2
Il 21 marzo 1919 Mussolini riuniva i suoi aderenti milanesi (circa una
settantina) ed esponeva loro la necessità di costituire un gruppo di
uomini decisi a continuare all'interno la guerra combattuta contro il
nemico esterno. In questo tema iniziale è contenuta tutta la storia
posteriore del fascismo fino alla marcia su Roma ed oltre.
Venne costituito per primo il fascio milanese di combattimento, con una
giunta di cui, oltre Mussolini, facevano parte Michele Bianchi, Mario
Giampaoli, Ferruccio Vecchi ed altri.
Nell’assemblea del 23 marzo, (non molto più numerosa della precedente,
forse centoventi persone), presieduta da Ferruccio Vecchi, avvenne la
fondazione dell'organizzazione nazionale “Fasci italiani di
combattimento”, con un comitato centrale, in un salone al primo piano
del numero 9 di Piazza San Sepolcro. Il programma ufficiale dei fasci
venne pubblicato più tardi.
Nell'adunata del 23 marzo, Mussolini si dichiarava pronto a sostenere
energicamente le rivendicazioni materiali e morali delle associazioni dei
combattenti, si opponeva all'imperialismo degli altri popoli a danno
dell'Italia e all'eventuale imperialismo italiano a danno degli altri popoli,
accettando i postulati della Società delle Nazioni, che presupponevano
l’integrazione di ciascuna nazione, integrazione che per l'Italia
comprendeva Fiume e la Dalmazia, e impegnando i fascisti a sabotare le
candidature dei neutralisti di tutti i partiti.
Vennero formulate altre proposte, tra le quali: la Costituente Nazionale,
quale sezione italiana della Costituente Internazionale dei Popoli
(formula presa dall'Unione Nazionale del Lavoro); una Repubblica
Italiana con autonomia comunale e regionale; il suffragio universale
uguale per ambo i sessi e il referendum popolare con diritto di veto e di
iniziativa; l’abolizione del Senato, dei titoli di casta, della polizia
politica, della coscrizione obbligatoria, la libertà di pensiero e di
coscienza, di religione, di associazione, di stampa, di propaganda; la
funzione dello Stato limitata alla direzione nazionale civile e politica; lo
scioglimento delle società anonime; la soppressione di ogni speculazione
borsistica e bancaria; il censimento e il prelevamento delle ricchezze; la
confisca dei redditi improduttivi; il pagamento dei debiti del vecchio
stato da parte degli abbienti; la giornata lavorativa di otto ore; la
partecipazione dei lavoratori agli utili; la terra ai contadini; l’affidamento
della gestione dei servizi pubblici a sindacati di tecnici e di lavoratori; il
disarmo generale e il divieto di fabbricare armi da guerra, l’abolizione
della diplomazia segreta, una politica internazionale ispirata
all'indipendenza e solidarietà dei popoli.
Era insomma il programma il più avanzato possibile, per chi non volesse
arrivare al socialismo integrale, alla democrazia diretta o all'anarchia.
3
La fondazione dei "Fasci italiani di combattimento" si collocava in un
dopoguerra in cui erano in atto grandi mutamenti, sia nella vita
economica dell'Italia, sia delle classi sociali.
Di fronte alla grande maggioranza del popolo italiano, che aveva sofferto
le privazioni ed i sacrifici della guerra sia al fronte che all'interno, si
contrapponeva una minoranza che non solo non aveva sofferto, ma aveva
largamente approfittato della guerra per arricchirsi.
Il confronto tra i privilegiati della guerra e la massa degli altri rendeva
più acuto tale stato d'animo. La maggior parte del ceto medio italiano
aveva sempre vissuto in condizioni economiche assai modeste. Le masse
proletarie dei contadini e degli operai avevano inoltre dato alla guerra un
grandissimo contributo di soldati. A guerra finita, generale fu il desiderio
di liberarsi di quel complesso di limitazioni, costrizioni, vincoli di ogni
genere che il regime di guerra aveva imposto, e di recuperare la libertà.
Uno dei fenomeni di tale periodo, fu la "scioperomania". Il contesto
economico rendeva inevitabile il ricorso agli scioperi, ma patologica fu
la facilità con cui vi si fece ricorso, talvolta per i motivi più strani e più
futili. Ma gli scioperi portavano facilmente a forti tensioni e a violenze.
In tale contesto si ebbe l'occupazione delle fabbriche concomitante con il
ritorno al governo di Giolitti, il quale iniziava una graduale e prudente
restaurazione dell'autorità dello Stato.
Solo a Milano gli stabilimenti occupati aumentarono a circa
centosessanta, ed altrettanti a Torino. Dalle due massime città industriali,
la parola d’ordine “occupazione delle fabbriche” si estese al settore
metallurgico di tutta Italia. La direzione della produzione veniva assunta
dalle commissioni interne di fabbrica, mentre quasi tutti i tecnici e gli
impiegati abbandonavano le officine. Per proteggere l'esperimento, gli
stabilimenti furono messi in stato di difesa con guardie rosse ed in taluni
casi con reticolati e mitragliatrici.
Nella sinistra italiana intanto andava maturando la scissione tra il partito
socialista e la frazione comunista. Giolitti per suo conto mantenne un
indirizzo filo-operaio, manifestato concretamente nella conclusione
dell'occupazione delle fabbriche, dichiarando come ragionevole la
protesta degli operai per i salari troppo bassi (meno di un dollaro al
giorno).
Alla fine del 1920 avvenne la svolta nella vita politica italiana. La
divisione così profonda tra interventisti e neutralisti, protrattasi nelle
dispute a guerra terminata, poteva considerarsi virtualmente superata. Il
nuovo fattore che venne a perturbare il processo di risanamento fu il
movimento - partito fascista guidato da Mussolini, con il suo contorno di
arditi e futuristi. Paradossalmente, nei limiti in cui stettero veramente
dalla parte delle forze dell'ordine, essi furono poco più che "mosche
4
cocchiere", quando pur non fecero, inconsapevolmente o no, la parte di
agenti provocatori. Mussolini, moralmente liquidato nelle elezioni del
1919, non era stato riportato in alto dalla sua condotta verbosa e
contraddittoria del 1920, con l'abbandono di fatto della causa
dannunziana.
In tale contesto esplodeva trionfalmente in Emilia e si allargava in tutta
la Val Padana il fascismo agrario. Alla fine del 1920 si ebbe
l'organizzazione metodica delle "squadre" o bande fasciste e delle
"spedizioni punitive". Le squadre avevano le loro basi di
approvvigionamento e armamento in città, ove partivano su automezzi
per i paesi e le campagne. I loro obiettivi d'attacco erano le case del
popolo, le Camere del Lavoro, le sedi di Leghe Operaie, le cooperative,
le sezioni, i circoli, i giornali comunisti, socialisti, popolari e cattolici.
Alle azioni contro gli edifici e gli oggetti si associavano quelle contro le
persone: bastonature, rapimenti, uccisioni e bandi. Si mirava alle
dimissioni delle amministrazioni socialiste, allo scioglimento delle leghe,
più generale della paralisi economica e politica dei socialisti.
In questa situazione, il Presidente del Consiglio Facta, in una seduta al
Senato sui fatti di politica interna, non sapeva fare altro che ripetere che
il governo aveva una direttiva sola: quella di applicare imparzialmente la
legge.
I suoi ordini in tal senso erano eseguiti ancora meno di quelli dei suoi
predecessori Giolitti e Bonomi. Del resto, in concreto, un'integrale
applicazione della legge non poteva non portare all'impiego delle Forze
Armate dello Stato contro il fascismo armato. Il Re peraltro si limitava
alla sanzione formale degli atti di governo, mentre negli ambienti
dinastici prevalevano le simpatie per il fascismo.
Questa situazione precaria e ambigua durò per alcuni mesi.
Apparentemente, il fascismo voleva sfruttare ai suoi fini il metodo
democratico parlamentare, ma nello stesso tempo preparava
l'insurrezione. Mussolini giocava su entrambi gli scacchieri e Facta non
si rendeva conto della situazione. L'organizzazione militare fascista era
andata intanto perfezionandosi attraverso le prove di sempre più vaste
mobilitazioni conservando la struttura iniziale dello "squadrismo". I
"Triari" della Milizia corrispondevano alla massa dei fascisti, i "Principi"
erano gli squadristi. Il comando venne affidato a quattro ispettori
generali che inizialmente furono il generale Gandolfo, Italo Balbo,
Igliori, Perrone-Compagni. Quattro squadre formavano una centuria,
quattro centurie formavano una coorte, da tre a nove coorti una legione
comandata da un console. I militi stessi - così stabiliva il primo
ordinamento - eleggevano i loro capi.
5
Nel corso dell’estate 1922 a Udine, per la celebrazione del 20 settembre,
Mussolini aveva condensato il programma dei Fasci in due parole:
"Vogliamo governare l'Italia".
La classe politica italiana era formata da "Dei superati, degli sciupati,
degli stracchi, dei vinti": occorreva sostituirla, e "Più' la soluzione sarà'
radicale, meglio sarà".
Veniva fatta poi una dichiarazione circa il ruolo della monarchia: "E’
possibile rinnovare l'Italia non mettendo in gioco la monarchia?"
A tale domanda Mussolini così si espresse:
(…)"Io penso che si possa rinnovare profondamente il regime, lasciando
da parte l'istituzione monarchica… la monarchia non ha alcun interesse
ad osteggiare quella che ormai si può chiamare la rivoluzione fascista…
perché non siamo repubblicani? in un certo senso perché vediamo un
monarca non sufficientemente monarca. la monarchia rappresenterebbe,
dunque, la continuità storica della nazione".
Il 4 ottobre 1922, in un discorso al gruppo "Sciesa" di Milano,
Mussolini, in modo ancora più esplicito, affermava che in Italia c'erano
ormai due Stati, quello liberale e quello fascista, il secondo
"infinitamente migliore" è perciò degno di ricevere l'eredità del primo.
“I cittadini”, proseguiva Mussolini, “Si domandano: quale stato finirà per
dettare la sua legge agli italiani? noi non abbiamo nessun dubbio a
rispondere: lo stato fascista".
Il 16 ottobre 1922, Mussolini convocava nella sede del Fascio Milanese
di via San Marco n. 46 i suoi più stretti collaboratori: Italo Balbo,
Michele Bianchi, il generale Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e
i generali dei bersaglieri in congedo Fara e Ceccherini (questi ultimi due
non iscritti al partito), esponendo loro il suo piano militare, alla cui
esecuzione avrebbero dovuto presiedere i primi quattro nominati. Non
venne presentata la marcia su Roma come presa diretta del potere, ma
come dimostrazione armata per indurre la Corona a dimettere Facta e far
subentrare i fascisti al governo.
Nella riunione, Mussolini fece cenno a trattative con Giolitti e con i
gruppi parlamentari di destra, affermando tuttavia che si trattava di
semplici espedienti. Dopo la riunione, conversando con Cesare Rossi
Mussolini aggiunse: " se Giolitti torna al potere siamo f…. ricordati che
a fiume fece cannoneggiare d'Annunzio".
Venne stabilito che il quartier generale dell'intera operazione sarebbe
stato fissato a Perugia.
Quasi la prova generale della marcia su Roma, il 24 ottobre ebbe luogo a
Napoli una imponente adunata fascista, alla quale presero parte decine di
migliaia di "camicie nere". Mussolini tenne un discorso al Teatro San
Carlo, prendendosela "Con il deficiente governo che siede a Roma, ove,
6
accanto al galantonismo bonario e inutile dell'onorevole Facta, stanno tre
anime nere della reazione antifascista: i signori Taddei, Amendola e
Alessio".
Lo stesso giorno, in Piazza Plebiscito, al termine dell'adunata delle forze
fasciste, Mussolini nel prendere brevemente la parola affermava con
chiarezza:
"O ci danno il governo o lo prenderemo calando su Roma, ormai si tratta
di giorni e forse di ore".
La mobilitazione vera e propria aveva inizio il 27 ottobre, mentre veniva
diffuso in tutta Italia un programma del quadrumvirato preparato da
Mussolini, nel quale si diceva che l'ora della battaglia decisiva era
suonata: l'esercito delle camicie nere puntava disperatamente su Roma, il
governo era decaduto, la Camera sciolta, il Senato aggiornato. Il
quadrumvirato fascista si installava a Perugia, centro strategico tra l'Alta
Italia e Roma.
Le colonne destinate alla vera marcia su Roma si concentravano a Santa
Marinella, Monterotondo e Tivoli, agli ordini rispettivamente di Perrone-
Compagni affiancato dal generale Ceccherini, di Igliori con il generale
Fara, e di Bottai.
Nei capoluoghi di provincia dell'Italia settentrionale e centrale, a partire
dal pomeriggio del 27, i fascisti si presentarono davanti alle Prefetture,
alle Questure e agli uffici del telegrafo per impadronirsene.
Le autorità civili, dopo un primo rifiuto e qualche resistenza incruenta,
cedettero i poteri alle autorità militari. A Milano Mussolini si era
barricato nella sede del "Popolo d'Italia", ma nessuno venne a
disturbarlo.
La capitale era complessivamente difesa da più di 28 mila uomini delle
Forze Armate dello Stato. Il Re giunse a Roma il 27 ottobre verso le ore
19, ricevuto alla stazione da Luigi Facta e si mostrò deciso a non cedere
ai fascisti. La sera stessa, Luigi Facta andava a Villa Savoia,
accordandosi con il re per la proclamazione dello stato d'assedio, con il
relativo decreto che avrebbe dovuto essere firmato il mattino successivo.
La sera del 28 ottobre, Luigi Facta lasciava il Consiglio dei Ministri per
andare dal Re a fargli firmare il decreto, ma il Re si rifiutò di firmare. E'
da ritenere che, durante la notte, consiglieri militari e civili abbiano fatto
al Re un quadro preoccupante della mobilitazione fascista e delle
disposizioni dell'esercito, e gli abbiano consigliato di evitare una incerta
soluzione di forza.
Il Re accettò volentieri il consiglio, un po' per il rischio di essere
personalmente considerato dai fascisti come un loro nemico (si disse che
aveva pensato perfino di abdicare), un po' perché era di carattere e per
abitudine riluttante a misure energiche.
7
Tuttavia ormai era chiaro che non si trattava di una delle solite crisi
ministeriali e che la soluzione era del tipo extracostituzionale.
2
Mussolini non si comportava come un capo o un rappresentante di
partito, ma come il capo di un gruppo di insorti. Vi furono tentativi dei
capi nazionalisti (l'onorevole Luigi Federzoni e l'onorevole Antonio
Salandra) per evitare la capitolazione e per salvare la faccia della
monarchia, ma tali tentativi incontrarono la netta ostilità di Mussolini,
che rispose di non aver alcuna intenzione di andare al governo con
Salandra.
La mattina del 29 ottobre apparve sul "Popolo d'Italia" un articolo di
Mussolini: "…per arrivare ad una transazione con Antonio Salandra non
valeva la pena di mobilitare. Il governo deve essere nettamente
fascista…….".
Salandra si ritirava e nel pomeriggio del 29 ottobre veniva recapitato a
Mussolini un telegramma con il quale il Re gli dava l'incarico di
comporre il Ministero.
La sera del 29 ottobre Mussolini partiva da Milano in vagone letto per
Roma. La mattina del 30 ottobre si presentava al Re Vittorio Emanuele
III al Quirinale e si proclamava suo servo fedele.
Venne sottoposta al Re una lista del nuovo governo. Non vi furono
formalmente trattative tra gruppi politici, in quanto Mussolini si rivolse
direttamente a uomini di destra e di sinistra, esclusa l'estrema. Mussolini
tenne per sé il Ministero dell'Interno e l'interim degli Esteri.
Sul piano legislativo il fascismo, all'indomani della sua ascesa al potere,
procedette sui binari di una sostanziale moderazione, accontentandosi in
buona parte di condurre a compimento quanto era già stato iniziato dai
governi precedenti e senza uscire dal campo della tecnica
amministrativa. Sul piano dell'azione politica e del concreto esercizio del
potere, dimostrò invece, anche se in maniera non del tutto scoperta, il
suo carattere di movimento sostanzialmente eversore del regime liberale-
parlamentare.
2
Le crisi di governo sono di due tipi: crisi parlamentare e crisi extra-parlamentare.
Nell'ordinamento di democrazia classica (rapporto fiduciario Governo-Parlamento),
si parla di crisi parlamentare quando vi è la revoca della fiducia, definita come
mozione di sfiducia. Questa deve essere motivata e sottoscritta da almeno 1/10 dei
componenti della Camera con votazione per appello nominale. Se è approvata si apre
la crisi.
Si definisce crisi extraparlamentare quella in cui non si verifica il rapporto fiduciario
fra Governo e Parlamento, ma che è determinata da avvenimenti accaduti fuori dal
Parlamento, che possono essere confermati mediante una discussione parlamentare di
sfiducia (F. Cuocolo, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 1992, pp. 321- 455).
8
Le due principali istituzioni, attraverso le quali Mussolini, subito dopo la
conquista del potere, consolidava la posizione egemonica del fascismo e
lasciava intravedere che non si sarebbe accontentato dei tradizionali
strumenti di governo, furono il Gran Consiglio e la Milizia.
Nel novembre 1923 veniva discussa e approvata al Senato la nuova legge
elettorale, il cui progetto fondamentale era quello di assegnare un grosso
premio alla lista nazionale che avesse riportato la maggioranza dei voti;
le altre liste si sarebbero divise proporzionalmente il resto dei seggi.
Nel campo fascista, il solo parlare di elezioni diede luogo a voci
contrarie, in quanto l'Italia non doveva ricadere nella malattia
dell'elettoralismo. Si ebbe una recrudescenza delle violenze, con attacchi
a giornali di partito ed agli esponenti politici, tra i quali Amendola, Nitti,
Misuri.
La Camera veniva sciolta il 25 gennaio 1924 e le elezioni convocate per
il 6 aprile. Il fascismo, pur respingendo ogni idea di alleanza politica o
anche soltanto elettorale con i vecchi partiti, annunciava la costituzione
di una così detta "Lista Nazionale" governativa, nella quale venivano
inclusi uomini di tutti i partiti, purché dessero affidamento: era "il
listone" come venne subito chiamato, composto da fascisti e non fascisti.
L'obiettivo era quello di dare al governo una base che andasse oltre il
partito, allargandosi a tutta la nazione.
Il procedimento seguito per imbastire il "listone" era il seguente: il Gran
Consiglio Fascista, nella seduta del 29 gennaio 1924, decise la nomina di
un comitato nazionale elettorale, con la convocazione di congressi
circoscrizionali per la proclamazione dei candidati. Le liste locali così
ottenute furono riunite in una lista nazionale provvisoria, che fu passata
al vaglio dal Gran Consiglio del Fascismo e da Mussolini, a cui spettava
la decisione finale.
I risultati elettorali furono i seguenti:
la Lista Nazionale del Fascio Littorio riportava 4.305.936 voti con le
elezioni di tutti i 356 candidati, mentre le altre liste tutte insieme
guadagnarono 1/3 dei seggi, ossia 179.
La Camera venne riaperta il 24 maggio 1924, anniversario della vittoria,
con lo scopo di rivendicare al fascismo la gloria di aver salvato
materialmente e moralmente la vittoria italiana e di presentare la
maggioranza fascista come la vera rappresentante dello spirito nazionale.
Il discorso della Corona venne posto al servizio di quest'opera di
accaparramento di valori nazionali, identificando sostanzialmente il
popolo combattente vittorioso con il fascismo.
Alla convalida in blocco, proposta dalla Giunta, della totalità degli eletti,
si opposero vari parlamentari dei gruppi di opposizione, tra i quali i
9
socialisti unitari Giuseppe Emanuele Modigliani e Giacomo Matteotti
3
.
Quest'ultimo pronunciò un forte discorso, che si può definire il suo
"canto del cigno". Denunciò senza reticenze e puntualmente gli episodi
di violenza avvenuti nel corso dei comizi elettorali. Su cento candidati
socialisti unitari, circa una sessantina non avevano potuto circolare
liberamente nella loro circoscrizione. Molti candidati avevano dovuto
cambiare residenza, molti avevano rinunciato alla candidatura per non
essere boicottati sui posti di lavoro o avevano dovuto emigrare all'estero.
Ricordò anche vari trucchi predisposti per scoprire come avevano votato
gli elettori.
Matteotti accusava la milizia alla quale era stato affidato il compito di
custodire le cabine elettorali, circostanza che da sola costituiva un
motivo di impugnazione della validità delle elezioni.
Un ulteriore argomento politico era che l'elettore non era libero di votare,
trovandosi di fatto di fronte ad una esplicita dichiarazione che il governo,
anche se sconfitto dalle urne, sarebbe rimasto al potere con la forza.
La proposta di Matteotti, di rinviare in blocco alla Giunta delle Elezioni
le convalide dei voti, fu respinta. La Camera esprimeva la sua piena
fiducia nel governo, ed approvava l'indirizzo di risposta al discorso della
Corona con 361 "Sì" e 107 "No".
Nel pomeriggio del 10 giugno 1924, Matteotti, mentre percorreva il
Lungotevere Arnaldo da Brescia per recarsi a Montecitorio, venne
assalito da un gruppo di uomini, i quali lo obbligarono a salire su un
automobile ferma nei pressi. Il gruppo di assalitori (così si disse) era
composto da Amerigo Dumini
4
che stava al volante; gli altri aggressori
erano Albino Volpi
5
, Aldo Putato
6
, Augusto Malacria e Giuseppe Viola.
Sul momento l'assenza di Matteotti dalla seduta della Camera non diede
luogo a particolari rilievi; l'allarme venne lanciato dalla sua famiglia il
giorno successivo. La notizia si diffuse ovunque. I giornali segnalarono
la misteriosa scomparsa, parlando di sequestro di persona o di delitto.
L'emozione circa il tragico episodio crebbe, quando il giorno 12 la scena
del rapimento fu nota e cominciarono affannose ricerche nelle campagne
dei dintorni di Roma. La polizia, con a capo il generale Emilio De Bono,
si diede da fare per rintracciare lo scomparso. Venne identificata
l'automobile che era servita per il rapimento e fu identificato il suo
3
Giacomo Matteotti (1885 – 1924): nato a Fratta Polesine; antifascista e deputato
del Partito Socialista Unitario.
4
Amerigo Dumini (1894 – 1967): nato a Saint Louis (USA) ; organizzatore del
Fascio Fiorentino e del rapimento dell'onorevole Matteotti.
5
Albino Volpi (1889 – 1939): fondatore e presidente della Società Nazionale Arditi.
10
proprietario, che risultava essere il direttore del "Corriere Italiano"
Filippo Filipelli, nonché i rapitori.
Vennero arrestati diversi fascisti, tra i quali il Dumini; il crimine
appariva ora in piena luce, ma il cadavere di Matteotti non si trovava.
Come Matteotti fosse morto, non si riuscì ad appurare con precisione
nemmeno più tardi, durante le varie fasi del processo. I sicari sostennero
che non avevano voluto uccidere, bensì soltanto "dare una lezione" al
deputato socialista. Stando al loro racconto, quando si resero conto che
Matteotti era morto persero la testa e girarono per molte ore lungo il
litorale laziale, alla ricerca di un posto ove nascondere il cadavere. Si
fermarono nella macchia della Quartarella, circa 20 km a nord di Roma
ove, scavata alla meglio una fossa poco profonda, vi seppellirono il
cadavere.
Nella seduta della Camera del 12 giugno, Mussolini rispondendo ad una
interrogazione del deputato socialista Gonzales, affermava di aver dato
ordini tassativi per la ricerca del deputato scomparso e che nulla sarebbe
stato trascurato per fare luce sull'avvenimento. A tali affermazioni
scoppiò un violento tumulto tra i deputati delle opposizioni ed esponenti
fascisti.
La sera del 12 giugno si riuniva anche il Gran Consiglio per la
discussione della situazione politica.
Il 13 giugno i gruppi parlamentari di opposizione decisero di non
partecipare alle sedute della Camera. Tutto il Paese era in uno stato di
angosciosa commozione e di fermento; oltre agli ambienti politici e
giornalistici, anche larghi strati della popolazione apparivano scossi e
turbati dall'avvenimento in cui sembrava che si riassumesse tutta la
quadriennale violenza fascista. Tuttavia questo fatto superava ogni
precedente, in quanto si trattava un delitto compiuto nella Capitale, sotto
gli occhi del Governo, per opera di uomini noti come bassi arnesi del
fascismo e contro un parlamentare che era stato negli ultimi tempi il più
fiero oppositore di Mussolini.
Tra gli stessi fascisti era visibile e palpabile lo smarrimento; si
accusavano a ragione o a torto l'onorevole Finzi, il generale De Bono,
l'onorevole Marinelli e sempre più apertamente si chiamava in causa lo
stesso Mussolini. Ne risultò per qualche tempo offuscata l'aureola che
circondava il capo di Mussolini agli occhi della moltitudine, mentre
ancora più profonda fu la svalutazione del fascismo in generale.
Il 16 agosto avvenne il ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti.
Il ritrovamento avvenne per circostanza casuale a due mesi dalla
scomparsa, nella macchia della Quartarella.
11
Il Ministro degli Interni Luigi Federzoni diede disposizioni affinché la
salma dalla stazione di Monterotondo raggiungesse al più presto
direttamente il paese di nascita del deputato.
A Fratta Polesine i funerali si svolsero in un'atmosfera solenne con
grande partecipazione di popolo.
Il secondo semestre del 1924 fu indubbiamente il periodo più difficile ed
il più duro che il fascismo avesse sino ad allora attraversato. Le
opposizioni antifasciste scatenarono al Parlamento e sulla stampa una
violenta campagna nella speranza di suscitare un movimento popolare di
rivolta che obbligasse il governo fascista di dimettersi. I deputati
dell'opposizione abbandonarono il loro posto in Parlamento dando vita al
così detto "Aventino".
A fine dicembre del 1924, il giornale "Il Mondo" pubblicava estratti di
un memoriale di Cesare Rossi
7
, il quale affermava di essere solo un
esecutore di quanto era accaduto e che " tutto quello che era successo era
avvenuto sempre per la volontà diretta o per la complicità del Duce".
Tale memoriale avrebbe dovuto offrire, per merito dei deputati
dell'Aventino, un’occasione ai membri non fascisti del governo
Mussolini di aprire la crisi. Tuttavia né Casati, né Sarrocchi, né Oviglio
né i ministri militari compirono un passo simile. Fu invece Mussolini a
scatenare la controffensiva, avvertendo che l'opinione pubblica era ormai
indifferente di fronte a tante rivelazioni, discorsi cui non seguivano i
fatti.
Il 30 dicembre il Consiglio dei Ministri approvava all'unanimità tutte le
misure necessarie per la tutela degli interessi morali e materiali del
paese. Il 31 dicembre il Ministro dell'Interni Federzoni, ordinava "un
giro di vite" con sequestri dei giornali d'opposizione, perquisizioni e
fermi di personalità dell'antifascismo.
Contemporaneamente si tennero una serie di adunate in varie parti del
paese in cui gli squadristi chiedevano a gran voce di passare alla
controffensiva.
Varie decine di consoli della milizia si presentarono direttamente da
Mussolini chiedendo un'azione decisiva del governo e anche un'azione
dittatoriale. Si trattava più che di una manovra intimidatoria rivolta più
che all'Aventino al Parlamento stesso e serviva a preparare l'ultimatum
del 3 gennaio 1925, giorno della riapertura della Camera. Alcuni
oppositori tra i quali gli autorevoli Giolitti, Orlando, Soleri prepararono
una mozione ove affermavano che la politica generale del governo,
mirante alla soppressione di ogni libera voce, era contraria all'esigenza
7
Cesare Rossi (1887 – 1967): fascista della prima ora all'epoca del delitto Matteotti;
Capo Ufficio Stampa del Viminale.
12
della coscienza nazionale, turbata anche dal rinnovarsi delle violenze
fasciste.
Mussolini cominciò il suo discorso dichiarando che non domandava un
voto politico (avendone avuti anche troppi); lesse ad alta voce l’articolo
47 dello Statuto, che riconosceva alla Camera il diritto di accusare i
ministri e tradurli dinanzi all'Alta Corte di Giustizia, chiedendo se
qualcuno fuori o dentro la Camera volesse avvalersi di tale diritto.
Quindi affermava testualmente, applaudito con forza dalla maggioranza:
"Dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il
popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità' politica,
morale, storica, di tutto quanto e' avvenuto… Se il fascismo è stato
un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a
delinquere… quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la
soluzione è nella forza".
I fascisti stessero pur certi che entro quarantotto ore la situazione si
sarebbe chiarita "su tutta l'area".
A tale discorso fecero seguito severe misure di repressione, le quali da
una parte sgomentarono gli oppositori e dall'altra restituivano a
Mussolini il prestigio in parte perduto di fronte agli estremisti fascisti i
quali andavano reclamando una politica di intransigenza.
Il 23 febbraio 1925, Roberto Farinacci veniva nominato segretario
Nazionale del Partito Fascista. E’ una tappa decisiva, in quanto segna
l'abbandono dello Stato costituzionale liberale e parlamentare.
Il primo provvedimento governativo era la mobilitazione di reparti della
Milizia. Il 6 gennaio il Ministro dell'Interno riferiva al Consiglio la
chiusura dei circoli e dei ritrovi politici; inoltre i prefetti erano stati
invitati a prendere provvedimenti contro ogni manifestazione antifascista
e ad applicare i decreti sulla stampa con i sequestri di giornali
d'opposizione.
La responsabilità era affidata a Luigi Federzoni, leader nazionalista
devoto allo Statuto e al Re, perché era ritenuto il più idoneo ad un ritorno
alla normalizzazione dopo il delitto Matteotti.
Dopo il discorso ed i provvedimenti del 3 gennaio 1925, si apriva una
sfida a Mussolini perché il voto non contava più niente e non era più
assicurata la incolumità degli eletti.
Gli aventiniani potevano portare ad una spaccatura politica; il governo
vietava loro pubblicazioni e dichiarazioni. L’8 gennaio il gruppo
dell'Aventino affermava: "La maschera costituzionale e normalizzatrice
è caduta, il governo calpesta la legge fondamentale dello Stato e soffoca
la libertà".
13
Farinacci, appena nominato segretario del Partito, come portavoce di
Mussolini dichiarava alla stampa che “la Camera poteva rimanere in vita
fin tanto che faceva comodo al governo, anche per l’intera durata della
legislatura che scadeva nel 1929; che ad ogni modo le elezioni non erano
vicine: confermando così il giudizio degli oppositori, che il permanere
del governo fascista rendeva di per sé inutile la consultazione del
paese”
8
.
Il 14 gennaio la Camera approvava la conversione in legge di oltre
duemila decreti-legge, e successivamente il Senato li approvava. Si
trattava di un evidente abuso, perché il potere di emanare decreti-legge
era ammesso in tempo di guerra; ma in tempo di pace non era possibile
scavalcare Camera e Senato, e presentare loro per l’approvazione
provvedimenti governativi peraltro già attuati in una violazione allo
Statuto.
Il Governo fascista cercava quindi, almeno formalmente, di non
sovvertire i rapporti tra il Parlamento ed il potere esecutivo. Allo stesso
tempo però veniva assolto Augusto Ragazzi, reo di omicidio e di altri
delitti contro la popolazione di Molinella (Bologna). Il 6 marzo Regazzi
e i suoi complici furono assolti dalla Corte di Assise. La soluzione
meritò il plauso del Segretario del Partito Farinacci perché i giudici
avevano saputo non confondere "un episodio della rivoluzione con i
volgari delitti comuni".
Nel giugno 1925, veniva prosciolto in istruttoria al Senato il Generale De
Bono; il proscioglimento fu pronunciato con formula piena dall'accusa di
complicità nel delitto di Matteotti e per insufficienza di prove. Uno degli
ultimi tentativi di opposizione legalitaria era una petizione al re contro la
violazione della libertà di stampa compiuta dal Governo. L'iniziativa era
stata presa da tre giornali: il "Corriere della Sera”, “Giornale d'Italia” e
“La Stampa".
Il generale Cittadini, primo aiutante del Re rispondeva quanto segue :
"L’esposto diretto a sua Maestà il Re, pervenuto al mio indirizzo, è stato
da me presentato al Sovrano, e quindi trasmesso per ordine della Maestà
Sua, a sua Eccellenza il Presidente del Consiglio dei Ministri".
Nasceva la stampa clandestina. Nel gennaio 1925, a Firenze, con i
fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Nello Traquandi, Dino Vannucci, usciva
il primo numero di "Non Mollare", che nel mese di ottobre cessava le
pubblicazioni.
Il 24 gennaio 1925 si riuniva il Consiglio Nazionale del Partito Popolare
espellendo i deputati clerico - fascisti che alla Camera avevano votato
per la riforma elettorale, inoltre veniva pubblicato in un primo tempo un
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L. Salvatorelli – G. Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Milano, 1964, p. 358.
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manifesto dove si dissociavano dall’opposizione dell'Aventino, dai
repubblicani e dai massimalisti; in un secondo tempo i Popolari
riconfermavano la loro solidarietà con l'Aventino. Soltanto l'11 febbraio
la direzione del Partito Liberale dichiarava una netta opposizione al
Governo.
Gli anni 1925 - 1926 avevano visto rinforzarsi l'apparato poliziesco del
fascismo, con l’elaborazione di una serie di leggi di carattere
eccezionale, che da una parte dovevano eliminare gli ultimi nemici e
dall'altra consolidare il Regime. Il 28 ottobre 1926, nel chiudere i
festeggiamenti per il quarto anniversario della marcia su Roma,
Mussolini, trovandosi a Bologna, passò in rivista le legioni emiliane
della milizia.
Il 31 ottobre, mentre si recava alla stazione in un’automobile aperta, tra
due ali di folla, veniva colpito da un colpo di rivoltella sparato da un
ragazzo bolognese. Il proiettile gli sfiorò il petto, lacerandogli la stoffa
della giubba. Il giovane attentatore venne subito ucciso sul posto dai
fascisti presenti che gli si precipitarono addosso. Tale episodio, benché
di natura isolata, fu il pretesto per lo scatenarsi di rappresaglie contro i
giornali dell'opposizione; in varie città venivano effettuate varie
spedizioni punitive. Il “Popolo d'Italia”, organo del Partito Fascista, in
un articolo del 1° novembre 1926, scriveva in una nota: "Un regime
rivoluzionario ha le sue leggi rivoluzionarie e inesorabili che lo
salvaguardano".
Il Ministro della Giustizia Alfredo Rocco presentava il disegno di legge
"Difesa della Stato" da presentarsi in Parlamento, che istituiva la pena di
morte e il Tribunale Speciale.
La legge 25 novembre 1926 n° 2008, sui provvedimenti per la sicurezza
dello Stato, introduceva la pena di morte per gli attentati contro il Re, la
Regina, il Principe ereditario e il Capo del Governo e per alcuni gravi
delitti contro la sicurezza per lo Stato. Per giudicare tali reati era previsto
un Tribunale Speciale. Alla legge speciale del 1926, facevano seguito
quella del 1930, il nuovo codice penale e quello di procedura penale.
Nella sua relazione alla Camera dei Deputati, Rocco dichiarava che la
legislazione vigente si era dimostrata inadatta non solo a prevenire i
crimini, ma anche a soddisfare l'opinione pubblica con una ragionevole e
severa punizione dei crimini già commessi.
Il Ministro discuteva sull'irriducibilità persistente dei nemici dello Stato
proponendo la pena di morte per delitti aberranti e chiedendone
l'applicazione per i reati politici.
Nella sua relazione, Rocco giustifica la legge istitutiva del Tribunale
Speciale considerando che questo istituto è previsto per durare cinque
15
anni. In realtà poi, prima della data di scadenza, nel dicembre 1931, si
provvederà a prorogare la durata di altri cinque anni mediante un
progetto di legge presentato il 6 maggio 1931 e divenuto legge il 4
giugno 1931 n° 674, denominata "Per la proroga del termine stabilito per
il funzionamento del Tribunale Speciale della Difesa dello Stato per altri
cinque anni".
Il Tribunale Speciale era costituito da:
1. un Presidente scelto tra gli ufficiali del Regio Esercito, Regia Marina
ed Aviazione e della MSVN;
2. cinque giudici scelti tra gli ufficiali della MSVN aventi grado di
console;
3. un relatore senza voto tra il personale della giustizia militare;
4. la nomina veniva effettuate con il Decreto del Ministero della Guerra
e revocabile con decreto dello stesso ministro.
Le attribuzioni ed il funzionamento venivano trasferite al Capo del
Governo.
Si può notare che, in base all'articolo 7 della legge 25 novembre 1926
n°2008 e all’articolo 1 della legge 13 marzo 1927 n° 313, nella pratica il
Tribunale era presieduto a volte da ufficiali, altre volte da Consoli
Generali della MSVN.
Ai sensi:
della legge 25 novembre 1926 n°2008 articolo 7;
del Regio Decreto 13 marzo 1927 n°313 articolo 1 IV° comma;
del Regio Decreto 13 marzo 1923 n° 313 articolo 1 III° comma
si disponeva che i Consoli ed i seniori della MVSN avevano incarico di
giudici, ma in realtà dovevano essere ufficiali superiori in congedo del
Regio Esercito, Marina ed Aviazione.
Il Tribunale Speciale aveva un organico ridotto; il personale all'inizio era
comandato dalle amministrazioni civili o militari solo in caso
eccezionale era collocato fuori ruolo.
La nomina dei membri del Tribunale inizialmente era effettuata dal
Ministro della Guerra, e successivamente dal Capo del Governo.
Ai sensi dell'articolo 7, quinto comma, della legge 25 novembre 1926 n°
2008, le sentenze non erano impugnabili, né era possibile ricorso a meno
di una revisione.
La legge n° 2008 avrebbe dovuto avere carattere temporaneo e restare in
vigore solo cinque anni. Buona parte delle sue norme furono poi trasfuse
nel nuovo codice penale; la logica dello Stato di polizia avrebbe portato
alla conservazione del Tribunale Speciale, attraverso prolungamenti
quinquennali della sua esistenza, in magistratura stabile e definitiva per
giudicare i reati politici.