INTRODUZIONE
Secondo il rapporto dell’Heidelberg Institute for International Conflict Research
(HIIK)
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il 2013 è stato l’anno che ha registrato il maggior numero di conflitti dopo il
1945. Il triste primato è stato assegnato in seguito all’individuazione di 414 scontri
attivi su scala globale. Di questi, 221 hanno visto l’impiego della violenza, 20 sono
stati classificati come vere e proprie guerre e 25 hanno ricevuto l’etichetta di ‘guerre
limitate’. Secondo lo studio le zone più calde sono il Medio Oriente, l’Asia e l’Africa
sub-sahariana (basti pensare che solo in Sudan e Sud-Sudan sono state individuate
ben cinque guerre); ma anche continenti tendenzialmente pacifici come l’Europa
hanno registrato un aumento dei conflitti rispetto al 2012
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e la situazione attuale non
lascia presagire un miglioramento per il 2014. Di fronte a uno scenario di tale portata
viene spontaneo pensare che l’informazione possa giocare un ruolo fondamentale, se
non altro perché essa è in grado di porre l’accento sulla gravità della situazione e
sensibilizzare così l’opinione pubblica. Ma come si sono comportati i media di fronte
a tale stato di cose? E qual è stata la percezione che l’audience ha avuto dei conflitti?
Certamente alcune guerre sono entrate a pieno titolo nell’agenda-setting dei media. È
il caso della Siria, ad esempio. Tuttavia, secondo il Barometro dell’HIIK, quello
siriano è stato il conflitto che ha causato il maggior numero di vittime e, dunque, si
tratta di un evento difficilmente eludibile da parte dei media. Occorre però osservare
che nell’ambito del conflitto siriano (e più in generale di molti degli scontri scaturiti
dalla cosiddetta Primavera Araba) si è spesso parlato di schizofrenia mediatica,
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intendendo con tale termine quella particolare situazione per cui tra continue
conferme e smentite il giornalismo non sempre ha potuto offrire alla propria
audience un’immagine chiara del conflitto. Dunque, sebbene si sia parlato di Siria,
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Heidelberg Institute for International Conflict Research, Conflict Barometer 2013, HIIK, Heidelberg
(Germania), Febbraio 2014, pp. 12-18.
2
Ibidem, p. 28.
3
A. APPIANO, Clandestina a Damasco. Cronache da un paese sull’orlo della guerra civile, Alberto
Castelvecchi Editore, Roma, 2011, p. 5.
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non sempre se n’è parlato nel modo giusto e, peggio, si è creata molta confusione. E
se la copertura mediatica del conflitto siriano (tra i più gravi) c’è stata, non si può
dire altrettanto di molti altri conflitti che, non essendo stati menzionati, hanno finito
per aggiungersi a una lunga lista di guerre invisibili o dimenticate.
A tale stato di cose vanno poi sommate altre problematiche. Nel mondo
tecnologizzato la relazione tra mass media e politica si rivela sempre più articolata ed
è spesso piena di insidie. Le guerre sono ormai combattute su due fronti: sul campo e
all’interno dei canali mediatici. Soprattutto nel corso degli ultimi anni i vertici
militari e civili hanno acquisito enormi competenze nell’utilizzo dei mezzi di
comunicazione, talvolta servendosene per fini propagandistici. Contemporaneamente
è cambiata la percezione che si ha del giornalismo. Per un lungo periodo di tempo i
media sono stati considerati neutrali divulgatori di notizie. Oggi, tuttavia, si è sempre
più propensi a valutarli alla luce del complesso ruolo che essi giocano nel contesto
della politica internazionale, nonché in relazione al contributo che apportano alla
costruzione delle condizioni sociali in cui la stessa si inserisce ed opera. Il
giornalismo, in breve, acquisisce una funzione chiave non solo rispetto al modo in
cui il pubblico percepisce il mondo, ma anche perché è in grado di influenzare la
politica e modificarne l’agenda. Tale inversione di tendenza nella considerazione del
ruolo del giornalismo ha indotto molti reporter a riconsiderare il proprio grado di
responsabilità, dando vita a nuovi approcci professionali che tentano di modificare il
livello di coscienza dei giornalisti stessi. A partire dal conflitto nei Balcani, molti
reporter hanno dato il via a una serie di movimenti di stampo etico, volti a indagare
se e in quale misura i giornalisti debbano assumere un ruolo attivo all’interno dei
conflitti, non limitandosi a riportare solo i fatti, ma agendo responsabilmente ed
evitando così di fomentare l’odio tra le parti. Tuttavia in tale occasione è accaduto
che a una propaganda di guerra si sostituisse rapidamente una propaganda di pace,
che finiva per essere altrettanto inaccurata nell’esposizione dei fatti e che ignorava
eventi che non confermassero la narrativa prescelta. Altri approcci, al contrario,
hanno tentato di evidenziare le responsabilità dei reporter di guerra accogliendo i
principi di imparzialità e accuratezza, tipici del giornalismo tradizionale, ma ponendo
l’accento sulle cattive tendenze di gran parte del giornalismo di guerra e sui rischi
insiti nel contribuire alle sue logiche.
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Il metodo del giornalismo di pace, affrontato in questo lavoro, si situa nel secondo
gruppo. I suoi sostenitori partono dal presupposto che i reporter abbiano determinate
responsabilità e che troppo spesso corrano il rischio di contribuire a narrative
dominanti, le quali, a causa di interessi di vario genere, non sempre mirano a una
comprensione chiara ed esaustiva dei conflitti. Di fronte a una simile situazione i
giornalisti possono difendersi se muniti dei giusti strumenti, come, ad esempio,
maggiori competenze nell’ambito della teoria del conflitto e degli studi sulla pace,
nonché un forte senso critico esercitato attraverso la continua messa in discussione
dei valori-notizia su cui basano le proprie scelte professionali. I difensori del
giornalismo di pace sono convinti che la guerra sia un male e che lavorare per la sua
risoluzione pacifica sia dovere di tutti, anche dei reporter. Tuttavia, come vedremo, si
distanziano da forme di attivismo pacifista o intervento umanitario.
Sebbene tale approccio vanti una lunga storia alle spalle, esso resta ancora oggi poco
più che un progetto accademico ed è spesso soggetto a forti resistenze da parte degli
addetti ai lavori, i quali tendono a confonderlo con forme di giornalismo militante
più note e consolidate.
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Inoltre il peace journalism non presenta ancora una scuola
coerente ed omogenea, una grave mancanza, questa, che rende difficile il
reperimento di testi completi sul tema e che crea ulteriore confusione.
Sebbene, dunque, organizzare un discorso organico sul giornalismo di pace sia un
compito piuttosto arduo, il lavoro si propone di offrirne un quadro il più completo
possibile, tentando di identificare le varie scuole e cercando di chiarirne i principali
propositi.
È d’uopo sottolineare che la maggior parte della letteratura sull’argomento è in
lingua inglese, giacché il giornalismo di pace presenta per lo più un filone
anglosassone o internazionale, mentre resta quasi sconosciuto (eccetto che per il
lavoro e l’impegno professionale di alcuni istituti di ricerca e associazioni) in Italia.
Inoltre il suo impiego è fortemente ancorato al contesto culturale e politico, per cui si
manifesta più facilmente sia in territori altamente violenti (spesso su iniziativa di
associazioni internazionali o locali), sia in territori che presentino una lunga storia di
ricerca accademica rispetto agli studi sulla pace (come ad esempio la Norvegia e la
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È il caso, ad esempio, del journalism of attachment.
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Germania). Il lavoro non sarebbe dunque stato possibile senza il continuo impiego di
internet.
Lo studio segue una metodologia di ricerca ed è suddiviso in quattro sezioni. Nel
primo capitolo si analizzano le principali tendenze del giornalismo di guerra
tradizionale, mettendone in luce gli aspetti negativi, così come sono stati evidenziati
dai sostenitori del giornalismo di pace. Obiettivo di questa prima sezione è
comprendere quali siano le ‘cattive abitudini’ del war reporting, nonché i rischi a cui
ogni reporter è soggetto.
Nel secondo capitolo si espongono le origini storiche e i principi che guidano il
giornalismo di pace, tenendo soprattutto in considerazione la scuola di Johan Galtung
e di Wilhelm Kempf. A tale proposito un intero paragrafo è dedicato alla
precisazione di alcuni concetti chiave nell’ambito degli studi sulla pace, i quali
costituiscono un importante bagaglio culturale per chiunque intenda produrre
cronache eque e contestualizzate degli eventi bellici. Il terzo capitolo è interamente
dedicato al dibattito tra i difensori del giornalismo di pace e i suoi principali critici.
Tale capitolo parte dal presupposto che molti dei giudizi negativi espressi in
relazione al nuovo approccio si basino, in realtà, su un’errata interpretazione del
concetto stesso di peace journalism, per cui aprire uno spazio di riflessione si rende
quanto mai necessario. Infine il quarto capitolo analizza i canali mediatici che già
adoperano il giornalismo di pace e ne evidenzia la sporadica presenza anche
all’interno dei canali mainstream. Tuttavia, come si vedrà, l’approccio è più spesso
promosso all’interno di media alternativi o grazie al sostegno di associazioni
umanitarie. Tale condizione può costituire un limite per il giornalismo di pace,
poiché porta a confonderlo con forme di attivismo o movimenti di natura pacifista. Il
metodo, al contrario, vuole essere un modo più accurato di occuparsi delle questioni
belliche, con possibili estensioni a più generiche situazioni di conflittualità (sociale,
politica, culturale e così via). La proposta finale del lavoro verterà dunque sulla
costruzione di una più solida base teorica, supportata da ricerche scientifiche, che
mettano in luce quanto, considerato l’alto tasso di conflitti in atto, un metodo come
quello del giornalismo di pace possa in definitiva rappresentare un esempio di buon
giornalismo, etico ed accurato.
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Ringrazio la Professoressa Marina Milan per la sua grande professionalità, i preziosissimi consigli e
l’entusiasmo con il quale ha accettato di aiutarmi nella stesura del lavoro. Ringrazio inoltre la
Professoressa Mirella Pasini per il suo sostegno. Infine ringrazio Axel e Teresita per il costante
incoraggiamento.
1. COMUNICARE LA GUERRA
1.1. Il Giornalismo di guerra
I media sono sempre stati considerati canali informativi a uso e consumo di un
pubblico. Tuttavia essi esercitano anche una significativa influenza sulla politica,
interna ed estera, e su molte altre questioni di carattere sociale.
Soprattutto negli ultimi anni, l’attenzione verso il modo in cui i media modificano la
percezione dei vari attori sociali e le relazioni tra questi è aumentata
esponenzialmente. L’idea che i giornalisti non siano semplicemente osservatori
neutrali e che esercitino un forte ascendente sui contesti politici e sociali ha anche
modificato l’immagine che ogni reporter ha di se stesso, dando origine a diverse
tendenze nel modo di intendere la propria responsabilità.
Un’analisi di tali temi si rende ancora più urgente nell’ambito del giornalismo di
guerra, rispetto al quale la posta in gioco è molto alta e nel cui contesto si attivano
meccanismi talvolta limitativi per l’esercizio di un giornalismo libero da influenze e
pressioni. Soprattutto in questo ambito è possibile individuare nuove filosofie
professionali, come quella del giornalismo di pace, volte a specificare quale sia il
livello di responsabilità che ogni giornalista dovrebbe attribuirsi.
Il giornalismo di guerra, proprio perché affronta temi delicatissimi, è da sempre
soggetto a una serie di tendenze e condizionamenti insidiosi. Spesso le cronache
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belliche presentano pattern di omissione e distorsione della realtà, volti a favorire
un’immagine del conflitto che risponda alle esigenze dei vertici militari e civili.
Fattori come patriottismo, propaganda, rabbia, censura e sensazionalismo sono vere e
proprie trappole, in cui anche un buon giornalista può cadere. Uno degli esempi più
classici in questo senso ci è dato dal prestigioso “New York Times”, che nel 2004
dovette scusarsi con i propri lettori per aver acriticamente accettato la teoria delle
armi di distruzione di massa attribuite dal governo Bush a Saddam Hussein:
“Alcuni tra coloro che, in quel periodo, criticarono la nostra copertura degli eventi, attribuirono la
colpa ai singoli giornalisti. Il nostro esame, tuttavia, indica che il problema fu più complicato.
Editori, a vari livelli, che avrebbero dovuto sfidare i reporter, spingendoli ad adottare un maggiore
scetticismo, furono forse troppo affrettati nello ‘sbattere’ lo scoop in prima pagina. I resoconti sui
fuggitivi iracheni non furono sempre valutati a prescindere dal desiderio di voler spodestare Saddam.
Gli articoli basati su affermazioni terribili rispetto all’Iraq ricevettero spazi prominenti, mentre quelli
che le mettevano in dubbio finivano per essere sepolti da notizie meno rilevanti. In alcuni casi
nemmeno comparivano.”
1
Purtroppo l’ammissione di responsabilità sopraggiunse tardi, quando ormai
l’opinione pubblica statunitense era stata convinta della giustezza della guerra.
I governi e i vertici militari hanno fatto delle nuove tecnologie mediatiche dei
preziosi alleati, perfezionandosi nell’utilizzo delle tecniche comunicative e
avvalendosi di ogni possibile canale per portare avanti il proprio disegno di potere.
Siamo lontani dai giorni in cui la censura sembrava essere l’unica soluzione
praticabile per interrompere un eventuale indesiderato flusso informativo: oggi le
informazioni vengono manipolate dall’interno e gli stati coinvolti in un conflitto
talvolta si avvalgono dei servizi di vere e proprie agenzie di pubbliche relazioni
specializzate nella promozione della guerra attraverso ogni tipo di canale
comunicativo. Il Pentagono, in questo senso, ha fatto scuola: in Afghanistan ingaggia
l’agenzia di consulenza pubblicitaria Rendon Group, già nota per essersi messa al
servizio della Cia, della famiglia reale del Kuwait ai tempi della Guerra del Golfo e
del Congresso Nazionale Iracheno.
2
Il compenso ufficiale è di centomila dollari al
mese, l’obiettivo quello di ingaggiare una vera guerra contro i mass media. Inoltre,
sempre in tale occasione, viene creato l’Ois (Office of Strategic Influence),
rinominato più realisticamente dai reporter ‘Ufficio Bugie’, il cui scopo è infiltrare
1
G. MITCHELL (editore e giornalista), The Times and Iraq, “New York Times”, New York, 26 maggio 2004.
2
M. CÁNDITO, I reporter di guerra – Storia di un giornalismo difficile da Heminggway a Internet, Saggi
Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano, 2009, pp. 80-81.
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notizie -vere e false- all’interno dei media stranieri.
3
Anche la guerra dei Balcani
registra la presenza di diverse agenzie sul territorio: la Ruder Finn Global Public
Affair, la Hill & Knowlton e la Waterman & Associates, tutte altamente specializzate
nella manipolazione e fabbricazione di notizie.
4
Jim Harff, presidente della Ruder
Finn, afferma: “Le guerre moderne non possono essere vinte senza un buon lavoro di
p.r., soprattutto quando si tratta di avere in mezzo gli Usa e l’Onu.”
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D’altronde il
suo mestiere è più che lecito e la sua agenzia risulta regolarmente registrata.
Al tempo stesso i media sono in grado di condizionare, attraverso la sola presenza in
un luogo, specifici eventi, che altrimenti non si verificherebbero: è la société du
spectacle. Di fronte all’occhio mediatico gli attori dei conflitti cambiano
atteggiamento, inscenando veri e propri atti bellici per dimostrare la propria
superiorità. Mimmo Cándito lo racconta bene nel suo I Reporter di Guerra. Il giorno
in cui gli uomini di Kabila entrano nella città di Kinshasa, il giornalista è nella
capitale congolese, in compagnia di un cameraman e altri colleghi. La troupe
approccia un gruppo di uomini che detengono un prigioniero. Alla vista della
telecamera in funzione, la reazione è istantanea: gli uomini iniziano a recitare il film
del linciaggio. L’operatore di camera comprende immediatamente la situazione e
interrompe le riprese. La folla è delusa, ma la vita del malcapitato è salva: “La
presenza di una macchina fotografica, o più ancora di una telecamera, scatena
spesso una impressionante voglia di protagonismo.”
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Ora, quanti reporter di guerra
rinuncerebbero a documentare un evento per salvare delle vite umane? E quanti
realizzerebbero che il fatto documentato è provocato, in larga misura, dalla presenza
stessa dei media?
Detto questo è bene specificare che le riflessioni appena esposte – e quelle a venire –
non vogliono in alcun modo screditare tutto il giornalismo relativo ai conflitti:
esistono molti inviati – ma soprattutto corrispondenti – che svolgono la loro
professione impeccabilmente. Tuttavia è pur vero che l’informazione bellica – e
soprattutto quella all’interno dei canali mainstream – si orienta spesso alla
promozione della guerra e della violenza, finendo per fare il gioco del potere.
3
Ivi.
4
Ibidem. pp. 317-318.
5
Ivi.
6
Ibidem, pp. 327-328.