse ma ciò
che le accomuna è l’esperienza del “come se”; esse si fondano sulla tecnica di
rappresentazione di un fatto, una situazione o una storia che non provengono dal
mondo interno dei partecipanti, come avviene invece nello psicodramma, ma
dalla realtà esterna al gruppo. Il risultato che viene qui ricercato non è la catarsi
ma più spesso l’addestramento dei soggetti. In questo senso i gruppi di
simulazione sono delle palestre di apprendimento, sia per la comprensione di
certi fenomeni, sia per l’acquisizione di comportamenti funzionali al ruolo
sociale o professionale specifico. Anche i gruppi di problem-solving, impegnati
nella soluzione di problemi, hanno come scopo quello di apprendere, ma mentre
nei gruppi di simulazione l’apprendimento avviene per esperienza vissuta, nei
gruppi di problem-solving l’apprendimento avviene per riflessione e confronto.
7
Alla classe dei modelli caratterizzati da uno specifico approccio teorico
appartengono moltissimi modelli che concepiscono o raccontano le dinamiche
psicologiche individuali o dei singoli “in” gruppo. Si tratta di modelli di gruppo
che vengono letti o condotti secondo un particolare approccio teorico, tra i
quali: quello rogersiano, della Gestalt therapy, di Analisi Transazionale, o di
Programmazione Neurolinguistica.
Nella classe di quelli che possiamo definire “modelli metaforici”, possiamo
includere modelli espressi essenzialmente in termini metaforici, che
sottolineano, pertanto, un aspetto particolare del piccolo gruppo. Fra questi, ad
esempio, il gruppo come “sala degli specchi” di cui parla J. Moreno (1964), in
cui ogni membro si specchia in ciascun altro, arrivando a capire parti di sé
attraverso l’altro e parti dell’altro attraverso di sé, oppure il gruppo come “rete
di interazioni” di J. Luft (1997), piuttosto che la metafora del gruppo come
“microcosmo” proposta da Slater (1974), o il gruppo come “sogno” che è invece
la visione che propone D. Anzieu (1976), sottolineando il carattere soggettivo,
psichico ed emozionale del gruppo.
Giungendo ad una sintesi è opportuno puntualizzare se ci siano, e
soprattutto, quali siano gli elementi di base che differenziano i diversi modelli
presentati.
Il primo elemento di differenziazione è quello tra una concezione di
gruppo come insieme, ed una “in” gruppo che considera il gruppo come
sommatoria o come semplice contesto alle vicende individuali. Sottolineare
questa differenza è importante non solo ai fini della lettura dei fenomeni di
gruppo, ma anche per la definizione delle stesse modalità di intervento in esso.
Infatti concepire gli individui “in” gruppo, in poche parole, vuol dire delegare al
gruppo una funzione secondaria, di sfondo, negando e trascurando la
dimensione autonoma che caratterizza il gruppo come insieme, mettendo al
centro i singoli più delle relazioni, e assegnando al passato e al futuro un
maggior peso rispetto al presente per quanto riguarda l’agire individuale.
All’opposto la concezione “di” gruppo riconosce a questa entità autonomia e
caratteri diversi da quelli dei singoli membri; ne enfatizza le relazioni e le
8
interdipendenze, considerando il comportamento individuale come influenzato
anche dal campo presente.
Un secondo elemento discriminante riguarda la centralità attribuita alla
struttura del gruppo piuttosto che alla sua dinamica. Concepire il gruppo in
termini di struttura significa dare risalto agli elementi di stabilità, alle costanti e
alla realtà come questa si presenta; viceversa concepirlo in termini di dinamica
implica il fatto di valorizzare in particolar modo la dimensione del
cambiamento. Inoltre, mentre la visione strutturale è centrata sui tempi del
passato e del presente, la visione dinamica accentua le dimensioni del presente e
del futuro.
Terzo elemento differenziatore è quello che contrappone soggettivismo e
oggettivismo. Da una parte la concezione soggettivistica attribuisce al gruppo
solo valenze psicologiche, intangibili ed emozionali, dall’altra, la concezione
oggettivistica pone in evidenza solo gli aspetti tangibili, quelli cioè strutturali e
sociologici.
Queste differenziazioni contribuiscono a chiarire meglio la
classificazione odierna dei modelli che si occupano dei gruppi.
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1.2. LA STRUTTURA DEI GRUPPI
Sono diverse le variabili che definiscono la struttura di un gruppo. Tra
queste l’idea di confine si presenta come molto importante perché legato
all’idea di spazio psicologico in esso racchiuso. Tale spazio rappresenta in
senso metaforico l’area delle competenze, del potere e del raggio d’azione dei
singoli in interdipendenza fra loro. I gruppi che possiedono un confine rigido
sono quelli cristallizzati, cioè incapaci di evolversi e di cambiare, o di
permettere uno scambio con l’esterno; la difficoltà ad entrare o ad uscire è un
carattere distintivo dell’identità di questi gruppi. D’altra parte esistono gruppi
con confini più flessibili, ma il confine deve comunque esistere, pena la
confusione fra interno ed esterno. La sua completa assenza infatti non definisce
un gruppo come aperto, ma piuttosto come inesistente; inoltre il confine
caratterizza il “noi” delimitando lo spazio comune e separandolo dallo spazio
che ciascuno condivide con altri campi (Contessa, 1999). Il riferimento è qui al
concetto di pluriappartenenza secondo cui ogni singolo individuo è allo stesso
tempo parte di gruppi diversi che si riferiscono a contesti diversi.
Un secondo elemento di cui tener conto è l’idea di interdipendenza tra le
parti, e di equilibrio dinamico del sistema che da essa scaturisce. Infatti ogni
piccola variazione operata nel gruppo o sul gruppo come insieme, produce
movimenti in ogni suo singolo membro e viceversa. L’interdipendenza pertanto
è la conseguenza dei legami, e quindi delle relazioni esistenti fra coloro che
costituiscono il gruppo. E tali legami sono più sensibili di questi ultimi al
cambiamento (Contessa, 1999, pag. 30); infatti, mentre i singoli membri di un
gruppo sono, allo stesso tempo, pluriappartenenti a gruppi diversi, le relazioni
che in esso si attivano esistono nell’hic et nunc di quel momento e di quel
particolare contesto. Pertanto la dimensione del piccolo gruppo può considerarsi
una struttura in perenne oscillazione tra stati psicologici continuamente variabili
al suo interno, costantemente in tensione e sul punto di precipitare in forme
diverse.