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INTRODUZIONE
Partendo dalla definizione del concetto di «genere» come costruzione sociale, il lavoro di
tesi verte sulla ricerca di quella che verosimilmente poteva essere la percezione di tale
costrutto in un’ottica di età moderna, cercando di cogliere la sensibilità del tempo,
guardando tra le fonti istituzionali, quelle letterarie ed artistiche e soffermandosi su
porzioni spazio-temporali differenti. La domanda di fondo è: che cos’è il genere? E
ancora: cos’era lo stesso per buona parte di quella che definiamo età moderna? Lo spazio
del femminile era realmente subalterno? Le donne lavoravano? Patriarcato e fallocrazia
possono essere definiti i pilastri della costruzione identitaria, in un mondo a trazione
maschile? Ma vi è una distanza tra le posizioni degli apparati istituzionali e la percezione
collettiva? E gli uomini che non si identificavano con le etichette standardizzanti che gli
venivano affidate? E gli omosessuali? Qual è l’approccio con l’identità di genere non
binaria?
Partendo da questi interrogativi, il lavoro si articola in quattro capitoli: nel primo
l’attenzione è posta sul concetto di femminilità, sulla costruzione di tale categoria,
prestando attenzione a cosa l’età moderna eredita dal passato, individuando i fili
conduttori che permettono a determinate stereotipizzazioni di perdurare ed attecchire in
realtà differenti; il secondo capitolo, invece, si occupa della questione dello “spazio”,
cercando di cogliere verosimilmente l’interscambiabilità tra ciò che siamo soliti definire
come ambito “privato” da una parte e ambiente “pubblico” dall’altra. Nel terzo capitolo
la questione di genere ne incontra un’altra, anch’essa di complessa definizione: quella del
potere. Si cercherà di individuare lo stesso in relazione al genere in tutte le sfaccettature
del possibile, dal potere con la P a maiuscola, a quello nascosto, privo di ufficializzazione,
a forme di potere che si esprimono nelle microrealtà, ribaltando il ruolo di contesti nei
quali non siamo tradizionalmente portati a cercare il potere stesso. Il quarto ed ultimo
capitolo, infine, è incentrato sulla percezione di genere non dicotomica, abbandonando il
dualismo maschile/femminile. Ci si soffermerà su testimonianze e ricerche concernenti
storie di omosessualità ante litteram, dando spazio anche a questioni correlate come il
travestitismo e il camuffamento identitario e all’individuazione di quel maschile che non
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risponde alle aspettative collettive ed istituzionali, le quali finiscono col definire ciò che
è lecito ed il suo contrario.
Nell’elaborato si procede per porzioni temporali piuttosto ampie, nella speranza di
soffermare l’attenzione propriamente sui fattori di continuità e su quelli di rottura, con
uno sguardo ad ampio raggio che cerca di cogliere un’idea d’insieme e le motivazioni che
sono alla base del perdurare di determinate costruzioni concettuali. Allo stesso tempo,
però, l’indagine scende metaforicamente all’interno di ambiti specifici, focalizzandosi su
storie individuali ed analizzando categorie di persone differenti per status, collocazione
temporale e/o geografica, cercando tra le fonti del tempo e gli studi storici lo sguardo di
individui di età moderna.
Le storie di donne che ribaltano la propria condizione sociale non intendono identificarle
come eroine o come sante, e nemmeno, agli antipodi, la subalternità delle stesse intende
essere sottolineata per inchiodarle ad un’immagine di impotenza e sottomissione. La
realtà è verosimilmente ricca di notevoli sfaccettature e difficilmente, inserendo questi
personaggi in definizioni preconfezionate, riusciremmo a cogliere la complessità del
reale. La repressione di un fenomeno non implica conseguenzialmente la sua scomparsa,
come la presenza di una voce nuova in un contesto già strutturato non comporta l’avvento
di novità rivoluzionarie: spesso è solo un unicum, una piccola porzione di cambiamento.
È chiaro d’altro canto che i grandi stravolgimenti storici, a mio avviso, avvengono tramite
rivoluzioni di dimensioni notevoli, come attraverso piccole conquiste, consapevolezze
graduali che si inseriscono nelle coscienze e nelle idee dei più fino a costruirne la nuova
norma.
L’idea è quella di intraprendere un viaggio, fatto di fonti di vario tipo e di studi scientifici,
alla ricerca di risposte o forse di domande, cercando di restituire un’idea di genere
verosimile, nella convinzione che genere, potere, privato, pubblico, maschile, femminile,
omosessuale, eterosessuale sono concetti interiorizzati, figli di una determinata epoca.
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I CAPITOLO
Costruzione del concetto di femminilità in epoca moderna: tra eredità
e nuove percezioni
Ciò che definiamo come femminile, maschile, genere, famiglia, privato, pubblico e via
dicendo è sostanzialmente una costruzione storica, il frutto della percezione di ciò che un
determinato contesto eredita e/o costruisce intorno ad una specifica categoria. Che cos’è
il femminile? E soprattutto cos’era il femminile in epoca moderna?
La storica americana Wiesner-Hanks, a proposito delle donne nell’Europa moderna, ci
aiuta a riflettere primariamente su questa questione di approccio all’argomento: «Gli
storici si sono resi conto che non solo nel presente il genere è “performativo”, cioè ha un
ruolo che può essere accettato o cambiato a volontà, ma lo stesso avveniva sotto molti
aspetti nel passato, quando gli individui “creavano il genere” e si conformavano ai ruoli
di genere o li mettevano in discussione»
1
. Così come George Lachmann Mosse,
nell’ambito degli studi sulla mascolinità ci dice che «quello che ognuno considera come
un comportamento sessuale, o di altro genere, normale o anormale, è un prodotto dello
sviluppo storico e non una legge universale»
2
.
Possiamo convenire che ogni epoca ha creato la propria concezione di ciò che è maschile
e di ciò che è femminile ed ha ereditato la costruzione di determinate categorie e
stereotipizzazioni in maniera più o meno consapevole.
Per secoli essere donna ed essere madre erano sostanzialmente coincidenti. Ancora oggi
la nostra costituzione in qualche modo sottolinea (inutilmente?) questo legame:
Art. 37 della Costituzione italiana. La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di
lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono
consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre
e al bambino una speciale adeguata protezione.
Su questa capacità o funzione essenziale delle donne si «concentravano […] aspettative
individuali, familiari, sociali, ma anche forme di tutela, di controllo, disciplinamento che
1
Merry E. Wiesner-Hanks, Le donne nell’Europa moderna, Bologna, Piccola Biblioteca Einaudi, 2017,
posizione 833 (versione e-book).
2
George Lachmann Mosse, Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari,
Laterza, 1996, p. 3.
8
avevano il loro epicentro nella famiglia (con le sue interne gerarchie), nell’istituzione
ecclesiastica e in quella politica»
3
.
Ciò che riguardava la messa al mondo di un figlio nell’atto concreto del parto, sfera
d’azione elitariamente femminile, incuteva spesso timore nell’immaginario maschile, che
percependo la portata di una qualità così potente e così fuori dal proprio controllo e potere
colorò spesso tale funzione di contorni magici: molte streghe condannate al rogo tra XV
e XVII secolo erano levatrici. Ridimensionare la capacità del corpo femminile di
«sdoppiarsi e mettere al mondo mantenendo la propria unità»
4
è stata un’operazione
necessaria da parte di chi temeva questa potenza e questo mistero. Ne è derivata una
dicotomia: la donna partorisce, l’uomo genera. L’epoca moderna ha sicuramente ereditato
questa differenza di funzioni dalla filosofia greca, nella cui speculazione vi è una forte
distinzione tra il contributo generativo del maschio, atto che in molte teorie non solo dà
l’apporto maggiore, ma genera un essere migliore, e quello della donna. Il corpo
femminile diventa una sorta di contenitore, che accoglie ciò che il seme più forte (e più
caldo, nella teoria aristotelica) offre. Tali approcci filosofici hanno offerto al patriarcato
un importante supporto teorico cosicché queste teorie sono riuscite a giungere quasi
intatte alla percezione degli uomini moderni, secondo l’immagine della donna che mette
al mondo attraverso un atto rappresentato in maniera particolarmente cruenta, tra le
sofferenze e i dolori; mentre all’uomo spetta il compito più alto, quello della generazione,
dell’atto primo e del dono quasi intellettuale della nascita, come nel Simposio platoniano.
Il mito del parto encefalico del re dell’Olimpo sostituiva al legame Demetra-Core (madre
e figlia), appartenente alla civiltà pre-indoeuropea, quello padre-figlio, Zeus-Atena,
permettendo che una caratteristica esclusivamente femminile venisse sostituita dalla
possibilità maschile non solo di generare ma di farlo attraverso la testa. La simbologia
adottata ci fa pensare, in qualche misura, che le donne vengano escluse dalla produzione
intellettuale perché una «figura femminile doppiamente feconda, nel corpo e nella mente,
sarebbe risultata all’immaginario maschile troppo potente e dunque minacciosa,
accentuando l’invidia e la paura inconscia che sta alla base di queste elaborazioni»
5
. Un
timore, aggiungerei io, che non è necessariamente consapevole e le cui conseguenze
3
Nadia Maria Filippini, Generare, partorire, nascere. Una storia dall’antichità alla provetta, Roma,
Viella, 2017, posizione 155 (versione e-book).
4
Ivi, posizione 248 (versione e-book).
5
Ivi, posizione 541 (versione e-book).
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collettivamente soppesate razionalmente, ma che coinvolge le suggestioni comuni e le
convinzioni generali; tanto da rappresentare la percezione dominante dello stato delle
cose e da tramandarsi di generazione in generazione, attecchendo continuamente in
qualche contesto e supportando continuamente qualche forma di patriarcato. Tale
processo implica l’interiorizzazione, quindi, di contenuti e modus operandi.
All’età moderna questo immaginario non solo giunge quasi inalterato, ma si arricchisce
delle suggestioni e della simbologia cristiana. Se l’incarnazione di Cristo e il ruolo di
Maria diviene centrale, è chiaro anche che quest’ultima è una donna diversa. È vergine,
quindi privata della sessualità, intesa come dissacrazione della purezza della carne, e non
ha tracce di sofferenza, di maternità carnale; nel parto mariano non vi è sangue, non vi è
dolore, non vi è rottura dell’imene. La donna comune, quindi, non è altro che
simbolicamente il suo opposto, ovvero Eva, la tentatrice del paradiso terrestre, donna
destinata in quanto tale a questa condanna:
con dolore partorirai figli
6
.
Eva, e con lei tutte le donne, partorirà intra faeces et urinam, tra sangue e sofferenze; la
raffigurazione di Maria, invece, che pure alcune immagini medievali rappresentavano nel
momento del parto, finisce con l’essere sostituita da una percezione iconografica e
simbolica svincolata dal momento dall’atto del dare alla luce in sé. La verginità di Maria
anche post partum rimarca l’assenza di quel momento tutto femminile sostanzialmente
carico di ombre e mistero. La scienza medica e il suo linguaggio, come accadrà per buona
parte del XIX secolo in relazione al legame tra omosessualità, nevrosi e malattia, avallerà
queste teorie: ancora nel Settecento, nella disputa sul taglio cesareo, in ambito medico
verrà utilizzata la tesi del dovere del sacrificio materno oppure, per quanto riguardava le
gravidanze a rischio, la stessa tesi verrà proposta in merito alla scelta di salvare la vita del
bambino rispetto a quella della madre.
Il dolore quale punizione impartita agli esseri umani dalle divinità, poi, era comune anche
ad altre professioni religiose ed il cristianesimo, soprattutto nella sua parabola
controriformista, ha acuito questa percezione della colpa e del castigo, della misoginia e
dell’accezione peccaminosa della sessualità. Piacere, sessualità e peccato, legame
rimarcato anche dal Corpus iuris civilis, viene ereditato dagli uomini di epoca moderna e
dalla loro percezione di genere anche nell’ambito di una sessualità non consenziente,
6
Bibbia, Genesi, III, 16.