6
di settore il fenomeno Internet è divenuto il tema privilegiato, in tutto il mondo si
pubblicano riviste sulla comunicazione web e sul giornalismo on-line). Poiché il
dibattito è strettamente connesso alle problematiche sulla globalizzazione rilanciate
da economisti, politici e studiosi attraverso i percorsi della comunicazione
tradizionale (libri, riviste, convegni, ecc.) ed attraverso al rete stessa (in gran parte di
controinformazione), è stato necessario cercare la bussola giusta per orientarsi
nell'immensa quantità di materiale che quasi settimanalmente si arricchisce di nuovi
contributi. L'intento era quello di capire in quale momento e con quali modalità il
giornalismo online ha intercettato il giornalismo tradizionale per poi passare al
confronto diretto tra modelli di impaginazione e stili di scrittura, scegliendo come
oggetto dell'indagine proprio l'evento del G8 di Genova. Inizialmente si pensava di
analizzare soltanto la lunga fase dell'organizzazione dell'incontro internazionale ma
le sanguinose giornate del luglio 2001 hanno imposto una nuova scansione
temporale, che ha come punto fermo la data dell'11 settembre quando l'occhio
mediatico si è spostato da Genova per indirizzarsi su New York.
Sulla base di queste premesse di metodo, l'elaborato si compone di due parti: la
prima, tutta teorica, ha come fonti principali libri e periodici, mentre la seconda, che
comprende gli ultimi tre capitoli, è interamente basata sulla consultazione sistematica
di alcuni quotidiani italiani e di molte pagine web.
I primi due capitoli ripropongono una carrellata sulla storia dei media dal giornale al
web, per verificare il diverso incrociarsi di scoperte tecnologiche e di mutamenti
sociali, i cambiamenti del modo di elaborare e pubblicare le notizie, anche in
relazione all’avvento progressivo degli altri mezzi di comunicazione come radio,
cinema e Internet. La società industriale impone la pubblicità, che trova nel giornale
7
il canale privilegiato introducendo anche nuove formule come la “penny press”,
premessa del giornalismo popolare; la fotografia introduce la stampa illustrata, il
mondo variegato dei magazine; censura e manipolazione dell'informazione restano
sempre in agguato. L'attenzione si sposta poi su cinema e radio (per porre l'accento
sul contrubuto che questi due media hanno dato all'internazionalizzazione delle
notizie), sulla TV con particolare riferimento ai più recenti progressi tecnologici e
alla situazione italiana. Il secondo capitolo è tutto dedicato ai cambiamenti che
l’informatica ha prodotto in poco tempo sugli altri mezzi di comunicazione, dalla
prima diffusione del personal computer alla nascita di Internet, che imprime la spinta
definitiva alla realizzazione della "società dell’informazione", una realtà ancora in
divenire, che rapidamente diventa l'interfaccia della globalizzazione.
E la globalizzazione è l’argomento del terzo capitolo, vista nel suo evolversi
attraverso la lente di alcuni autori, da Lewis Mumford, che già sul finire degli anni
'50 (La condizione dell’uomo, Milano, 1957) intravedeva il "villaggio globale" di
Marshall McLuhan, fino a Armand Mattelart che da anni incentra tutta la sua
attenzione sulla "comunicazione-mondo". Quando si parla di globalizzazione a
livello mediatico non si possono non citare le più importanti imprese transnazionali
dei media, vere padrone del circuito mondiale della comunicazione, che qui sono
ricordate soprattutto per evidenziare che tutte si collocano nel "nord del mondo"
irradiando potere in ogni angolo della terra. Infatti, come ben rilevano Luciano
Ardesi (Il mito del villaggio globale. La comunicazione nord/sud, Roma, 1992) e J.P.
Marthoz (Et maintenant, le monde en bref. Politique étrangère, journalism gobal et
libertés, Bruxelles, 1999), il tema della globalizzazione è strettamente connesso con
quello dell’interdipendenza, concetto che dovrebbe implicare una maggiore
8
attenzione nei confronti del Sud del mondo e che ha una connotazione più positiva
rispetto al termine cui è stato associato. Un paragrafo di questo capitolo sarà proprio
dedicato alla situazione dei media nel sud del mondo e all’integrazione (o non-
integrazione) degli immigrati nel panorama mediatico dei principali paesi europei.
Infine, l’ultimo argomento affrontato, non poteva che essere che l'emergere del
“Popolo di Seattle”, che così potentemente si è inserito nel circuito dei media
amplificando il dibattito "no global" perché capace di appropriarsi delle nuove
formule della comunicazione.
Proprio il "Popolo di Seattle”, nato quando già era stata predisposto l'appuntamento
genovese del G8, ha improvvisamente accelerato l'attenzione per un evento
internazionale, che originariamente sembrava tutto da inquadrare in una routine
collaudata negli anni. Tutti i canali del giornalismo informatico si sono attivati
giocando una partita inedita sullo scacchiere dell'informazione, rischiando di dare
scacco matto al giornalismo tradizionale. Per questo per la seconda parte della tesi
l'indagine si è spostata dai libri ai giornali e al web.
Nel quarto capitolo ci si è proposti di confrontare sul tema della globalizzazione tre
quotidiani italiani molto diversi tra loro per ideologia ed impostazione. La scelta è
caduta sul Il Corriere della Sera (il cui sito mette a disposizione dell'internauta
l'intero archivio dalle annate dal 1992 ad oggi), Avvenire, testata cattolica organo
della CEI ed il Manifesto, di sicura fede "no global". Per lo spoglio dei quotidiani è
stato utilizzato il programma “Pico” (disponibile presso la Biblioteca Berio di
Genova) che raccoglie in un unico CD-Rom una infinità di articoli di quotidiani e
riviste italiane ed estere dal 1989 al 1999, consentendo di organizzare la ricerca in
senso cronologico o per argomento.
9
Finalmente nel quinto capitolo entra in scena il G8, filtrato attraverso la lente dei
quotidiani nazionali e locali. Nel sesto capitolo l'attenzione si sposta sul punto di
vista della rete, che ha "agganciato" l'evento nell'arco del primo semestre del 2001
ma se ne è appropriata con forza nelle drammatiche ore che hanno scandito lo
svolgersi dei fatti al di là della "zona rossa" per documentare con fotografie e filmati
tutti i momenti della protesta e convogliare in mille rivoli di informazione alternativa
le mille e mille voci di chi era arrivato a Genova da ogni parte del mondo e si era
ritrovato "in prima pagina". Da quel momento le redazioni dei quotidiani e dei
telegiornali sono state costrette ad entrare in concorrenza (e talvolta si sono ritrovate
in condizioni di dipendenza) con le migliaia dei freelance e di testimoni che ogni
giorno rilanciavano nuove notizie, nuovi scoop, ben determinati a smentire le fonti
ufficiali o delle grandi agenzie di stampa.
E' d'obbligo ricordare che, tra giugno e dicembre 2001, ho avuto l'opportunità di
compiere uno stage presso Red@zione S.r.l., la società di comunicazione diretta da
Mario Bottaro, che cura i contenuti di Genovanet, uno dei principali portali della
città. Da questa postazione privilegiata, sono diventata "coprotagonista" del G8,
verificando dall'interno di una redazione il formarsi dell'informazione on line nella
quale i più giovani sembrano trovarsi a pieno agio, disponibili ad esaltare tutte le
potenzialità che Internet può offrire al giornalismo.
10
Parte I
11
1. “EVOLUZIONE DEI MEDIA”
1.1 Carta stampata
La stampa è stata per secoli l’unico mezzo di comunicazione che poteva essere
diffuso con relativa facilità. La sua nascita, grazie all’invenzione dei caratteri mobili
da parte di Gutenberg (1439), ha permesso alle informazioni, soprattutto economiche
o diplomatiche, che prima circolavano tramite lettera, di essere riprodotte in un
maggior numero di copie e con più rapidità, ma il vero sviluppo si è verificato grazie
ai miglioramenti tecnologici del XIX secolo
1
.
Le prime applicazioni riguardavano i conflitti dell’epoca (dalla guerra di Crimea,
1853–56), con le neonate agenzie di stampa pronte a sfruttare le potenzialità delle
nuove invenzioni
2
.
Fu il Regno Unito ad acquisire il dominio delle nuove reti di comunicazione di quel
periodo per facilitare la circolazione di informazioni tra la Madre Patria e il
vastissimo impero coloniale che possedeva.
Ci furono anche dei miglioramenti nelle tecniche di composizione a partire
soprattutto dal decennio 1840–50, con la messa a punto della macchina per stampa a
rotativa
3
, mentre il 1886 sarebbe stato l’anno della linotype, una macchina in grado
di comporre e fondere i caratteri e le righe nella sequenza desiderata, destinata a
1
L’invenzione dell’elettricità consentì l’avvio delle comunicazioni a distanza, grazie al telegrafo
elettrico di Morse e Cooke (1837) e al telefono di Graham Bell (1876) e il telegrafo senza fili di
Guglielmo Marconi (1895).
P. Albert, C. Leteinturier, Les médias dans le monde enjeux internationaux et diversités nationales,
Paris, Ellipses, 1999, pp. 9–10.
2
Le agenzie erano: la francese Havas (1835), l’americana Associated Press (1848), la tedesca Wolff
(1849) e la britannica Reuter (1851).
A. Mattelart, La comunicazione mondo, Milano, Il Saggiatore, 1994, p. 41.
3
J. R. Beninger, Le origini della società dell’informazione. La rivoluzione del controllo, Torino,
UTET Libreria, 1995, p. 9.
12
durare sino agli anni ’60–’70 del 1900 (verrà sostituita dalla fotocomposizione)
4
. Nel
frattempo era nata la “penny press”: il Sun (1833), in Gran Bretagna, costava appunto
un penny, grazie all’utilizzo della pubblicità non più soltanto come servizio, ma
principalmente come fonte di introiti
5
.
La stampa, sempre più indirizzata verso un largo consumo, divenne una vera e
propria industria.
Un altro grande passo avanti avvenne con l’invenzione della fotografia e il suo
utilizzo nella stampa illustrata
6
. Successivamente nacque l’uso propagandistico e
menzognero di questo potente mezzo: poiché le immagini danno l’impressione della
pura realtà e hanno un notevole impatto sul pubblico, si capì subito l’importanza di
nascondere e mostrare quello che si voleva a seconda degli scopi da ottenere.
L’avvento della cosiddetta “società di massa”, nei primi decenni del XX secolo,
portò la stampa a trasformarsi da “semplice strumento di produzione di massa a
mezzo di comunicazione di massa”
7
.
Anche la guerra divenne un fatto di massa, divenne perciò necessario ottenere il
maggior consenso possibile dei cittadini verso le azioni militari (per la prima volta
non vi era più distinzione tra popolazione civile e combattente) e cercare di
coinvolgere nella lotta, a proprio favore, i paesi ancora neutrali
8
. Uno dei mezzi più
adatti per una propaganda di questo tipo era proprio la stampa, grazie alla sua
diffusione. Diventò ancor più necessario, per evitare di fornire informazioni
4
P. Albert, C. Leteinturier, Les médias dans le monde, cit. , p. 13.
5
A. Papuzzi, Professione giornalista, tecniche e regole di un mestiere, Roma, Donzelli, 1998, p. 6.
6
L’invenzione risale agli anni ’30 del XIX secolo, ma il vero fotogiornalismo iniziò qualche decennio
dopo con lo sviluppo della lastra a mezzatinta, che consentiva di stampare la foto con la stessa
macchina usata per i caratteri tipografici.
Ibidem, p. 138.
7
J. R. Beninger, Le origini della società dell’informazione, cit. , p. 409.
8
A. Mattelart, La comunicazione mondo, cit. , pp. 83–84.
13
importanti al nemico, attuare una forma di censura, facendo filtrare le notizie dagli
uffici stampa degli apparati militari
9
.
Il periodo tra le due guerre mondiali vide l’esplosione del fotogiornalismo. Negli
Stati Uniti le neonate riviste del settore (Fortune, 1930 e Life, 1936) raggiunsero
tirature eccezionali
10
. L’espansione del fotogiornalismo e delle riviste illustrate servì
a contrastare la concorrenza che la stampa dovette fronteggiare a partire dagli anni
’20, quando due nuovi media vennero proposti al grande pubblico: la radio e il
cinema. Per la prima volta il “regno” della stampa, indiscusso da secoli, veniva
insidiato da altri mezzi di comunicazione competitivi, in quanto non escludevano chi
non era alfabetizzato.
Con il secondo dopoguerra gli stili giornalistici caratteristici di ogni paese si
stabilizzarono, l’importanza della libertà di informazione e di espressione venne
sancita da leggi o dichiarazioni a livello mondiale. Rapidamente le nuove tecnologie
hanno modificato sempre di più il lavoro dei giornalisti, facilitando la circolazione e
l’omogeneità dell’informazione.
Chiunque voglia studiare la stampa e la sua evoluzione, ha l’obbligo di soffermarsi
sul giornalismo statunitense, diventato spesso un modello per il resto del mondo.
Dagli Stati Uniti proviene la maggior parte delle fonti informative dirette in tutto il
globo, notizie riguardanti sia il proprio paese (come non avviene per nessun altro
stato), che gli altri (una notizia diventa mondiale solo quando diventa americana)
11
.
Oggigiorno “solo il testimone che riesce ad esprimersi in inglese lascia il suo segno,
9
S. L. Carruthers, The media at war. Communication and conflict in the twentieth century,
Houndmills, Macmillian, 2000, p. 59.
10
A. Pilati, L’industria dei media, scenari mondiali degli anni ’90, Milano, Il Sole 24 Ore Libri, 1990,
p. 140.
11
F. Colombo, Manuale di giornalismo internazionale, Bari, Economica Laterza, 1998, p. 24.
14
così come solo le notizie trascritte in inglese fanno il giro del mondo, scoraggiando la
circolazione di informazioni in altra lingua e cultura”
12
.
I media degli USA sono presenti su tutti i mercati, in tutti i settori, dalla stampa di
qualità a quella popolare, soltanto qualche testata britannica può fare loro ombra.
Associated Press, l’agenzia americana, è la più diffusa del mondo. La maggior parte
dei paesi occidentali ha cercato di attingere dalla cultura editoriale e dalla grafica di
riviste come Reader’s Digest (1926) o Business Week, la cui caratteristica principale
è sempre stata di offrire un prodotto americano adattato al mercato locale
13
. Si sono
così creati dei “cloni” europei.
In America, però, a differenza dell’Europa, esiste una forte schiera di stampa
alternativa, che analizza gli avvenimenti internazionali, effettua inchieste sulle
multinazionali e le istituzioni internazionali
14
, assumendo un ruolo per nulla
marginale.
Ma la caratteristica principale del giornalismo stelle e strisce, che lo ha reso famoso
ovunque è quella di essere la patria del giornalismo investigativo. L’avvenimento più
famoso, che verrà sempre ricordato, è il caso “Watergate” (1972)
15
.
Vi sono però anche dei difetti: non mancano gli errori di ortografia e le
approssimazioni sia geografiche che politiche non sono sconosciute
16
.
12
Ibidem, p. 25.
13
J. P. Marthoz, Et maintenant le monde en bref. Politique étrangère, journalisme global et libertés,
Bruxelles, GRIP, 1999, pp. 69–70.
14
Ibidem, p. 73.
15
Grazie a un informatore anonimo denominato “gola profonda” si venne a conoscenza che furono gli
emissari del partito repubblicano e non dei semplici ladri a svaligiare gli uffici del Comitato nazionale
democratico nel complesso del Watergate. Fu proprio il Washigton Post a investigare sul fatto che
portò all’impeachment del Presidente Richard Nixon. Non è stato soltanto questo l’unico caso in cui il
giornalismo americano ha dato buona prova di sé, il giornalismo investigativo è un giornalismo
d’indignazione, che a più riprese ha messo in imbarazzo la politica estera statunitense (per esempio,
nel 1991 Seymour Hersh descrisse il ruolo degli USA nel programma nucleare israeliano). Ibidem, pp.
83–84.
16
Ibidem, p. 86.
15
In effetti la prima potenza globale non può permettersi livelli di provincialismo come
in realtà accade. Soltanto un’élite di circa cinque milioni di persone si può
considerare bene informata, pochi sono i giornali di qualità che si occupano delle
notizie internazionali e sono disponibili solo nella loro zona d’insediamento. La
maggior parte della stampa rimane locale, soprattutto per convenienza: maggiori
introiti pubblicitari e informazione–spettacolo che aumenta l’audience
17
. In
particolare, dopo la fine della minaccia nucleare sovietica, il mondo esterno per un
certo periodo di tempo, è stato spazzato via dall’attenzione americana. Con il nuovo
Presidente Bush sembra che questo trend stia ritornando abituale.
Con la crescente riduzione delle distanze e la globalizzazione del mondo, è quasi
impossibile ignorare la categoria dedicata agli “esteri”, anzi è diventato sempre più
difficile indicare in quale settore del giornale va inserita una determinata notizia; il
New York Times ha risolto il problema basandosi sulla presenza o assenza americana
in un luogo oppure sulla rilevanza dell’attenzione
18
.
Per concludere è necessario sottolineare come il giornalismo di matrice anglosassone
e protestante sia solito separare in modo netto le notizie dai commenti
19
.
Un esempio di un giornalismo agli antipodi di quello americano o inglese è quello
italiano, che tradizionalmente ha tratto la sua principale legittimazione “dalla
funzione di collateralismo al sistema politico. Sin dall’Unità d’Italia la stampa aveva
lo scopo di aiutare a costruire l’italiano”
20
, quindi la logica formativa (caratterizzata
da un certo disinteresse nel coinvolgere i lettori in quanto si preoccupava solo di
17
Ibidem, pp. 87–88.
18
F. Colombo, Manuale di giornalismo internazionale, cit. , p. 124.
19
Ibidem, p. 23.
20
C. Sorrentino, Cambio di rotta, temi e tendenze del giornalismo italiano, Napoli, Liguori Editore,
1999, p. 9.
16
orientarli) ha sempre prevalso su quella informativa tipica dei paesi anglosassoni.
Se si considerano gli ultimi sessant’anni del “caso” italiano si può capire come il
giornalismo stampato sia cambiato, anche in un paese come il nostro spesso restio ai
cambiamenti.
Dopo la caduta del fascismo si assistette alla nascita di numerosissime testate, la
maggior parte delle quali sarebbe stata destinata a scomparire nel giro di poco tempo.
L’elemento distintivo di quegli anni fu un’assenza quasi completa di innovazioni e di
ricambio tra il personale; quasi ovunque dominavano la cautela e il conformismo,
permanevano gli schemi tecnici degli anni ’30. Tra i caratteri negativi si può
annoverare il cosiddetto “pastone”, che riguardava le notizie politiche: un articolo
ibrido, fatto di notizie, spiegazioni e commenti; inoltre anche l’articolo di fondo era
troppo lungo e carico di citazioni e riferimenti comprensibili a pochi. Numerosi
letterati erano chiamati a collaborare per dare lustro ai giornali
21
.
La novità più consistente tra i quotidiani era rappresentata dalle testate pomeridiane,
come La Notte, caratterizzate da un ampio ricorso al sensazionalismo, da una
titolazione vivace e brillante, da cronisti intraprendenti, da una veste grafica accurata
con l’impiego spregiudicato delle fotografie e con molte pagine dedicate allo sport
22
.
Si poteva notare il contrasto tra i quotidiani d’informazione, legati alla politica,
quindi alla contrapposizione tra il blocco comunista e quello cattolico–centrista
(almeno sino alla metà degli anni ’50) ed i settimanali di attualità e varietà, più
dinamici e spregiudicati. Questa differenza si rifletteva anche sulle vendite: i
quotidiani raggiungevano una diffusione limitata, circa 10 copie ogni 100 abitanti,
21
P. Murialdi, La stampa italiana dalla Liberazione alla crisi di fine secolo, Bari, Editori Laterza,
1995, pp. 74–75.
22
Ibidem, pp. 76–77.
17
classificandosi agli ultimi posti in Europa, mentre il fenomeno dei settimanali era
ormai “vasto e imponente”
23
.
I rotocalchi (i più famosi erano Epoca, ispirato a Life, Settimo Giorno, Europeo e Il
Mondo) riuscivano a soddisfare il desiderio di favole moderne dei lettori, con storie
di famiglie reali, di miliardari e divi del cinema, facendo uso anche di un linguaggio
più semplice e immediato, vicino alla realtà sociale anche quando l’argomento era la
politica
24
.
I cambiamenti internazionali che hanno caratterizzato la metà degli anni ’50 (la
morte di Stalin, la conseguente distensione con gli Stati Uniti e il fenomeno dei Paesi
Non Allineati), sono stati trattati dai giornali italiani con posizioni di estrema cautela.
In sostanza in questo periodo il giornalismo italiano soffre ancora di una certa
staticità e sudditanza verso la Democrazia Cristiana, ma è proprio in quegli anni che
ricominciano gli investimenti degli industriali nella carta stampata, non solo tramite
la pubblicità, ma anche con sovvenzioni dirette.
Una grave mancanza di tutti i quotidiani indipendenti e anche di quelli di sinistra fu
la carenza di pagine dedicate all’informazione economica e finanziaria, argomento
importante negli altri paesi, ancora trascurato in Italia
25
.
Un primo elemento di novità fu Il Giorno, fondato nel 1956, peculiare innanzitutto
perché di proprietà di un’azienda di Stato, l’ENI di Enrico Mattei (fino a quel
momento i quotidiani erano appartenuti a grandi gruppi economici privati). Le
pagine di questo nuovo quotidiano erano divise in otto colonne anziché nelle
classiche nove, in prima pagina (strutturata “a vetrina” e, per la prima volta, a colori)
23
Ibidem, pp. 90–91.
24
Ibidem, p. 92.
25
Ibidem, p. 137.
18
c’era sempre un titolo a sette o otto colonne e il lungo articolo di fondo era sostituito
da un breve resoconto della situazione giornaliera. Il modello era quello della stampa
anglosassone, con il tentativo di riassumere in modo conciso i fatti, separando la
notizia dal commento. Il Giorno eliminò anche una peculiarità del giornalismo
italiano, la terza pagina, aggiunse un supplemento a rotocalco di otto pagine, con
servizi fotografici e articoli di varietà e dedicò un’intera pagina ai giochi e ai fumetti.
Questo giornale ha avuto il merito di riempire molti spazi lasciati vuoti dagli altri
quotidiani: pagine per notizie economiche, gli spettacoli, la moda, la scienza, la
tecnica e rubriche personali. Il Giorno si differenziava anche nei contenuti: traspariva
il sostegno verso la distensione internazionale, l’organizzazione di una campagna a
favore dei paesi del Terzo Mondo, l’appoggio per l’apertura alla sinistra italiana.
Gli anni ’60, secondo Murialdi, non furono molto diversi quanto a conformismo e
sottomissione delle testate alla politica. Il primo esempio a suffragare questa
osservazione fu proprio il comportamento della stampa nel ’60 quando il
democristiano Tambroni formò un governo col sostegno del Movimento Sociale,
provocando una serie di proteste popolari che costrinsero il neo-Presidente del
Consiglio a dimettersi
26
, in quell’occasione i giornali dimostrarono di non riflettere la
società civile, ma di ritenere più importante la subordinazione alle logiche del potere.
Con la legge del 3 febbraio 1963, venne istituito l’Ordine dei Giornalisti. Veniva
stabilito che per svolgere la professione occorreva essere iscritti. Venne
sostanzialmente bene accolto, poiché contrastava il lavoro nero
27
. Alla fine degli anni
’60 avvenne un normale ricambio generazionale in tutti i giornali.
26
Ibidem, p. 154.
27
Ibidem, p. 163.
19
Gli anni ’70 furono un decennio fondamentale per il giornalismo italiano. Nonostante
numerosi problemi continuassero a non essere risolti (il deficit dei quotidiani, la loro
limitata diffusione, la mancata legge di riforma dell’editoria), nacque qualche idea
innovativa: al Corriere della Sera, il nuovo direttore Pietro Ottone (1972) rinnovò il
giornale, cercando di renderlo credibile agli occhi di tutti, inserendo anche delle
critiche al governo, se fosse stato il caso
28
. Il Manifesto, nato dal dissenso di una
parte dei comunisti alla repressione della Primavera di Praga (1968), da mensile
diventò quotidiano (1971). Caratterizzato da un rifiuto per le logiche del mercato
pubblicitario e viceversa, viveva di sottoscrizioni permanenti, causa le difficoltà
economiche, nonostante le brillanti vendite
29
.
Il quel periodo anche in Italia nacque il giornalismo di denuncia, sul modello
americano. Il principale quotidiano a rappresentare questo cambiamento fu La
Repubblica (14 gennaio 1976). Questo giornale ruppe con le forme giornalistiche del
passato, attuando strategie di marketing, selezionando drasticamente gli argomenti
(molta politica, economia, cultura, poco spettacolo e ancora meno sport, senza
cronaca locale e il numero del lunedì) approfondendoli maggiormente
30
. Fondata su
stili espositivi più graffianti rispetto a quelli dei quotidiani tradizionali, con un
formato diverso (tabloid di circa 20 pagine), da modello “nato nel segno dell’alterità,
della contrapposizione, diventò modello esemplare, ispirando le altre testate
italiane”
31
.
28
Ibidem, p. 182.
29
Ibidem, pp. 177–178.
30
C. Sorrentino, Cambio di rotta, cit. , p. 12.
31
Ibidem, p. 13.