2
ricca legislazione sui diritti civili degli anni ‘60, dedicata alla tutela della
razza nera, vittima storica della schiavitù. Il diritto del lavoro divenne, in
tale contesto, lo specchio della società in cui si vive e di quella in cui si
vorrebbe vivere. Un’America spaccata in due, bianca e nera, multietnica
ma diseguale e disgregante, intervenne alla ricerca di quell’unità in grado
di evitare la completa rottura. La legislazione degli anni ’60, non portava,
però, in sé la legittimazione delle affermative actions positive. Fu la Corte
suprema che permise l’affermazione e lo sviluppo di tale strumento
d’azione.
Il Civil Rights Act escludeva la predisposizione di trattamenti di favore
basati sulla razza e propendeva per i privilegi del singolo. Allo stesso
tempo, però, si basava sull’eguaglianza formale e vietava discriminazioni
motivate da origini razziali. Le discriminazioni intenzionali e attuali
aprirono le porte alle affermative actions di natura compensatorio-
risarcitorio.
Nel 1965 fu emanato il Decreto Presidenziale n. 11-246. Tale decreto
prevedeva che la politica del Governo dovesse garantire l’eguaglianza
sulla base del merito; e, allo stesso tempo, affidava alle imprese contraenti
con lo Stato federale il compito di intraprendere affermative actions.
Queste dovevano garantire che i soggetti interessati fossero assunti e che i
dipendenti venissero retribuiti senza riguardo alla loro razza, colore della
pelle o origine nazionale. L’atteggiamento della Corte fu di non
pronunciarsi in ordine alle prime questioni poste sul tema delle
3
discriminazioni positive, basate su tali fonti; così facendo favorì il
consolidamento di queste prassi politiche.
4
Nei primi anni ’70, le affermative actions positive non si erano, ancora,
pienamente affermate. I neri erano socialmente ed economicamente deboli,
sottorappresentati in ogni settore della vita umana. Dottrina,
giurisprudenza, società si resero conto che una politica antidiscriminatoria
solo negativa non riusciva a rendere paritaria una società multietnica. Si
profilò la necessità di mettere in pratica politiche più forti, indirizzate alla
promozione, oltre che alla semplice riparazione.
Nel caso Green,
5
del 1968, la Corte Suprema riconobbe l’esistenza di
affermative duties, in capo ai poteri pubblici, al fine di agevolare
l’integrazione scolastica, superando così la mera affermazione di principio
della eguale libertà di tutti gli studenti nella scelta della scuola da
frequentare. Ulteriore passo in avanti venne fatto con il caso Griggs
6
e la
costruzione del concetto di discriminazione indiretta: l’elemento
caratterizzante di tale nozione non fu più l’intenzionalità del
comportamento, ma il risultato oggettivamente discriminatorio della
condotta assunta; ciò che rilevava era che sul piano fattuale si fossero
prodotti effetti sproporzionati (disparate impact) rispetto alla consistenza
dei gruppi razziali. Tale pronuncia alimentò un forte contenzioso che portò
4
A. D’Aloia, op. ult. cit., p. 143.
5 Corte Suprema degli Stati Uniti, Green v Kent County School Board, 391 U.S. 430, 1968.
6 Corte Suprema degli Stati Uniti, Griggs v Duke Power Co., 401 U.S. 424, 1971.
4
imprese private e datori di lavoro a predisporre piani preventivi di
affermative actions per evitare possibili iniziative anti discriminatorie.
Tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli anni ’80 i prefential treatments
raggiunsero un alto grado di diffusione per la varietà delle tecniche
utilizzate e dei soggetti coinvolti; la composizione di questi ultimi mutò sia
dal punto di vista dei beneficiari (Neri, Ispanici, Amerindi, Asiatici) che
dal punto di vista degli attori. Nella tutela delle discriminazioni furono
coinvolti anche il Legislatore federale
7
e quello statale.
Un successivo passo in avanti nell’affermazione delle affermative actions -
quale strumento privilegiato nella lotta alle discriminazioni - fu fatto grazie
alla lettura evolutiva dell’Equal protection clause, contenuta nel XIV
emendamento. Nelle opinioni dei giudici della Corte, l’Equal clause finì,
però, per essere bandiera di entrambi gli schieramenti favorevoli e contrari
alle misure preferenziali basate sulla razza.
8
Ne sono un esempio la
sentenza Wygant,
9
in cui l’Equal clause compare nell’opinione
dissenziente a favore delle affermative actions; e la sentenza Croson
10
in
cui, invece, compare nella maggioranza contraria a quest’ultime. In tali
7
Si pensi al Plubic Works Employment Act del 1977 che è la prima legge federale contenente
misure preferenziali racial oriented.
8
R. Dworkin, “con quella clausola i costituenti aveva non inteso combattere le conseguenze
della schiavitù e dei pregiudizi razziali , ma è inverosimile che intendessero proscrivere tutte
le classificazioni razziali o che si aspettassero una tale proibizione come risultato di ciò che
essi avevano scritto. Essi misero al bando qualunque politica violasse l’eguaglianza, ma
lasciarono ad altri il compito di decidere di volta in volta quel che significhi”, I diritti presi sul
serio, trad. it., Bologna.
9 Corte Suprema degli Stati Uniti, Wygant v. Jackson Board of Education, 476 U.S. 267,
1986.
10
Corte Suprema degli Stati Uniti, City of Richmond v J.A. Croson, 488 U.S. 469, 1989.
5
casi ciò che rilevò non furono le sentenze, ma le opinioni dei giudici, che
non resero mai netti gli indirizzi.
Ulteriori sentenze che caratterizzarono il percorso evolutivo delle
affermative actions furono il caso Reggent
11
e il caso Johnson.
12
Nel caso
Regent of the university of California v. Bakke del 1978, la Corte, pur
invalidando un programma di affermative actions, non ne escluse
completamente la legittimità. Ciò risultò particolarmente evidente nelle
teorizzazioni del giudice Powell (giudice di maggioranza). Powell, pur
sostenendo il carattere individuale del XIV emendamento e l’ingiustizia di
una misura positiva risarcitoria, che faccia ricadere i propri effetti su
individui che non hanno provocato la discriminazione precedente (le
cosiddette vittime innocenti), lasciò aperta la porta alle azioni non rigide;
anche se nel caso concreto lo fece teorizzando la necessità di una diversità
culturale in ambito universitario.
Nel caso Johnson v. Transportation Agency Santa Clara County del 1987,
la Corte legittimò piani di affermative actions flessibili e temporanei, in
cui non erano presenti quote predeterminate e non era completamente
esclusa la competizione tra tutti i candidati. In tale caso si denotò la
tendenza della Corte ad una “preferenza si, ma non a qualunque costo”.
Punto importante del giudizio della Corte fu, inoltre, l’allargamento del
piano soggettivo di applicazione delle misure preferenziali; piano, questo
11
Corte Suprema degli Stati Uniti, Regent of the university of California v. Bakke, 438 U.S.
265, 1978.
12
Corte Suprema degli Stati Uniti, Johnson v. Transportation Agency Santa Clara County, 480
U.S. 616, 1987.
6
che comprendeva anche le donne e i portatori di handicap. Tale pronuncia
evidenziò l’orientamento della Corte ad una valutazione meno rigida dei
trattamenti preferenziali non destinati al fattore discriminante razza.
Con la sentenza City of Richmond v J.A. Croson del 1989, la Corte tornò
sui propri passi, annullando un piano di azione della città di Richmond in
cui almeno il 30% degli appalti pubblici doveva essere attribuito ad
imprese che fossero prevalentemente costituite da appartenenti alle
minoranze etniche e razziali. Tornò in auge la teoria delle cosiddette
vittime innocenti e venne ribadito il carattere strettamente risarcitorio delle
affermative actions, rispetto al quale la tutela individuale viene preferita a
quella di gruppo. Poteva ancora esserci uno spiraglio per le affermative
actions di tipo federale. Spiraglio che sembra essersi chiuso con il caso
Adarand
13
del 1995: ora, anche se non è del tutto esclusa la legittimità
delle affermative actions statali e federali, se ne rende sempre più difficile
la sopravvivenza. La Corte ha introdotto un nuovo parametro di
valutazione della legittimità dei preferential treatments: lo strict scrutiny.
Secondo tale parametro, per essere adottate, le misure positive devono
corrispondere ad un interesse primario e stringente dello Stato ed essere
commisurate alle finalità perseguite. Requisiti, questi che vanno
necessariamente supportati da prove incontrovertibili. Prevale la teoria,
sostenuta dal giudice Scalia, di una interpretazione costituzionale color-
blind (superando l’affermazione di una interpretazione color-conscious).
13
Corte Suprema degli Stati Uniti, Adarand Constructors v. Pena, 515 U.S. 200, 1995.
7
Le ultime due sentenze della Corte, emesse entrambe il 23 giugno 2003,
sono rimaste ancorate ad una visione sfavorevole nei confronti delle
affermative actions. Entrambi i casi Grutterv Bollinger
14
et al. e Gratz v.
Bollinger
15
et al. hanno avuto ad oggetto piani di favoreggiamento per
minoranze etniche nei sistemi di valutazione all’ammissione all’università
del Michgan; in entrambi i casi, la Corte ha respinto tali sistemi “rigidi” di
azione. Nelle suddette decisioni appare evidente “l’impossibilità di
conciliare la rigida concezione individualistica e formalistica
dell’uguaglianza”, tipica del sistema americano, “con misure di vantaggio
basate sulla considerazione di fattori che rimandano ad una identità o
appartenenza di gruppo”.
16
2 Le Direttive Comunitarie e gli interventi della Corte di Giustizia
in materia di parità
Nell’affermazione e nell’evoluzione delle azioni positive europee un ruolo
essenziale è stato svolto dalla Corte di Giustizia. Come sostengo alcuni
autori,
17
questa, nella trasformazione del concetto di discriminazione e
nella predisposizione dei relativi mezzi di tutela (tra cui le azioni positive),
ha svolto un vero e proprio ruolo anticipatore rispetto al lavoro delle
14
Corte Suprema degli Stati Uniti, Grutter v Bollinger et al., 539 U.S. 306, 2003.
15
Corte Suprema degli Stati Uniti, Gratz v. Bollinger et al., 539 U.S. 244, 2003.
16
M. V. Ballestrero, Eguaglianza e differenze nel diritto del lavoro. Note introduttive, in LD,
2004, p. 505.
17
E. Stein, “senza gli strappi della Corte il diritto comunitario sarebbe rimasto un astratto
scheletro”, Un nuovo diritto per l’Europa. Uno sguardo oceano, Milano, Giuffrè, p. 21.
8
Istituzioni. Laura Calafà sostiene che “Le azioni positive risultano essere
il risultato di un passaggio reciproco di elementi tra due entità che si
condizionano vicendevolmente, cioè tra la Corte di Giustizia e le
istituzioni politiche comunitarie”.
18
Il punto di partenza della lotta alle discriminazioni è stato l’art. 119 del
Trattato istitutivo della Comunità Europea, firmato a Roma nel 1957. Il
primo comma di tale articolo disponeva: “Ciascuno Stato membro
assicura, durante la prima tappa, e in seguito mantiene l’applicazione del
principio di parità delle retribuzioni fra i lavoratori di sesso maschile e
quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro”. Quanto disposto in tale
articolo presenta due aspetti particolari. Il primo è che, in tale articolo,
l’unico fattore discriminante preso in considerazione era il genere; l’altro è
che, nello stesso articolo, si enumeravano gli elementi che potevano
provocare una discriminazione nel rapporto di lavoro, ma si faceva
menzione della sola retribuzione.
Il contesto in cui fu emanato l’articolo 119 è quello di una Comunità
Economica Europea, nata con il principale fine di creare una
collaborazione economica tra gli Stati membri; collaborazione che si
poneva il fine di evitare la concorrenza tra gli Stati firmatari dell’accordo.
La Comunità Economica Europea, alle origini, si occupò poco delle
questioni sociali e le scarne disposizioni formulate in materia di diritti
18
L. Cafalà, Azioni positive nel diritto comunitario, in [ M.G.Garofalo ( a cura di), Lavoro delle
donne e azioni positive. L’esperienza giuridica italiana, Bari, Cacucci, 2002], p. 321.
9
sociali avevano lo scopo di realizzare fini prettamente economici. In
particolare l’art. 119 fu emanato per evitare i cosiddetti fenomeni di
dumping sociale. All’epoca dell’emanazione del Trattato vi erano Paesi,
appartenenti alla Comunità, che avevano previsto il divieto di discriminare
uomini e donne in base alla retribuzione. Se la Comunità avesse ignorato
tali previsioni si sarebbe potuta verificare una differenziazione dei costi di
lavoro tra i vari Paesi membri; e una differenziazione dei costi di lavoro
comporta una differenziazione dei prezzi di vendita dei prodotti. Tali
considerazioni furono avanzate, anche, dall’avvocato generale Dutheillet
De Lamothe, nelle sue conclusioni nella prima sentenza Defrenne, del 25
maggio 1971. La sentenza Defrenne fu la prima a comparire sotto la
rubrica “politica sociale” nella Raccolta ufficiale delle sentenze della
Corte.
19
L’evento normativo “immediatamente successivo” all’art. 119 del Trattato
fu la direttiva 75/117. Tale direttiva venne emanata al fine di riavvicinare
le legislazioni degli Stati membri, relative all’applicazione del principio di
parità delle retribuzioni tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di
sesso femminile. Con tale intervento la Commissione introdusse due
novità rispetto a quanto previsto all’art. 119. La prima fu che la parità di
retribuzioni si riferiva ora, non solo alle retribuzioni per uno stesso lavoro,
ma, anche a quelle corrisposte per un lavoro di eguale valore. L’altra
novità sancì il divieto di discriminare uomini e donne in un sistema di
19
L Calafà, op. ult. cit, p. 323.
10
classificazione professionale, predisposto per determinare le retribuzioni.
Con la direttiva 207/76 venne ampliato il campo oggettivo delle
discriminazioni di genere: alla retribuzione si aggiunsero altri fattori come
la formazione e la promozione professionale, l’occupazione e le condizioni
di lavoro.
Con la sentenza Stoeckel
20
la Corte fornì, invece, un’interpretazione di
quanto disposto all’art. 5 della Direttiva del Consiglio, 9 febbraio 1976, n.
76/207, relativa all’attuazione del principio di parità di trattamento fra gli
uomini e le donne per quanto riguarda le condizioni di lavoro e l’accesso al
lavoro, alla formazione e alla promozione professionale. La Corte sostenne
che tale articolo era sufficientemente preciso per far sorgere a carico degli
Stati membri l’obbligo di non vietare per legge il lavoro notturno delle
donne, anche se tale obbligo comporti deroghe, quando non esiste alcun
divieto di lavoro notturno per gli uomini”. Numerosi Paesi membri, tra cui
l’Italia, si erano dotati di leggi che prevedevano un generalizzato divieto di
lavoro notturno per le donne. Quanto disposto dalla Corte di Giustizia
travolse la legittimità di tali leggi (in Italia, il generale divieto di lavoro
notturno per le donne fu eliminato con il decreto legislativo n. 532 del
1999, con il quale si diede attuazione all’art. 17 della legge n. 25 del 1999
emanata in adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza
dell’Italia alla Comunità Europea). La sentenza Stochel rappresentò,
inoltre, l’occasione per ribadire il principio, ormai accettato anche dalla
20
Corte di Giustizia, P.M. c. Stochel, causa n. 345/89, 25 luglio 1991, in MGDL, 1992, p.359.
11
nostra Corte Costituzionale, della prevalenza della Normativa comunitaria
su quella nazionale.
21
Come la Corte aveva sancito nella sentenza Becker
del 1982, una direttiva chiara, precisa e incondizionata è immediatamente e
direttamente applicabile negli Stati membri.
Nell’art. 6 dell’allegato sociale al Trattato sull’Unione Europea,
22
siglato a
Maastricht nel 1992, venne recepito quanto stabilito nella
raccomandazione 84/635 del 13 dicembre 1984. La Raccomandazione
legittimava i singoli Stati membri alla adozione di misure specifiche a
favore delle donne nella lotta alle discriminazioni.
Con la sentenza Kalanke
23
la Corte si pronunciò in materia di azioni
positive e più in particolare sulle quote, quale species delle azioni positive.
Il caso fu sollevato dalla prima sezione del Bundesarbeitsgericht tedesco,
che contestava la legittimità dell’art. 4 della Landesgleichstellungsgesetz
(legge della città di Brema relativa alla parità fra gli uomini e le donne nel
pubblico impiego). Venne sollevata questione pregiudiziale davanti alla
Corte di giustizia sulla interpretazione da dare all’art. 2, n. 4 della direttiva
76/207. La Corte giunse alla conclusione che “il paragrafo 4 dell’articolo 2
della direttiva del consiglio del 9 febbraio 1976, n. 207, secondo cui gli
Stati membri possono adottare (o mantenere in vigore) misure volte a
21
Per un confronto vedi C.E.Lucifredi. Parità e divieto di lavoro notturno: l’intervento della
giurisprudenza comunitari, Nota a commento procedimento 345/89, in MGDL, 1992 p. 359.
22
Art. 6, terzo comma “Il presente articolo non osta a che uno stato membro mantenga o
adotti misure che prevedano vantaggi specifici intesi a facilitare l’esercizio di una attività
professionale da parte delle donne ovvero ad evitare o compensare svantaggi nella loro
carriera professionale”.
23
Corte di Giustizia, Kalanke c. Frei Hansestad Bremen, causa n. 450/93, 17 ottobre 1995,
in DL, 1995, p. 421.
12
promuovere pari opportunità alle donne nell’accesso al lavoro e nelle
promozioni, deve essere interpretato nel senso che esso è di ostacolo ad
una normativa nazionale la quale attribuisca automaticamente, a parità di
qualificazioni tra candidati di sesso differente tutti egualmente idonei a
ricevere una data promozione, una preferenza al candidato di sesso
femminile nei settori nei quali le donne siano rappresentate in modo
insufficiente, intendendosi per rappresentanza insufficiente la situazione
nella quale le donne occupino meno della metà dei posti in organico nelle
diverse categorie professionali”. Con quanto disposto, la Corte rifiutò le
azioni positive rigide.
Della sentenza Kalanke, si sono avute due opposte letture. Da una parte
una lettura “minimalista” o letterale, basata sul solo dispositivo della
sentenza, che vedeva nella pronuncia della Corte il rifiuto delle quote come
principio generale. Dall’altra una lettura massimalista, basata sull’analisi in
combinato disposto del dispositivo della sentenza con il punto 23 della
motivazione, che vedeva tale pronuncia come semplice risposta alla
risoluzione di un caso concreto estremo. Forse, come sostenne Roccella, la
Corte “pronunciando una sentenza contraddittoria, ha voluto lasciarsi le
mani libere per un ripensamento a fronte di nuove eventuali questioni di
rinvio pregiudiziale”.
24
24
M. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 1997, p. 167.