I.1 Introduzione
Oggetto della presente indagine è l’antica istituzione
1
del
giuramento nelle diverse forme che essa ha assunto, nel
corso del tempo, nell’ambito dell’esperienza giuridica
romana.
Rinviando alle pagine successive per l’individuazione
delle caratteristiche precipue del giuramento, in via
generale, si può anticipare che, nella sua configurazione
tradizionale, il giuramento si presenta come un atto
concluso in termini solenni ed «a struttura triadica»
2
, che
1
Il termine “istituzione” è utilizzato nell’accezione di «realtà concreta, complessa e
vivissima», indicata da R. ORESTANO, Ventotto pagine necessarie (1951), in
‘Diritto’ incontri e scontri (Bologna 1981) 122 ss. L’uso di tale termine sembra
preferibile a quello del termine “istituto” (più tecnico), visto che, come autorevoli
studiosi hanno rilevato, nel contesto della Roma arcaica, la realtà giuridica non è
ancora autonoma, ma è strettamente collegata con la dimensione magico –
religiosa. Ancora, è usato il termine istituzione per il giuramento da E.
BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee II (1969, trad. it. Torino
1976) 406, come si vedrà più avanti.
2
V. VITALE, Natura e legittimità del giuramento nel procedimento penale, in
Giurisprudenza costituzionale 20 (1981) 2137. Sulla struttura plurilaterale del
giuramento, si vedano: P. PRODI, Il sacramento del potere. Il giuramento politico
nella storia costituzionale dell’Occidente (Bologna 1992) 22, che definisce il
giuramento come una «invocazione della divinità come testimone e garanzia della
verità/veracità di un’affermazione – dichiarazione o dell’impegno/promessa di
compiere una certa azione o di mantenere un certo comportamento in futuro,
invocazione con la quale il singolo accende un rapporto con il gruppo a cui
appartiene (o i gruppi accendono un rapporto tra loro), ponendo in gioco la propria
vita corporale e spirituale in base a comuni credenze che attingono alla sfera della
3
coinvolge tre soggetti: il giurante, che invoca la potenza
sovraumana e si rivolge alla parte ricevente; la divinità
3
, che
funge da testimone all’atto; il soggetto – individuo o
comunità – che riceve il giuramento.
Afferma Cicerone:
Cic. De off. 3. 104: Est enim ius iurandum adfirmatio
religiosa
4
; quod autem adfirmate quasi deo teste promiseris,
id tenendum est.
Nel giuramento, dunque, si verifica la commistione di un
elemento umano e di un elemento sovraumano.
Ciò induce ad effettuare una prima considerazione in
ordine all’oggetto della presente ricerca: nella società
arcaica, non vi è una rigida separazione tra l’esperienza
meta – politica»; F. ZUCCOTTI, Il giuramento nel mondo giuridico e religioso
antico (Milano 2000) 1 s., che definisce il giuramento come «un’assunzione di
responsabilità compiuta dall’individuo non di fronte al suo interlocutore, diretto
interessato di quanto egli asserisce o promette, bensì di fronte ad un terzo, estraneo
a tale rapporto, ossia davanti alla divinità (o in ogni caso rispetto ad un principio
metasensibile) cui implicitamente o esplicitamente il soggetto si è rivolto».
3
Ricorda L. AMIRANTE, s. v. «Giuramento (diritto romano)», in NNDI. VII (Torino
1961) 937: «Di solito, la divinità invocata era Iuppiter, chiamato anche Dius Fidius;
ma si usava giurare anche genericamente per omnes deos e, nell’impero, per il
genius del principe. Nel periodo cristiano, si usò giurare per Deum o per la SS.
Trinità».
4
Per E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee cit. 489,
l’aggettivo religiosa è qui usato nel senso di “scrupoloso nei riguardi del culto”.
4
giuridica e l’esperienza religiosa, ma si realizza un
“continuum magico – religioso – giuridico”
5
.
Pertanto, come suggerisce il Calore
6
, per analizzare
l’istituzione del giuramento, «l’angolo visuale da adottare
deve essere più ampio di quello consueto per lo storico del
diritto. Esso deve ricomprendere, oltre l’atto del giuramento
che vincola i singoli e le regole ad esso sottostanti, anche le
forme ideali che lo fondano, così come il contesto sociale
che le produce e che gradualmente si struttura attraverso
l’ordinamento della città – stato».
In ossequio a tale autorevole suggerimento, partendo dalle
origini e dalla struttura del giuramento, il percorso della
presente indagine si svilupperà, in primo luogo, attraverso
5
A. SCHIAVONE, Linee di storia del pensiero giuridico romano (Torino 1994) 4.
Sono numerosi gli studiosi che si sono occupati dell’endiadi ius – fas. Tra questi: F.
BEDUSCHI, Osservazioni sulle nozioni originali di ‘fas’ e ‘ius’, in RISG. 10 (1935)
209 ss.; R. ORESTANO, Dal ‘ius’ al ‘fas’. Rapporto fra diritto divino e umano in
Roma dall’età primitiva all’età classica, in BIDR. 46 (1939) 194 ss.; ID., I fatti di
normazione nell’esperienza giuridica romana arcaica (Torino 1967); P. VOCI,
Diritto sacro romano in età arcaica, in SDHI. 19 (1953) 38 ss.; C. GIOFFREDI,
Religione e diritto nella più antica esperienza romana, in SDHI. 20 (1954) 259 ss.;
ID, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane (Roma 1955); P.
CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale (Torino 1960); R.
SANTORO, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in AUPA. 30 (1967) 103 ss.
6
A. CALORE, “Per Iovem lapidem” alle origini del giuramento. Sulla presenza del
‘sacro’ nell’esperienza giuridica romana (Milano 2000) 13.
5
un’analisi delle antiche forme ideali sottese al giuramento e
della loro evoluzione a seguito dell’emersione del concetto
di ‘civitas’ nella mentalità romana (mettendo in particolare
risalto il graduale fenomeno della laicizzazione del
giuramento) ed, infine, attraverso un’esame dell’utilizzo di
tale istituzione in ambito privatistico, in ambito
pubblicistico e nei rapporti con gli altri popoli.
6
I.2 Il termine “giuramento”
Sostiene il Benveniste
7
che «nessuna delle espressioni
religiose in cui la parola ha una virtù e dei procedimenti
propri è più solenne di quella del giuramento e nessuna
sembrerebbe più necessaria alla vita sociale. Eppure, ed è un
fatto notevole, si cercherebbe invano un’espressione
comune. Non esiste termine indoeuropeo di cui si possa dire
che si ritrovi in tutte le lingue antiche e che si riferisca in
senso proprio a questa nozione. Ogni lingua ha in questo
caso un’espressione propria e, nella maggior parte dei casi, i
termini usati non hanno etimologia. L’oscurità dei termini
sembra contrastare con l’importanza e la generalità
dell’istituzione che essi denominano».
Per lo studioso, la discordanza tra l’estensione del
giuramento a tutte le civiltà e la mancanza di una forma
verbale comune si spiega perché il giuramento è un «rito
che garantisce e sacralizza un’affermazione».
7
E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee cit. 406.
7
Pertanto, mentre l’intenzione alla base del giuramento è
sempre la stessa nelle varie civiltà, e consiste nell’attribuire
un particolare valore ad una propria affermazione, la sua
forma, invece, può cambiare e, quindi, potrà essere diversa
la terminologia utilizzata per indicare questo rito.
Si deve, allora, ricercare all’interno della lingua latina il
perché dell’uso del termine ‘ius iurandum’ per indicare il
giuramento. Questo termine si compone di due parole:
1) ‘ius’, termine che indica, in generale, il diritto,
cioè un insieme di regole, di formule che disciplinano
la vita di relazione degli individui;
2) ‘iurandum’, gerundivo del verbo ‘iurare’, cioè
“giurare”.
A prima vista, tra il termine ius ed il suo verbo, iurare,
sembrerebbe esserci una distanza incolmabile.
In effetti, afferma il Benveniste
8
, il verbo iurare non
indica ciò che, attualmente, si intende con il verbo giurare,
8
E. BENVENISTE, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee cit. 372 s.
8
cioè il fatto di impegnarsi in modo solenne e con il rispetto
di precisi cerimoniali, invocando un dio.
In tal caso, il giuramento è definito ‘sacramentum’.
E’, quindi, possibile distinguere due nozioni:
1) il termine sacramentum, che è il fatto di
consacrarsi agli dei, di attirare su di sé la loro vendetta
qualora si venga meno alla parola data;
2) il verbo iurare, che consiste nel ripetere una
regola, una formula.
L’azione di iurare esige la presenza di due soggetti: un
soggetto che ‘praeit verbis’, cioè che precede pronunciando
il ius, una formula, ed un altro soggetto che iurat, cioè che
ripete questa formula, chiamata, appunto, ius iurandum, cioè
“formula da formulare”, che fisserà i termini del
giuramento.
Quindi, partendo dal termine ius, formula che fissa una
norma, si definirà iurare come “pronunciare il ius”, cosa
che deve avvenire in verba alicuius qui praeit (cioè nei
termini che colui che precede ha indicato).
9
Il termine ius designa, nell’ambito di tale procedimento, la
formula che enuncia la condotta che il giurante dovrà tenere,
mentre il termine ius iurandum indica la natura della
procedura ed il carattere solenne dell’affermazione, non il
contenuto stesso del giuramento.
Alle stesse conclusioni giunge l’analisi linguistica del
Devoto
9
, che, partendo dall’analisi del termine ius, afferma
che il verbo iurare «non vuol dire, come potrebbe parere,
“agire col diritto”, ma semplicemente formulare e,
precisamente, “formulare una data formula”».
A giudizio del Devoto, infatti, il giuramento non è un
astratto del verbo iurare, ma è una “formula da formulare”:
ius iurandum».
Infine, ancora conforme alle considerazioni
precedentemente espresse è l’analisi dell’Albanese
10
, per il
quale la locuzione ius iurandum, se si presta la dovuta
attenzione all’uso del gerundivo, appare relativa ad un atto
con cui si doveva iurare un ius.
9
G. DEVOTO, Parole giuridiche (1933), ora in Scritti minori I (Firenze 1958) 100.
10
B. ALBANESE, Foedus e ius iurandum; pax per sponsionem, in AUPA. 46 (2000)
54.
10
Se al termine ius si attribuisce il valore di «situazione
stabile ed approvata (e perciò cogente), ritualmente stabilita
e proclamata» ed al verbo iurare, in simmetria, il valore di
«costituire un ius realizzandolo ritualmente», si giunge al
risultato di poter considerare il ius iurandum originario
come un atto nel quale un soggetto deve iurare, cioè
costituire una situazione stabile realizzandola ritualmente
con verba e gesti, in modo da adempiere un proprio dovere
di iurare (espresso dall’uso del gerundivo iurandum) che
può trovare spiegazione nella modalità rituale più antica di
quell’atto, che si compiva in esecuzione (quindi,
adempiendo un proprio dovere) del praeire verbis di un
altro soggetto che dettava i verba costitutivi del ius che era
oggetto del iurare.
Le indicate analisi linguistiche sembrano essere
completamente conformi alla funzione creativa del diritto,
tanto in ambito privatistico che pubblicistico, che il Calore
11
attribuisce al giuramento, come si vedrà più avanti.
11
A. CALORE, “Per Iovem lapidem” alle origini del giuramento cit. 146 s.
11
I.3 Le origini del giuramento
Le origini del giuramento affondano le loro radici in
un’epoca molto antica della storia di Roma.
Una delle iscrizioni più risalenti che sono a noi pervenute,
quella incisa sul ‘vaso di Duenos’ – che molti studiosi
12
collocano tra il VII ed il VI sec. a.C. – riporta la promessa
giurata di un determinato comportamento che avrebbe
dovuto tenere una fanciulla.
L’iscrizione
13
è effettuata in prima persona, come se fosse
il vaso
14
stesso a parlare
15
e l’arcaica struttura linguistica ne
rende difficoltosa l’interpretazione letterale.
12
Si vedano, per tutti: V. PISANI, Testi latini arcaici e volgari
2
(Torino 1960) 6; F.
COARELLI, Il foro Boario (Roma 1988) 287 (con critica alle datazioni troppo
basse): «…in nessun caso ci si potrà discostare da un ambito ristretto, compreso tra
la fine del VII ed i primi decenni del VI sec. A. C.»; A. L. PROSDOCIMI, Studi sul
latino arcaico, in Studi etruschi 47 (1979) 181; M. DURANTE, L’iscrizione di
Dueno, in Incontri linguistici 7 (1981-1982) 31.
13
Per le particolarità grafiche dell’epigrafe, si veda A. L. PROSDOCIMI, Studi sul
latino arcaico cit. 173 ss.
14
Si tratterebbe di un particolare tipo di , cioè di un vaso in ceramica
costituito da più vasetti saldati insieme destinato a contenere primizie da offrire agli
dei o altre sostanze rituali, come afferma F. COARELLI, Il foro Boario cit. 290. La
fattura del vaso è descritta anche da E. PERUZZI, L’iscrizione di Duenos, in La
parola del passato 13 (1958) 328 ss.
15
Il ruolo di primo piano attribuito al vaso si spiega con la credenza, diffusa a quei
tempi, di ritenerlo «un oggetto parlante», come sostiene F. COARELLI, Il foro
Boario cit. 287.
12
Comunque, gli studiosi sono piuttosto concordi nel
riconoscere le seguenti parole:
iurat deos qui me mittit
16
’ni in te comis virgo sit abs te (o
ast o adstet)
17
nisi ope toitesiai
18
pacari vis’.
Secondo l’interpretazione del Bolelli
19
, il tenore letterale
della detta iscrizione è il seguente: “Giura per gli dei colui
che mi vende che, se la fanciulla non ti è benevola, almeno
rimarrà accanto a te (=cioè, non ti sfuggirà) a meno che tu
non voglia pacificarti per opera di Tuteria (=una maga)”.
16
Si veda G. DEVOTO, Storia della lingua di Roma I (Bologna 1983) 71, seguito da
M. DURANTE, L’iscrizione di Dueno cit. 31 s. Invece, per V. PISANI, Testi latini
arcaici e volgari
2
cit. 9, il verbo mitat andrebbe tradotto con vendit e non con mittit.
La sostanza, però, non cambia.
17
La prima è la versione di M. DURANTE, L’iscrizione di Dueno cit. 32 s.; la
seconda è quella di V. PISANI, Testi latini arcaici e volgari
2
cit. 9; la terza è quella
di E. PERUZZI, L’iscrizione di Duenos cit. 328 ss. Tuttavia, ai fini della
comprensione del tipo di giuramento, è ininfluente la scelta.
18
È il termine che crea i maggiori problemi interpretativi, perché, come scrive M.
DURANTE, L’iscrizione di Dueno cit. 33, si tratta di «una parola che non trova
documentazione nel latino a noi noto». Le interpretazioni date sono le più varie:
Tuteriae, nome di donna, per E. PERUZZI, L’iscrizione di Duenos cit. 335 e 342 s.;
Tuteriae, nome di maga, per T. BOLELLI, De antiquissima inscriptione quae Dueni
nuncupatur annotationes, in P. CIPRIANO, P. DI GIOVINE, M. MANCINI (a cura di),
Miscellanea di studi linguistici in onore di W. Belardi I (Roma 1994) 208; Tutela,
come divinità (identificabile con la Fortuna di Servio Tullio), per F. COARELLI, Il
foro Boario cit. 290 ss. Tutte queste interpretazioni, però, implicano un
coinvolgimento del vaso.
19
T. BOLELLI, De antiquissima inscriptione quae Dueni nuncupatur annotationes
cit. 208.
13
Diversa interpretazione è data dal Calore
20
, per il quale,
invece, il significato di tale iscrizione è il seguente: “Chi mi
manda (o chi mi vende) giura per gli dei che, se non vuoi
essere soddisfatto ad opera di Toitesia, la ragazza non ti sarà
compiacente”.
Molto si è dibattuto, in dottrina, anche sulla funzione di
questo vaso. Esso è stato considerato:
1) dal Colonna
21
, un oggetto artigianale per conservare
profumi ed unguenti;
2) dal Dumezil
22
, un “documento” con la promessa
giurata di matrimonio, consegnato al marito dal tutore
della ragazza;
3) dal Pisani
23
, uno strumento magico – religioso che,
con l’aiuto di filtri, determinava il comportamento
della donna auspicato dall’uomo.
20
A. CALORE, “Per Iovem lapidem” alle origini del giuramento cit. 7.
21
G. COLONNA, Duenos, in Studi etruschi 47 (1979) 163 ss.
22
G. DUMEZIL, La deuxième ligne de l’inscription de Duenos, in Hommages à M.
Renard (1984), saggio rielaborato in Idee Romane. Osservazioni preliminari sulla
dignità e l’antichità del pensiero romano (Genova 1987) 20 ss.
23
V. PISANI, Testi latini arcaici e volgari
2
cit. 8.
14
Ma ciò che rileva in questa sede, al di là della funzione e
della ancora dubbiosa interpretazione letterale, è che la
formula incisa sul vaso, attraverso la quale il vaso stesso si
faceva latore e con cui si garantiva il comportamento della
fanciulla, sia espressa nella forma del giuramento.
Ancora, l’antica origine del giuramento è confermata da un
passaggio del I libro delle Antichità romane di Dionigi di
Alicarnasso
24
, storico erudito del I sec. a. C., che, dopo aver
narrato la storia
25
dalla quale sarebbe derivata l’antica
usanza romana di dedicare la decima parte dei guadagni ad
Ercole come ringraziamento, riporta un modo di giurare
24
La critica più recente tende ad attribuire a questo esperto della cultura romana
arcaica maggiore credibilità rispetto al passato. Si veda, per tutti, F. COARELLI, Il
foro romano I (Roma 1983) 7, il quale, auspicando una rivalutazione delle fonti
antiquarie rispetto a quelle annalistiche, si dice convinto della «possibilità di
utilizzare a pieno un autore come Dionigi di Alicarnasso, tradizionalmente
disprezzato dagli storici». L’ipercriticismo di alcuni storici è da imputare ad un
eccessivo condizionamento del giudizio negativo ereditato dal Niebuhr. Si veda S.
TONDO, Profilo di storia costituzionale romana I (Milano 1981) 16 ss., seguito da
C. A. CANNATA, Per una storia della scienza giuridica europea I (Torino 1997) 37
s. nt. 15.
25
Ercole, dopo aver ucciso Caco e recuperato i bovini che costui aveva rubato, fu
talmente colpito dalla riconoscenza manifestatagli dalle genti del luogo che offrì
loro un banchetto, uccidendo alcuni animali della sua mandria, di cui sacrificò a
Giove la decima parte. D. SABBATUCCI, Rito e sacrificio, in M. VEGETTI (a cura di)
L’esperienza religiosa antica (Torino 1992) 27 ss., è ritornato di recente – si veda
prima ID., Lo stato come conquista culturale. Ricerca sulla religione romana
(Roma 1975) 167 ss. – sull’argomento della decima offerta al fanum dell’Ara
Maxima al fine di spiegare la formazione del «concetto di proprietà» nella cultura
romana con il superamento della coppia «profanus/proprius».
15