PREMESSA
Le motivazioni che hanno spinto chi scrive ad intraprendere un lavoro sulle
organizzazioni non profit, ed in particolare sul volontariato culturale, sono di ordine
prettamente personale.
Sono due anni che il sottoscritto dedica il proprio impegno alla causa ormai
trentennale che lega l‟Istituto di studi atellani al proprio territorio, una
collaborazione recentemente rinsaldata attraverso l‟attività formativa promossa
dall‟Università di Napoli Federico II: Ed è su questo punto che voglio soffermarmi
e scambiare le mie riflessioni in particolare con chi, nella mia stessa posizione, si
accinge ad affacciarsi sul mondo del lavoro dopo anni di carriera accademica.
Dedicarsi ad un‟attività non profit come volontario, a prescindere dal settore di
riferimento, è un ottimo tirocinio. Per un giovane agli inizi, non ancora consapevole
di quali siano le dinamiche del mercato del lavoro e, soprattutto quelle di relazione
con gli altri luoghi di lavoro, un periodo come volontario è stato e può rappresentare
per tanti altri un‟esperienza molto utile per conoscere se stesso e verificare le
proprie motivazioni al lavoro. Aggiungere al proprio curriculum un‟esperienza
come volontariato in una delle attività non profit può sicuramente ben figurare nelle
selezioni fatte dalle aziende. Infatti, le imprese scelgono nuovi dipendenti e
collaboratori in base al titolo di studio, ma come del resto avviene in molti campi,
anche in virtù dell‟esperienza. E il volontariato offre possibilità illimitate da questo
punto di vista.
Il rapporto pubblicato anni fa Lavori scelti. Come creare occupazione nel terzo
settore promosso dalla casa editrice Lunaria, associazione impegnata nella
diffusione della cultura non profit, con la collaborazione del Forum permanente del
terzo settore, suggerisce che la prestazione di servizi realizzati nel cosiddetto terzo
settore costituisce per molti giovani un tirocinio in attesa di sbocchi occupazionali
“maggiori”, e che l‟attività gratuita o semigratuita svolta in queste organizzazioni
sviluppa competenze individuali che vanno a costruire una professionalità poi
spendibile sul mercato.
5
Ritengo che quanto detto sia un aspetto importante anche perché ogni impresa ed
ogni utenza richiede una particolare specializzazione, che va molto oltre il titolo di
studio e che, corsi e tirocini “canonici” a parte, si guadagna soltanto sul campo.
Il modesto intento di tale lavoro è in parte anche questo: cercare di mostrare,
attraverso la mediazione di vari contributi, quanto ciò sia reale o per alcuni
addirittura strano, specialmente in un mondo volto all‟individualismo, se non
addirittura all‟egoismo.
6
INTRODUZIONE
La scelta di trattare gli enti privati non profit dediti al settore artistico e culturale, ed
in particolare le associazioni e le organizzazioni di volontariato, è motivata dalla
vitalità e dal ricorso, in questi anni molto frequente, a questo settore da parte della
pubblica amministrazione ravvisandovi uno strumento più duttile, più snello e
deburocratizzato per raggiungere determinati obiettivi di natura socio-culturale.
In realtà, l‟interessamento di questa sfera economica al campo prettamente culturale
non rappresenta altro che un decisivo ampliamento degli ambiti di attività, avviato
in questi ultimi anni, che sigilla un lungo percorso evolutivo interno al settore non
profit, quest‟ultimo inteso come un contenitore di innumerevoli organizzazioni
senza scopo di lucro, nel quale, le associazioni e le organizzazioni di volontariato
costituiscono nient‟altro che una parte infinitesimale.
Nella maggior parte dei paesi occidentali, ad essere presenti fin dai primi secoli
dello scorso millennio erano quei enti che operavano senza fine di lucro nel settore
dell‟assistenza e della cura, accompagnando in tal modo tutte le fasi di evoluzione
dei moderni sistemi di welfare con cui oggi quotidianamente interagiscono. Ma se il
processo di sviluppo di queste forme organizzative è risultato molto variegato, la
loro presenza si è concentrata, per l‟appunto, nel settore dell‟assistenza, dei servizi
sociosanitari e dell‟inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati.
Pertanto, l‟idea di studiare e analizzare le organizzazioni di volontariato e le
associazioni di promozione sociale dedite all‟arte e alla cultura del nostro paese si
rivela tanto interessante ed affascinante quanto ardua ed insolita.
Il primo elemento di complessità è stata la scelta del punto di vista da cui osservare
e analizzare questa realtà. L‟ostacolo più grande, in realtà, sta nella vastità
dell‟oggetto d‟indagine, avvertendo in tal modo la necessità di definire non solo la
prospettiva da cui guardare il tema, ma anche di delimitare i confini del settore di
riferimento.
Nel presente lavoro si è scelto di studiare l‟ambito del non profit attraverso la
capacità, o meglio l‟opportunità offerta dai mercati per il reperimento di fonti di
7
sostegno (economiche e non) utili per le proprie attività, riducendo così la
tradizionale dipendenza da un unico finanziatore, quello statale, di fatto sempre
meno disponibile.
Attualmente si registra una crescente, ma come vedremo non sufficiente, apertura
alla comunicazione e al marketing che porta a considerazioni e consapevolezze
quali il riconoscimento della centralità della domanda, l‟importanza della
collaborazione tra i diversi soggetti (sia pubblici che privati) nel disporre l‟offerta:
in sostanza tale lavoro vuole dimostrare come l‟adozione di un aggiornato set di
tecniche di fund raising permette inoltre di raggiungere un pubblico più vasto e
diffondere una maggiore conoscenza e consapevolezza del settore culturale.
Questi, dunque, i temi trattati nel presente lavoro: il primo capitolo è rivolto
essenzialmente a fornire gli strumenti basilari per una corretta e globale conoscenza
delle organizzazioni non profit, rilevandone l‟utilità sociale ed economica; il
secondo capitolo si concentrerà nel trattare le più importanti organizzazioni di
volontariato e associazioni di promozione sociale dedite alla cultura, vere interpreti
della crescente importanza del volontariato per la tutela del patrimonio culturale e
per la gestione delle istituzioni culturali, e della conseguente necessità espressa
dall‟evoluzione normativa tesa a valorizzare e ottimizzare la posizione del
volontariato; con il terzo e quarto capitolo si affronterà il nodo principale dell‟intera
trattazione, ovvero la questione del finanziamento, fattore cruciale per un ente non
profit in quanto ne permette dapprima l‟esistenza, quindi la sua permanenza e la sua
capacità di operare per adempiere la mission che si è prefissata; in conclusione, il
quinto capitolo da conto delle specificità di due principali associazioni non profit
del nostro contesto nazionale, e della loro capacità di diversificare le proprie fonti di
sostentamento, il tutto analizzato attraverso gli strumenti di rendicontazione
gestionale messi a disposizione, dalle organizzazioni stesse, ai fini di questo trattato.
8
CAPITOLO PRIMO
IL MONDO NON PROFIT IN ITALIA*
1.1 I problemi definitori
La definizione di non profit o più scientificamente di not for profit, di derivazione
1
statunitense, non è ritenuta adeguata da diversi studiosi perché in questo ambito
rientrano anche gli enti pubblici. Per questo motivo molti autori, italiani e non,
preferiscono la denominazione di terzo settore distinguendolo dal primo settore
(Stato), e dal secondo settore (Mercato) con il disappunto di Pier Luigi Sacco, il
quale sostiene da un lato che lo Stato non è un settore, e dall‟altro che la dizione di
2
terzo settore è riduttiva in quanto fa intendere una categoria residuale.
In effetti, gli economisti hanno impedito a queste realtà, per il loro operare fuori
dalle regole teoriche, di non avere neppure diritto ad un nome positivo, ma è
definito solo per differenza negativa: “non profit o no-profit sono termini che
3
negano, che costruiscono per negazione”.
Quando vogliono essere più rigorosi, i ricercatori americani parlano di non profit-
sector in a three sector economy o di non profit organizations in a three sector
system, e queste espressioni sono senza dubbio più precise anche alla luce del fatto
1
È utile una specificazione terminologica. “Profit”, è un termine latino, forma contratta della terza
persona singolare (modo indicativo, tempo presente), del verbo “proficere” che significa
avvantaggiare. La parola confluì nel vocabolario anglosassone, tra il cinquecento e il seicento, ad
opera di alcuni monaci; cfr. G. SEGRE, 2009, p.9. Il “not for” è correttamente reso da “non”, e si
riferisce a quegli enti che operano senza avere per fine primario il conseguimento del profitto da
distribuire; se però i profitti si determinano, se non altro per efficienza aziendale, essi non possono
essere ridistribuiti e debbono essere reinvestiti nel perseguimento del fine primario di queste
organizzazioni: questo è il “non distribution constraint” messo in evidenza dalla letteratura
specifica; cfr. l‟opera pioneristica di H. HANSMANN, 1980, pp. 835-838; in Italia, tra gli altri, R.
GIACINTI, Gli enti per i servizi culturali, 2004, pp.15-17; V. D‟ANDÒ, Enti non commerciali.
Associazioni, Fondazioni, Organizzazioni di volontariato, 2006, pp. 11-12; C. BORZAGA, L.
FAZZI, 2008, Governo e organizzazione per l’impresa sociale, pp. 16-22.
2
P. L. SACCO, L. ZARRI, Perché esiste il non profit?,2006, p. 12, nota 17, o infra p. 19; cfr. anche
S. ZAMAGNI, 1998, pp. 20-25.
3
G. SEGRE, Intorno al dono un intreccio di sogni, 2009, p. 10.
*tra le fonti di questo paragrafo anche: Tesi di: Pierpaolo de Nardi, .Non profit e fondazioni Non profit e fondazioni,
Università degli studi di Cà Foscari, Relatore Giuliano Segre
9
che, negli Stati Uniti, il non profit rappresenta una specifica categoria giuridica che
4
si identifica nelle tax exempt organizations.
In Europa e in Italia il non profit è invece una categoria concettuale che comprende
enti di tipo associativo o cooperativo, fondazioni ed enti ecclesiastici che non
operano in una logica di profitto, ed è quindi una categoria fortemente eterogenea
per la quale è necessario ricercare e poi fissare dei tratti comuni fondamentali. A
questo proposito la letteratura economica, per affermare che un‟organizzazione ha
5
la natura di non profit, ha individuato le seguenti caratteristiche:
- costituzione formale
- natura giuridica privata
- autogoverno
- assenza di distribuzione di profitti
- presenza di lavoro volontario.
Nella realtà italiana, se questi criteri venissero applicati in modo stringente,
osservano Musella e D‟Acunto, condurrebbero a escludere dal non profit realtà che
svolgono e che hanno svolto un ruolo importante nel settore, ossia le cooperative
sociali e le organizzazioni ecclesiastiche di solidarietà: le prime perché non
rispettano appieno il vincolo di distribuzione degli utili, le seconde perché mancano
del requisito dell‟autogoverno in quanto la loro direzione è nominata dall‟autorità
6
ecclesiastica.
È preferibile quindi, sostengono gli autori succitati, fare riferimento alla
7
classificazione “allargata” di un autorevole giurista, Nicolò Lipari, secondo il quale
appartengono al settore non profit:
- le organizzazioni di volontariato
- le cooperative sociali
- le ONLUS
- le ONG (Organizzazioni non governative)
4
M. SALAMON, H. K. ANHEIER, In search of the Nonprofit sector, 1992, p. 127.
5
M. SALAMON, H. K. ANHEIER, 1992, pp. 130-145.
6
M. MUSELLA, S. D‟ACUNTO, Economia politica del non profit, 2001, pp.17-25.
7
N. LIPARI, Per una disciplina del terzo settore, 1996, pp. 55.
10
A queste, secondo lo studioso, vanno aggiunte:
- le associazioni nazionali e i circoli di cultura cinematografica
- gli Enti dello spettacolo
- le Fondazioni liriche
- le casse previdenziali dei liberi professionisti,
mentre definisce controversa la situazione di:
8
- le IPAB (istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza)
- gli enti ecclesiastici
- la fondazione Scuola nazionale del Cinema
- le fondazioni di origine bancaria.
Una classificazione diversa ma tenuta in grande considerazione, è quella
9
internazionale (ICNPO) che riguarda gli ambiti operativi. Essa prevede i seguenti
ambiti d‟intervento:
- Cultura e ricreazione
- Istruzione e ricerca
- Sanità
- Assistenza sociale
- Ambientalismo
- Promozione dello sviluppo delle comunità locali
- Promozione e tutela dei diritti civili
- Intermediari filantropici e promozione del volontariato
- Attività internazionali
- Organizzazioni imprenditoriali, professionali e sindacali.
8
G. P. BARBETTA, Senza scopo di lucro, 1996, pp. 63-64 ammette le IPAB fra gli enti non profit,
nonostante la natura giuridica pubblica della gran parte di esse, per i seguenti motivi: la possibilità
concessa, per legge, ad alcune di esse di trasformarsi in enti di diritto privato, per l‟elevato grado di
autonomia nei confronti dell‟ente pubblico controllante e per il fatto che solo nel 48% dei casi (dato
riferito al 1996) la maggioranza dei membri dei consigli di amministrazione è di nomina pubblica.
9
Questa classificazione è stata seguita anche dall‟ISTAT nel primo censimento delle istituzioni
private e delle imprese del non profit relativo all‟anno 1999; cfr. ISTAT, Istituzioni nonprofi in
Italia, 2001, e infra, p. 37.
11
Un‟ulteriore e interessante classificazione è quella proposta dai risultati del progetto
10
NETS (New Employment opportunities in the Third Sector) e sostenuta da
11
Alessandro Messina in un suo lavoro del 1999. Ai cinque criteri classificatori di
Salamon e Anheier, i ricercatori hanno ritenuto opportuno aggiungere tre nuove
caratteristiche per contraddistinguere le organizzazioni non profit.
Esse sono:
- indipendenza
- gestione democratica
- produzione di utilità sociale
I tre criteri aggiunti definiscono un insieme di non profit evidentemente più ristretto
rispetto a quello delimitato dai primi cinque ma aiutano a far emergere una tipologia
di organizzazione senza dubbio più aderente alla realtà italiana. Infatti,
l‟applicazione di tutti e otto i criteri in questione, sostiene Messina,
«conduce ad una scrematura del settore di tutte quelle organizzazioni
configurabili oramai come para-stato (ad esempio, le IPAB) o come
para-mercato (le cooperative “non sociali”) permettendo di ridurre
l’impatto complessivo degli ambiti di attività in cui è già presente
12
l’operatore pubblico».
Va anche ricordato che la definizione del progetto NETS ha un legame con i criteri
dettati dal legislatore italiano per l‟attribuzione della qualifica di ONLUS, infatti, il
decreto 460/97 richiede come elementi qualificanti proprio la struttura democratica
e la produzione di utilità sociale. Quindi la legge sulle ONLUS avvalora la
definizione di NETS che quindi può essere accolta come un ulteriore e utile
13
strumento di analisi.
All‟inizio del 1999 l‟Istat ha avviato una riflessione specifica sul problema,
attraverso la costituzione di un focus group sul non profit, giungendo ad adottare
10
Progetto di ricerca finanziato dalla Comunità Europea e presentato dall‟Università di Roma “La
Sapienza” e Lunaria.
11
A. MESSINA, Il terzo settore in Italia, caratteristiche economiche e finanziarie delle imprese
sociali, 1999, pp. 87 e segg.
12
A. MESSINA, 1999, p. 95.
13
Sul decreto sopracitato cfr. infra, p. 29.
12
una suddivisione del settore tra enti market ed enti non market, a seconda che la
loro produzione sia venduta o meno sul mercato a prezzi economicamente
14
significativi. Più precisamente, dice l‟ISTAT a proposito dei primi: “Si tratta di
istituzioni che offrono beni e servizi (si citano come esempi le scuole, i collegi, le
università, le cliniche, gli ospedali) e che hanno come fonte prevalente di
finanziamento i ricavi derivanti dalla vendita; tuttavia, data la loro natura non profit,
possono anche avvalersi dei proventi derivanti da donazioni di soggetti privati o da
15
sussidi pubblici”. Le istituzioni di tipo non market, invece, sono “al servizio delle
famiglie controllate e finanziate prevalentemente mediante trasferimenti privati, che
hanno la funzione di offrire beni e servizi a titolo gratuito o comunque a prezzi
16
economicamente significativi”. In questa categoria ricade la maggior parte delle
istituzioni non profit di natura privata in Italia. All‟interno di essa si distinguono poi
due ulteriori sottoinsiemi:
Istituzioni non profit a scopo mutualistico, “create tramite associazioni di
persone al fine di offrire servizi associati (ordini professionali, partiti
politici, sindacati, associazioni di consumatori, società religiose, club
17
sportivi, sociali, culturali e ricreativi)”.
Istituzioni non profit a scopo caritativo, “create a fini filantropici, la cui
funzione è quella di fornire beni alle famiglie bisognose senza il
18
corrispondente pagamento di un prezzo”.
Alcuni esempi di enti del secondo tipo sono le Misericordie e le altre associazioni
finalizzate al pronto soccorso, dove i beneficiari sono i bisognosi di soccorso,
oppure le istituzioni di assistenza ai poveri, come le Caritas. Gli enti non profit a
scopo mutualistico, come annota Mori, si differenziano da questa categoria in
14
ISTAT, 2001, p.20.
15
Ibidem.
16
Ibidem.
17
Ivi, p. 21.
18
Ibidem.
13
quanto producono servizi di cui godono primariamente soci, i quali a loro volta
19
controllano l‟organizzazione.
Negli ultimi anni, un‟etichetta che viene molto spesso utilizzata in ambito sia
internazionale che nazionale è quella di impresa sociale, accostabile secondo i
20
dettami della classificazione sopracitata agli enti market. Come osservano
Borzaga e Fazzi, non esiste tuttavia ancora una definizione univoca di impresa
sociale, ma “nei paesi europei si registra comunque una generale convergenza
intorno all‟idea secondo la quale l‟impresa sociale è un ente di natura privata, senza
scopo di lucro, che esercita in via stabile e principale un‟attività economica
organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni e servizi di utilità
21
sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale”. Anche il recente d.lgs.
24 marzo 2006, n. 155 approvato dal Parlamento definisce espressamente in questo
modo il soggetto giuridico impresa sociale. Un “paradosso per il pensiero
22
economico”, affermano i due autori di fronte alla progressiva affermazione
dell‟impresa sociale, in quanto ribalta il concetto di impresa pensato esclusivamente
come strumento per massimizzare l‟interesse dei proprietari, escludendo di fatto che
essa possa perseguire obiettivi e realizzare risultati sociali. Rispetto a questa
definizione d‟impresa, l‟impresa sociale condivide con l‟impresa tradizionale solo
la valenza di istituzione economico-produttiva, ma non il fine e nemmeno l‟assetto
proprietario, tendenzialmente diversificato e comunque mai nelle mani di uno o
pochi azionisti dominanti.
In coerenza con le definizioni suddette, per spiegare e interpretare la natura
specifica degli enti non profit molti studiosi hanno analizzato le caratteristiche dei
23
beni e servizi nella cui produzione esse sono normalmente impegnate.
19
P. A. MORI, Economia della cooperazione e del non profit, 2008, p.212.
20
Numerosissimi gli studi sull‟impresa sociale; tra le opere più recenti e complete cfr. C.
BORZAGA, L. FAZZI, Governo e organizzazione per l’impresa sociale, 2008.
21
Ivi, p. 16.
22
Ibidem.
23
Tra gli altri cfr. G. P. BARBETTA, 2003, p. 23-30; R. GIACINTI, 2004, p.p. 16-18; C.
BORZAGA, L. FAZZI, 2008, pp.19-22.
14
Sia la semplice osservazione del fenomeno sia le analisi empiriche mostrano che le
organizzazioni non profit operano in larga prevalenza nella produzione di beni e
servizi che hanno in comune non solo un‟elevata utilità sociale e alcune
caratteristiche che ne rendono difficile la produzione secondo le logiche di mercato,
ma anche il fatto di essere considerati dalla collettività di riferimento come meritori,
cioè come beni cui tutte le persone che lo desiderino devono poter avere accesso,
indipendentemente dal loro potere d‟acquisto. Si tratta, in sintesi, dei cosiddetti beni
24
e servizi pubblici definiti non rivali e non escludibili. Essi possono essere prodotti
in modo efficiente e distribuiti in modo equo pure da imprese for profit che operano
in concorrenza tra loro. Ma vi sono almeno due situazioni, ad avviso di Borzaga e
Fazzi, in cui la presenza esclusiva di produttori for profit non garantisce una
produzione di questi beni in grado di soddisfare pienamente la domanda. La prima
situazione si verifica quando, per mancanza di reddito o della capacità di generarlo,
una parte della popolazione non può accedere al consumo di beni o servizi meritori;
si generano in questo caso problemi di screaming e di diseguale possibilità di
accesso ai beni e servizi che finisce per penalizzare le persone più fragili e
svantaggiate. La seconda situazione si verifica quando esistono problemi nel
funzionamento del mercato, soprattutto per la presenza di asimmetrie informative,
che colpiscono in particolare la produzione di servizi sociali, sanitari, educativi e
culturali: in questi casi la produzione for profit o è impossibile oppure è socialmente
inefficiente, perché non è possibile impedire alle imprese di praticare prezzi più alti
di quelli della concorrenza o di produrre beni e servizi di qualità inferiore a quella
25
coerente con i prezzi praticati. Per queste ragioni, concludono i due studiosi, le
sole transizioni di mercato non sono adatte a governare i rapporti tra produttori e
consumatori nell‟ambito della produzione di buona parte dei beni e servizi di
24
Nel dettaglio, dal punto di vista della teoria economica un bene o servizio, quando possiede
simultaneamente i due attributi di non rivalità nel consumo e non escludibilità dalla fruizione è
definito pubblico; cfr. P.A. SAMUELSON, 1954, pp. 387-389.
25
Cfr. su questo il pionieristico lavoro di Samuelson, The Pure Theory of Public Expenditure, in
Review of Economics and Statistics, 36, 1954, pp. 387-389; cfr. anche C. BORZAGA, L. FAZZI,
2008, p.19.
15
welfare, giustificando in tal modo la scarsa presenza di enti commerciali nella
26
produzione di questi servizi.
Definizioni e classificazioni non si esauriscono qui essendo la fisionomia del terzo
settore ancora in fase di precisazione e quindi soggetta a modificarsi ed a evolversi
per mantenere il passo di una realtà in continuo cambiamento. Si è deciso pertanto
di illustrare rapidamente le prevalenti teorie che possono essere avanzate al fine di
giustificare l‟esistenza degli enti non lucrativi all‟interno delle maggiori economie
contemporanee; dalla ricognizione giuridica che seguirà si delineeranno con
maggiore chiarezza i confini di questo variegato mondo.
1.2 L’analisi economica delle ragioni di esistenza del non profit: le teorie
prevalenti
Lo scopo di questa riflessione è quello di accennare brevemente alcune delle
principali ragioni argomentative che giustifichino l‟esistenza di uno spazio socio-
economicamente rilevante che viene occupato, nelle economie di mercato
occidentali, dal cosiddetto settore non profit. In particolare ci soffermeremo su
alcune teorie che ormai è possibile quantificare come “spiegazioni classiche”
dell‟esistenza di tale ambito, per poi imperniare il discorso su recenti sviluppi della
letteratura economica e sulla difficoltà nel trovare una spiegazione non
residualistica dell‟esistenza delle organizzazioni senza scopo di lucro.
- La teoria del fallimento di mercato e del fallimento dello Stato di Burton
Weisbrod: riallacciando il discorso sui beni e servizi pubblici per cui la loro
rilevanza sociale è considerata cruciale per garantire i diritti di base dei cittadini, ma
nonostante tutto non riescono ad avere un mercato in quanto la loro domanda è
indefinita o indefinibile, è noto che lo Stato, o meglio il Welfare State, s‟incarica di
provvedere alla loro fornitura. La riflessione sviluppata da Burton Weisbrod verte
27
esattamente sui meccanismi di scelta dei beni pubblici da fornire alla collettività.
26
Ibidem.
27
B. WEISBROD, Toward a Theory of the Voluntary Nonprofit Sector, 1986, pp.57-84.
16
Risulta decisiva nella sua formalizzazione l‟ulteriore ipotesi in forza della quale le
decisioni pubbliche dipendono crucialmente dall‟esito di processi politici guidati da
meccanismi elettorali di tipo maggioritario, in cui quantità e qualità dei diversi beni
sono funzione dell‟esito del voto a maggioranza. All‟interno di un modello
economico di competizione elettorale di questo tipo, saranno allora le preferenze
dell‟elettore mediano a rivelarsi determinanti, dal momento che risulterà vincitore il
candidato che riuscirà a conquistare il 50% + 1 dei consensi (per questo il suo
modello è noto anche come „modello dell‟elettore mediano‟). Data l‟impossibilità
pratica di eguagliare, per ogni singolo cittadino che esercita il proprio diritto di
elettorato attivo, contributo marginale e beneficio marginale associati al bene o
servizio da produrre, con un voto a maggioranza solo l‟elettore mediano sarebbe
perfettamente soddisfatto del livello di fornitura deliberato dal Governo. Per quanto
riguarda il resto della popolazione, osserva che quanto più una popolazione è
eterogenea, specificità della società attuale, tanto maggiore sarà l‟insoddisfazione
dei cittadini elettori rispetto alla quantità e alla qualità del bene fornito a livello
statale.
A questo proposito, sostiene Weisbrod, la soluzione alla fornitura mancata da parte
dell‟ente pubblico di questi beni eterogenei non può essere soddisfatta dalle imprese
for profit, dal momento che i beni privati prodotti da quest‟ultime non sono sostituti
perfetti dei beni forniti dall‟attore statale, poiché presentano costi di fruizione per
consumatore di gran lunga più elevati. Di conseguenza, sarà esclusivamente il
settore non profit a poter integrare il range di servizi pubblici altrimenti
insoddisfacente per i consumatori esclusi dalle scelte politiche in materia. In questo
modo Weisbrod intende avvalorare la tesi che l‟esistenza del non profit è ascrivibile
al fallimento dello Stato (government failure), messo in luce dal modello
dell‟elettore mediano.
Caratterizzando l‟esistenza del non profit come fornitore di beni e servizi collettivi
“minoritari”, Weisbrod si spinge coerentemente a ritenere che l‟ampiezza relativa
del settore non lucrativo sarà funzione del grado di insoddisfazione dei consumatori
17
e quindi del grado di eterogeneità delle preferenze degli stessi, dal lato della
28
domanda.
- La teoria delle asimmetrie informative e il divieto di distribuzione degli utili di
Henry Hansmann: gli enti non profit, caratterizzati dal vincolo di non distribuzione
dei “guadagni netti” agli individui che esercitano il controllo su di essa, da un lato
soggiacciono al divieto di distribuzione degli utili e dall‟altro dal diritto di avvalersi
di apporto di capitale e di prestazioni volontarie gratuite. Su questi due aspetti si
articola la teoria di Hansmann volta a dimostrare il vantaggio comparato del non
29
profit rispetto al for profit.
Il ragionamento di Hansmann parte dalla constatazione dell‟esistenza di asimmetria
informativa tra i donatori e i gestori dei beni o servizi. In altre parole “i consumatori
potrebbero desiderare di contribuire con donazioni o lavoro volontario alla
produzione del bene pubblico, ma potrebbero temere che l‟organizzazione
produttiva cui essi conferiscono i loro apporti li utilizzi, non per produrre quantità
30
addizionali del bene, bensì per lucrare profitti addizionali”.
Questa eventualità, sostiene Hansmann è esclusa perché il divieto giuridico di
distribuzione degli utili costituirebbe un deterrente sufficiente per rassicurare i
31
donatori sull‟efficienza della transazione.
Come hanno evidenziato Musella e D‟Acunto, Hansmann suggerisce che l‟impresa
non profit rappresenterebbe una risposta ragionevole ad un particolare tipo di
fallimento di mercato, ovvero all‟impossibilità di controllare i produttori attraverso
gli ordinari meccanismi di mercato: è la tesi del “fallimento del contratto” (contract
32
failure).
Può essere interessante guardare alla posizione teorica di Hansmann tenendo
esplicitamente conto del già illustrato approccio di Weisbrod e richiamando il
pensiero del primo al riguardo: Hansmann concorda sul fatto che le imprese non
28
B. WEISBROD, 1986, pp.83-84.
29
H. HANSMANN, 1987, pp.27-47.
30
M. MUSELLA, S. D‟ACUNTO, 2000, p.14.
31
H. HANSMANN, 1987, pp. 28 e segg.
32
M. MUSELLA, S. D‟ACUNTO, 2000, p. 16.
18
profit giochino un ruolo significativo nella produzione di beni pubblici, ma ritiene
che Weisbrod ne sovrastimi l‟importanza. Egli è viceversa propenso ad interpretare
i beni pubblici come un caso particolare della sua più generale teoria del fallimento
del contratto. In effetti, in linea con la riflessione di Pier Luigi Sacco, la teoria di
Hansmann appare possedere una portata più generale rispetto a quella di Weisbrod,
il quale, secondo l‟esposizione precedente, sembra applicarsi tutt‟al più ad un
segmento specifico del settore non profit, ovvero alla fornitura di beni strettamente
33
pubblici.
Tuttavia, neppure l‟approccio hansmanniano è esente da critiche: molti studiosi
hanno messo in dubbio che il divieto di distribuzione degli utili sia sufficiente a
impedire comportamenti opportunistici da parte degli amministratori i quali
potrebbero aggirare il divieto “pagando salari inflazionati o contratti di fornitura
34
opportunamente gonfiati”.
Il reale limite del modello dell‟elettore mediano di Weisbrod, quanto della teoria del
“fallimento del contratto” appena illustrata, evidenzia Sacco, è l‟approccio di tipo
residualistico al tema affrontato: l‟esistenza del settore non profit viene spiegata
solo a partire dal riconoscimento di un “fallimento” da parte di uno dei due soggetti
economici implicitamente ritenuti gli attori primari, lo Stato (nella teoria
35
weisbrodiana) o il mercato (nella proposta esplicativa di Hansmann). In altri
termini, all‟interno di cornici interpretative di questo tipo il settore non profit viene
a tutti gli effetti concepito come un soggetto „terzo‟ rispetto a Stato e mercato,
rischiando così di essere configurato come una sorta di „anomalia istituzionale‟.
Al di là delle critiche richiamate, secondo Salamon le teorie del fallimento dello
Stato e del fallimento del mercato non rendono piena giustizia al ruolo del settore
non profit in quanto, basandosi sulla supplenza di questo allo Stato negherebbero
33
Come è noto, le organizzazioni non profit sono potenzialmente in grado di impegnarsi anche sul
versante della produzione di beni privati e quindi di agire con successo anche all’interno del
mercato, finanziando ( quanto meno in una certa misura) le proprie attività collegate alla mission
organizzativa mediante la vendita diretta di beni o servizi agli utenti; cfr. P. L. SACCO, L. ZARRI,
2006, p. 5 e segg.
34
M. MUSELLA, S. D‟ACUNTO, 2000, p. 20.
35
Ivi, pp. 12 e segg.
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