utilizzabili a tal fine da parte del giudice
1
. Sorge dunque la
necessità che dottrina e giurisprudenza riescano a sopperire a tale
lacuna legislativa, che si presenta particolarmente importante se si
tiene conto del fatto che riguarda l’individuazione di criteri il cui
utilizzo sarà di fondamentale rilevanza nella determinazione della
pena che verrà in concreto applicata nei confronti del reo. Per
questi motivi, il problema in questione viene inevitabilmente a
congiungersi con quello relativo alla funzione che, nel nostro
ordinamento, la pena deve esplicare, riguardo al quale, a parte la
fondamentale disposizione costituzionale diretta ad attribuire alla
sanzione penale una finalità rieducativa, deve ancora essere
registrata la mancanza di previsioni normative, visto che l’art. 133
c.p. si limita ad indicare gli aspetti che debbono costituire oggetto
di valutazione da parte del giudice, senza però precisare le finalità,
retributive piuttosto che preventive, che devono essere perseguite
mediante l’applicazione della pena, le quali possono determinare
valutazioni notevolmente difformi anche in relazione al medesimo
fatto
2
.
Da simili premesse muove questo lavoro, il cui fine è quello di
fornire un panorama delle diverse teorie elaborate relativamente
alla individuazione dei parametri utilizzabili al fine di determinare,
nei singoli casi, il livello di gravità assunto dalla colpa, verificando
la loro compatibilità con valori costituzionali quali la funzione
1
In dottrina, vi è anche chi, come GALLO, Colpa penale, in Enc. Dir. vol. VII, P.
643, ritenendo difficile individuare un esatto canone di graduazione ispirato a criteri logici,
sostiene che il giudice debba ricorrere ad “intuizioni emotive”.
2
In questo senso vedi: PADOVANI, Diritto penale, VI edizione, 2002, p. 297 – 298;
MANTOVANI, Diritto penale, Parte generale, 1992, p. 800.
rieducativa della pena ed il principio di personalità della
responsabilità penale, così come interpretato dalla corte
costituzionale. A tale scopo, le varie concezioni che verranno di
volta in volta prese in considerazione saranno esaminate cercando
anche di capire quali conseguenze verrebbero ad essere prodotte,
in sede di determinazione della pena, dal loro accoglimento, in
modo da poter giungere altresì alla elaborazione di un criterio che
permetta al giudice di esercitare il potere discrezionale attribuitogli
dall’art. 132 C.P. nel pieno rispetto del principio di colpevolezza,
nonché del principio personalistico, in virtù del quale una sanzione
come quella penale, diretta alla limitazione della libertà personale
dei consociati, deve rappresentare uno strumento volto al recupero
dell’individuo e non alla sua neutralizzazione.
A questo proposito, una questione che risulta essere pregiudiziale
rispetto a quella relativa alla determinazione dei criteri che
possano essere utilizzati dal giudice al fine di accertare il grado
della colpa è quella relativa alla sede sistematica in cui tale
problema debba essere affrontato. Nel dibattito dottrinale relativo a
tale argomento, pur dovendo registrare la formazione di un
orientamento attualmente dominante, sono emerse alcune teorie
che meritano di essere esaminate in virtù delle rilevanti
conseguenze cui portano in relazione alla funzione della pena ed
alle conseguenze della sua comminatoria.
2 - Il problema della collocazione sistematica
2.1 – Il “grado della colpa” come indice della “capacità a
delinquere”.
La maggior parte della dottrina affronta la questione relativa alla
graduazione della colpa in sede di esame della colpevolezza
3
,
tuttavia non mancano autori che rifiutano tale soluzione
propendendo per una ricostruzione diversa caratterizzata dalla
collocazione del problema in esame nell’ambito della capacità a
delinquere
4
. Tale impostazione è per lo più frutto di una
concezione della colpevolezza di tipo psicologico, sviluppatasi nel
periodo illuminista, in virtù della quale questa viene a consistere in
un dato puramente psichico, costituito dal dolo o dalla colpa, che
consente di imputare il fatto al suo autore, il quale però, non
essendo suscettibile di variazioni di tipo quantitativo, può solo
sussistere o non sussistere, attenendo dunque solamente all’ “an”
della responsabilità e non anche al “quantum” di questa
5
. Essendo
3
MUSOTTO, Colpevolezza: Dolo e colpa, 1939, p. 189 s.; MAGGIORE, Diritto
penale, Parte generale, vol. I, 1949, p. 451. Più recentemente vedi: PADOVANI, Il grado
della colpa, in Riv. it. dir. e proc. Penale,1969, p. 836 s. ; MANTOVANI, Dir. Pen., cit.,
p.655 s.; FIANDACA – MUSCO, Diritto penale, Parte generale, 1985, p. 161.
4
GRISPIGNI, Diritto penale italiano, vol. I , 1952, p. 204 ; ANTOLISEI, Manuale di
diritto penale, Parte generale, 1990, p. 644 ; MALINVERNI , Scopo e movente nel diritto
penale, 1955, p.256 s.
5
PADOVANI, Appunti sull’evoluzione del concetto di colpevolezza, in Riv. it. dir.
proc. Pen., 1973, p. 560 s. Vedi anche Dir. Pen., cit., p. 166 s.. Il motivo per cui, seguendo
questa impostazione, la colpevolezza viene a configurarsi come entità non graduabile consiste
sufficiente, per l’esistenza del reato, la presenza di un “minimum”di
elemento psicologico, in questo caso di colpa, le sue eventuali
variazioni di consistenza, espressamente previste dall’art. 133 c.p.
quali indici di valutazione della gravità del reato, non attengono, si
afferma, alla colpevolezza, bensì ad altro, ossia alla capacità a
delinquere
6
, configurata come concetto riguardante
esclusivamente il futuro, consistente nella valutazione circa
l’attitudine del reo a compiere nuovamente un reato dello stesso
tipo di quello commesso. La valutazione relativa all’elemento
psicologico del reato viene dunque effettuata al fine di giungere ad
un giudizio essenzialmente prognostico, che si differenzia da
quello riguardante la pericolosità in quanto formulato tenendo
conto solo degli elementi da cui viene desunta la personalità del
soggetto, mentre la pericolosità viene accertata, secondo quanto
disposto dall’art. 203 c.p., tenendo conto di tutti gli elementi che
possano far ritenere probabile la commissione di nuovi reati
7
.
nel fatto che, come spiega l’autore, tale concetto è stato ricostruito prendendo in
considerazione solamente la sua struttura psichica, al fine di consentire l’imputazione del fatto
al reo, mentre, seguendo un preciso programma ideologico, si è voluto ancorare la valutazione
relativa al “quantum” della colpevolezza ad elementi obiettivi, ossia alla entità del danno
cagionato, superando così, in un’ottica garantistica, l’identificazione tra delitto e peccato che
aveva dato luogo, nel periodo storico precedente, ad abusi ed arbitri, consentendo al giudice
di ricercare le ragioni della punizione nella sfera interiore del reo, escludendo così ogni
garanzia di certezza. Tale impostazione trova il suo fondamento, nota ancora l’autore, nell’
”utopia egualitaria” propria di quell’epoca, ove si prevedeva la realizzazione di una società in
cui venissero superate le disuguaglianze di ordine sociale ed economico, nella quale dunque
ogni individuo avesse le medesime possibilità di adeguamento alle norme imposte dalla stessa
società al fine di rendere possibile la convivenza civile.
6
MALINVERNI, Scopo, cit., loc. cit.
7
MALINVERNI, ibidem, p. 246 s..
Nell’ambito di tale sistematica il reato viene quindi a configurarsi
come mero presupposto della pena, la cui misura e specie verrà
ad essere determinata in base alla capacità a delinquere, per il cui
accertamento sarà fatto riferimento, oltre che agli elementi relativi
alla personalità del reo indicati nell’art. 133 c.p., anche alle
variazioni quantitative dell’elemento psicologico.
2.2 – Il “grado della colpa” come indice della “pericolosità”.
Una ricostruzione diversa, che giunge tuttavia a conclusioni simili
alla precedente, è quella diretta a considerare il “grado della colpa”
come un elemento fondamentale del giudizio relativo alla
pericolosità del reo. Dato caratterizzante di tale impostazione è la
costruzione di un sistema penale incentrato sul concetto di
pericolosità, la quale, definita come “la capacità di una persona di
divenire con probabilità autrice di un reato”
8
, viene a costituire il
parametro fondamentale cui fare riferimento per la determinazione
della misura e della specie della pena
9
, parametro al quale, si
afferma, l’art. 133 c.p. allude espressamente quando impone al
giudice di tenere conto della “capacità a delinquere”, stante
8
GRISPIGNI, Dir. Pen., cit., p.174.
9
GRISPIGNI, Ibidem, p. 172 s., ove l’autore, a conferma di ciò, fa riferimento agli
istituti della sospensione condizionale della pena (art. 164 c.p.) e del perdono giudiziale (art.
169 c.p.), i quali, nel disporre che la pena non si applica quando “il giudice presume che il
colpevole si asterrà dal commettere altri reati”, vengono considerati una riprova del fatto che
il presupposto della sanzione penale sia costituito dalla pericolosità dell’individuo.
l’identità sostanziale che intercorre tra questi concetti
10
. In tale
ottica, dunque, i criteri di commisurazione della sanzione indicati
dall’art. 133 c.p. dovranno essere utilizzati unicamente per
determinare il livello di pericolosità – capacità a delinquere del
soggetto, ossia per valutare, mediante un giudizio prognostico, se,
ed eventualmente in che misura, questi debba essere considerato
capace di commettere, in futuro, fatti previsti dalla legge come
reato. Tale valutazione dovrà essere compiuta utilizzando tutti gli
indici previsti dall’art. 133 c.p., compresi quindi quelli relativi alla
gravità del reato, il quale, anzi, costituendo un fatto della
medesima natura di quelli che debbono essere presi in
considerazione al fine di accertare la pericolosità, rappresenta
l’elemento fondamentale del relativo giudizio
11
. Risulta dunque
evidente come, seguendo una simile impostazione, il grado della
colpa, insieme agli altri elementi indicati nella prima parte di tale
norma, venga a costituire un indice della pericolosità (e della
capacità a delinquere), nell’ambito di una valutazione
esclusivamente prognostica, diretta ad accertare unicamente il
livello di pericolosità sociale del reo.
A risultati analoghi in merito alla collocazione sistematica del
problema relativo alla graduazione della colpa giunge anche una
ulteriore ricostruzione
12
, a coronamento tuttavia di un
10
GRISPIGNI, Ibidem, p. 181, il quale fa riferimento alla Relazione al Progetto
definitivo, ove la capacità a delinquere viene definita come “l’attitudine dell’individuo alla
violazione delle norme giuridiche penali”, facendo notare come, in realtà, una persona
provvista di una tale attitudine non possa non essere reputata pericolosa.
11
GRISPIGNI, Ibidem, p. 204 s..
12
ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 644 s..
ragionamento diverso, il cui punto di partenza può essere
individuato nel disposto dell’art. 203 c.p., norma dettata, come
noto, in materia di misure di sicurezza. Dato che, si afferma, tale
disposizione, dopo aver definito “socialmente pericolosa” una
persona “quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti
dalla legge come reati”, dispone che tale qualità si desume dalle
circostanze indicate dall’art. 133 c.p., quindi anche dagli indici di
valutazione attinenti alla gravità del reato, può di conseguenza
essere affermato che il “grado della colpa” (così come l’intensità
del dolo e gli altri indici di valutazione cui fa riferimento il c. 1
dell’art. 133 c.p.) costituisca un elemento di valutazione della
pericolosità del reo. Dato poi che tra il concetto di capacità a
delinquere e quello di pericolosità si afferma sussistere una
differenza meramente quantitativa, essendo la prima la
disposizione o inclinazione dell’individuo a commettere fatti in
contrasto con la legge penale, la seconda la molto rilevante
attitudine di una persona a commettere un reato, ecco che,
analogamente a quanto accadeva nella ricostruzione esaminata
nel paragrafo precedente, il grado della colpa diviene un
importante elemento del giudizio relativo alla pericolosità –
capacità a delinquere del reo.
2.3 – “Grado della colpa” e colpevolezza.
Le teorie sopra esposte rappresentano una parte minoritaria delle
posizioni sviluppatesi in dottrina relativamente al problema in
esame. La sistematica comunemente accettata colloca infatti il
problema del grado della colpa nell’ambito della colpevolezza
13
, in
conseguenza del fatto che la diversa sistemazione prima
esaminata porta a conseguenze inconciliabili con il nostro sistema
penale. Come è stato correttamente osservato
14
, infatti, seguendo
tali teorie si finisce con l’accertare il grado della colpa, ai fini della
comminatoria della pena, tenendo esclusivamente conto della
futura condotta del soggetto, cioè della sua eventuale pericolosità,
soddisfacendo così solo esigenze di tipo preventivo. Il concetto di
responsabilità viene così ad essere sostituito da quello di
pericolosità, con l’effetto di configurare la comminatoria della
sanzione penale esclusivamente come strumento di difesa della
collettività nei confronti della persona socialmente pericolosa. La
conseguenza è che non viene più ad operare una funzione
importantissima della pena, riconosciuta come fondamentale
principio di civiltà, cioè quella retributiva
15
, la quale costituisce un
13
Vedi nota 3.
14
PADOVANI, Il grado, cit., p. 834 s..
15
Sulla importanza della funzione retributiva della pena vedi: PADOVANI, Dir.
Pen., cit., p. 287 s. ; MANTOVANI, Dir. Pen., cit., p. 749 s.; Conf. Corte Costituzionale, 24
Marzo 1988 n. 364, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, p. 696, con nota di PULITANO’, Una
sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, ove la corte, oltre ad escludere più
volte che, nel nostro sistema costituzionale, la pena possa assumere una funzione
esclusivamente deterrente, “data la grave strumentalizzazione che subirebbe la persona
umana”, precisa che la sanzione debba sempre trovare fondamento nella “soggettiva
limite alle esigenze della prevenzione, che altrimenti rischiano di
utilizzare il reo come un mezzo, cosa inaccettabile nel nostro
ordinamento, ove la persona e la sua tutela sono il fine che l’intero
sistema persegue e non lo strumento cui ricorrere per raggiungere
altri scopi. Per quanto riguarda le argomentazioni volte ad
individuare una conferma di tale sistematica nel disposto dell’art.
203 c.p., è stato osservato come in realtà il rinvio operato da
questa norma, ai fini dell’accertamento della pericolosità, a tutti gli
elementi contenuti nell’art.133 c.p., compresi quelli relativi
all’aspetto psicologico del reato, costituisca in verità una conferma
di come il reato commesso non possa essere considerato
unicamente sintomo di una più o meno elevata capacità a
delinquere, visto che è lo stesso Codice penale ad imporre una
sua duplice valutazione, volta in un caso all’accertamento della
responsabilità, nell’altro alla valutazione della pericolosità. I
coefficienti indicati dal legislatore all’art.133 c.p. non hanno cioè
significato monovalente ma sono utilizzabili ogni qual volta sia
necessario, per accertare sia la pericolosità che la colpevolezza
16
.
antigiuridicità del fatto”, la quale viene ad essere individuata nel “consapevole,
rimproverabile contrasto con i valori della convivenza civile”, facendo dunque riferimento ad
una pena fondata sul concetto di colpevolezza e non di pericolosità. Sullo sviluppo della
concezione retributiva della pena e sulla distinzione tra retribuzione “morale” e “giuridica”
vedi ampiamente PALAZZO, Introduzione ai principi di diritto penale, 1999, p. 48 s., che
correttamente osserva altresì come l’idea retributiva presupponga come suo corollario
l’adozione di un criterio di proporzionalità tra gravità della pena inflitta e intensità della
colpevolezza, il quale è poi divenuto, indipendentemente dall’accoglimento della concezione
retributiva, principio di carattere generale dell’ordinamento.
16
PADOVANI, Il grado, cit., p. 835. Per l’affermazione della natura polivalente degli
indici di valutazione indicati nell’art.133 C.P. vedi anche: DOLCINI - MARINUCCI, Codice
La collocazione della questione relativa alla determinazione del
grado della colpa nell’ambito della colpevolezza si presenta
dunque, per i motivi visti, come preferibile. Tale soluzione è inoltre,
al contrario di quella precedente, conforme al nostro diritto
positivo. L’adozione del sistema del “doppio binario”, cioè la
possibilità di applicare congiuntamente sia una pena che una
misura di sicurezza, nonché la volontà di ancorare la colpevolezza
al fatto, manifestata in particolare dagli art. 42, 43 e 45 c.p.,
dimostrano infatti come la regola sia quella della responsabilità per
il fatto commesso e non per il modo di essere del soggetto
17
,
essendo l’eventuale pericolosità presa in considerazione ai fini
dell’applicazione di una diversa sanzione, la misura di sicurezza,
distinta dalla pena, alla quale in alcuni casi può anche aggiungersi.
Tale principio è stato inoltre confermato da una importante
pronuncia della corte costituzionale
18
, relativa alla interpretazione
dell’art. 27 della Costituzione. Secondo la Corte, infatti, tale norma,
nel definire la responsabilità penale come “personale”, è
finalizzata, oltre che ad evitare forme di responsabilità per fatto
altrui, ad imporre sempre la presenza di una partecipazione
“subiettiva” dell’agente alla condotta penalmente rilevante,
ritenendo illegittima ogni forma di responsabilità che prescinda da
tale elemento. Inoltre, prosegue la consulta, ai fini della corretta
percezione della portata del termine “personale” occorre porre in
relazione tale norma con il terzo comma della stesso articolo, ove
penale commentato, 1999, art. 133, p.1046; ROMANO, Commentario sistematico del Codice
penale, 1995, art. 133, p. 703 s. ; Conf. Cass. 1 Ottobre 1991, in Rivista Penale, 1993, 658.
17
PADOVANI, Il grado, cit., p. 834.
18
Corte cost., 24 Marzo 1988, n. 364, cit..
viene enunciata la finalità rieducativa della pena. In virtù di tale
interpretazione sistematica del dettato costituzionale la corte
afferma essere essenziale, ai fini della formulazione di un giudizio
di colpevolezza, ravvisare nella commissione dell’illecito l’
”espressione di consapevole, rimproverabile contrasto con i (od
indifferenza ai) valori della convivenza espressi dalle norme
penali”, dato che la rieducazione del reo, cui necessariamente
deve tendere la pena, ha senso solo qualora venga dimostrata
l’effettiva sua partecipazione personale al fatto, cioè la “soggettiva
antigiuridicità dello stesso”, in mancanza della quale non si
prospetta alcuna necessità di tal genere. Il principio di personalità
della responsabilità penale non si risolve dunque nel mero divieto
di responsabilità per fatto altrui ma assume un più pregnante
significato, cioè quello di richiedere un collegamento psicologico
tra agente e fatto tale che quest’ultimo risulti frutto non solo
dell’attività materiale del reo, ma anche della sua partecipazione
psichica, così da rendere la sua condotta personalmente
rimproverabile. Alla luce di tali considerazioni, risulta a questo
punto evidente come non possano essere accolte le teorie, ora
viste, che, anziché sanzionare la commissione del fatto
penalmente rilevante, assumono a fondamento del rimprovero un
aspetto della personalità del soggetto, ossia la sua pericolosità,
dato che, in tali casi, la determinazione della pena viene ad essere
effettuata sulla base della valutazione di un dato caratteriale di cui,
com’è evidente, il reo non può essere ritenuto responsabile.