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Introduzione
Lo scopo di questo elaborato è quello di far conoscere una malattia genetica
estremamente rara e di difficile comprensione, non solo a causa di una non esaustiva
ricerca, ma anche per alcuni comportamenti di questi pazienti che ne rendono difficile
sia la diagnosi che il trattamento.
Tema ricorrente nei vari capitoli sarà il cosiddetto “Comportamento Lesch-Nyhan” che
ha portato, nel tempo, ad un forte errore concettuale: quello che viene normalmente
definito come “autolesionismo”, nella Sindrome di Lesch-Nyhan assume un valore
totalmente diverso fino a far apparire tale definizione inadeguata e poco rappresentativa
della sindrome stessa.
Per arrivare a dimostrare ciò, si procederà illustrando, nei vari capitoli, cosa si intende
per autolesionismo e come questo sia stato storicamente classificato allo scopo di
evidenziare la sostanziale differenza tra questo e il “comportamento Lesch-Nyhan”.
Successivamente verrà presentata la sindrome.
L’obiettivo di questo elaborato è quello di fornire un’esaustiva descrizione di tale
malattia affrontandola, però, da più punti di vista.
Per fare ciò ho ritenuto opportuno presentare un caso clinico, la storia di Michele,
ragazzo di 22 anni affetto da LND.
Attraverso la ricostruzione della storia di Michele, mi è stato possibile esplorare tutte
quelle problematiche che, in una classificazione diagnostica, tendono ad essere relegate
ai margini.
E’ stato dunque naturale spostare il focus sullo stile di vita di questi pazienti, sulla loro
consapevolezza di malattia, sulle loro problematiche relazionali e comunicative e sul
loro modo di affrontare la quotidianità ed i problemi ad essa legati; questo perché,
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citando Franco Basaglia: “Per poter veramente affrontare la "malattia", dovremmo
poterla incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori
dall'istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione la cui funzione è quella di
etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono.”
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1 Basaglia. F, L'utopia della realtà, Einaudi, 2005.
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Capitolo 1: L’Autolesionismo.
“Appena mi tocco, mi manco. Perché sotto il mio stesso tatto suppongo la realtà che gli altri mi danno e
ch’io non so né potrò mai sapere.”
1
Luigi Pirandello.
La letteratura scientifica relativa all’autolesionismo è, obiettivamente, poca.
L’interesse verso tale fenomeno è di natura recente, soprattutto in considerazione del
fatto che quest’ultimo secolo sembra essere permeato da tali comportamenti: il
comportamento autolesionistico è una forma estrema di comportamento problematico,
ma purtroppo anche la sua incidenza è alta.
Appare, dunque, importante comprendere cosa si intenda per autolesionismo e come
questo sia stato storicamente classificato.
Forme di automutilazione e di autolesionismo sono note fin dall’antichità: “ferite
simboliche” in uso tra le popolazioni primitive, la cauterizzazione del seno delle
Amazzoni, amputazioni descritte nella Bibbia, pratiche di mortificazione delle carni nel
Medioevo, freak shows e carnival shows di fine Ottocento, ma anche la Body Art delle
avanguardie degli anni ’70 e le cicatrici artistiche dei Modern Primitives.
L'Autolesionismo è stato incluso nel DSM-IV TR (2000) tra i disturbi del controllo
degli impulsi non altrimenti specificato ed è definito come “Sindrome da autoferimento
intenzionale”.
Il termine autolesionismo, inoltre, rimanda ad un fenomeno descrivibile come il
contrario della cura del Sé; nonostante l’apparente semplicità della definizione, non è
così facile distinguere in maniera netta i due termini, o meglio, risulta complicato
tracciare una linea di confine tra la cura del proprio corpo e l’attacco a quest’ultimo.
1 Pirandello L., Uno Nessuno e Centomila, 1926.
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Una mancanza di cura, come ad esempio il disinteresse nei confronti della propria
salute, può essere, certamente, dannosa ma, analizzando attentamente la questione anche
una cura eccessiva, la cosiddetta “Ipercura”, può esserlo.
Il quadro va a complicarsi se si pensa che alcune forme di lesioni corporali, come gli
interventi chirurgici, possono, in taluni casi, rivelarsi necessarie.
Un fattore determinante nella distinzione tra il comportamento autolesionistico e la cura
del Sé è il significato che il gesto assume nel contesto sociale o nella cultura particolare
alla quale l’individuo in questione appartiene.
Ad esempio, l’atto di iniettarsi un prodotto chimico può essere considerato un gesto
autolesionistico, o, al contrario, un gesto attribuibile alla cura del proprio corpo a
seconda che il soggetto sia un paziente diabetico o un tossicodipendente.
Inoltre, secondo Favazza
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, l’autolesionismo culturalmente approvato, si compone di
rituali e pratiche: i rituali culturali sono attività portate avanti per generazioni, che
riflettono tradizioni e credenze della particolare società che li perpetua.
Risulta opportuno operare un’ulteriore distinzione, introducendo il concetto di Auto-
sofferenza (self-harm); quest’ultima ha un significato molto più amplio del termine
autolesionismo.
Con Auto-sofferenza ci riferiamo a tutte le forme di comportamento dannose per la
propria salute e il proprio benessere, comprendendo sia quegli atti che provocano danni
diretti al proprio corpo (il caso dell’autolesionismo), sia quelli che procurano
“indirettamente” danni e sofferenze alla propria salute (ad esempio, l’assunzione di
droghe ed alcool o l’anoressia).
A questo punto appare chiaro come l’autolesionismo (self-injury) sia una forma
particolare di auto-sofferenza definibile come l’atto, socialmente inaccettabile, di
2 Favazza A.R., Bodies Under Siege: Self-mutilation and body, Johns Hopkins Univ Press, Baltimore,
1996.
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procurarsi volontariamente e in modo diretto un danno fisico, senza, però, avere
intenzione di uccidersi.
In questa definizione vi sono tre elementi di particolare importanza:
1. Con autolesionismo si fa riferimento ad un comportamento socialmente
inaccettabile, cioè che non viene ammesso all’interno di una determinata società
o cultura.
2. In più, si tratta di una lesione fisica procurata volontariamente ed in modo
diretto. Ciò significa che l’azione ha il preciso scopo di causare una lesione
fisica. Essa può attuarsi procurandosi dei tagli o bruciandosi con delle sigarette.
Perché si possa parlare di condotta autolesiva, le azioni distruttive devono avere
carattere deliberato e consapevole, indipendentemente dagli esiti della lesione.
L’autolesionismo, cioè, dovrebbe essere analizzato sulla base dei motivi, e non
tanto dei risultati del gesto.
3. Infine, il comportamento autolesivo non ha come scopo il suicidio.
L’autolesionismo deve essere distinto dal tentativo di suicidio (comportamento
suicida), anche se spesso è difficile porre un netto confine tra questi due modi di
agire. La ferita autoinflitta è funzionale al mantenimento, attraverso l’intensa
stimolazione fisica, di un contatto con la vita, che viene dunque rievocata e
ricercata dall’autolesionista. Come meglio specificato da Levenkron nel 1998,
l’autolesionista si serve del dolore fisico per gestire la sofferenza emotiva, ma
non intende distruggere l’integrità del corpo.
Possiamo qui introdurre anche un quarto elemento estremamente importante
sottolineato da McLane
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nel 1996: la violenza dell’autolesionista non è mai eterodiretta.
Per questo genere di atti si sceglie quindi il termine autolesionismo invece di
Automutilazione, che comporta un’invasività maggiore.
3 McLane J., The voice on the skin: self-mutilation and Meralu-Ponty's theory of language, Hypatia
11(4): 107-121, 1996.
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Molti ricercatori hanno provato a classificare i vari tipi di comportamento
autolesionistico in base:
All’azione che porta al ferimento (tagliare, grattare, mordere, bruciare) ;
Alla parte del corpo coinvolta (la testa, il tronco, gli avambracci ecc.);
Alla frequenza e/o durata degli atti autolesivi;
Alla gravità delle ferite (numero e tipo di lesioni, tipo di cura richiesto).
Oltre a questi criteri descrittivi, riveste un ruolo importante anche la situazione psichica
della persona coinvolta.
Per quanto riguarda i campioni clinici, i dati provenienti dalla letteratura rilevano una
diffusione che arriva fino al 33% tra i giovani adulti affetti da disturbi alimentari.
Le percentuali variano sensibilmente nelle ricerche condotte con gli adolescenti: in uno
studio realizzato con ragazzi affetti da disturbi di personalità (borderline, disturbo
narcisistico, disturbo istrionico), il 70% di loro ha affermato di aver messo in atto più di
un comportamento di autoriferimento nella propria vita; il metodo più utilizzato (60%)
sarebbe stato il “tagliarsi intenzionalmente”.
Ugualmente preoccupanti sono i dati provenienti dai campioni non clinici.
I risultati di alcune ricerche italiane mostrano, infatti, un’elevata incidenza del
comportamento di autoriferimento tanto tra i giovani adulti quanto tra gli adolescenti.
Ricerche condotte con campioni di studenti universitari hanno messo in evidenza
percentuali del comportamento autolesivo tra il 20 e il 44%. Infine, ricerche condotte tra
studenti delle scuole superiori hanno evidenziato percentuali simili a quelle dei giovani
adulti: infatti, il 23% del campione totale ha affermato di aver messo in atto almeno una
volta nella vita un comportamento di autoriferimento.
Cercare di comprendere quali siano i motivi che spingono una persona a farsi
volontariamente del male risulta essere un lavoro estremamente difficile.
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E’ nella natura dell’uomo evitare di farsi del male e cercare di preservare quanto più
possibile la propria salute.
In questi casi, una delle tentazioni più forti è quella di ricercarne le cause negli istanti
che precedono l’atto, sperando che sia proprio in quegli istanti che si annidi la causa
scatenate di tale comportamento.
Quando l’atto autolesivo diventa abituale, possiamo cercare di riconoscere determinate
situazioni che aumentano le possibilità che il gesto si ripeta (fattori di rischio) e altre
che con più certezza li provocano (fattori scatenanti o “triggers”).
Una spiegazione più attendibile di tali comportamenti può essere rintracciata nelle
conseguenza di questi gesti, chiedendoci, quindi, quale scopo si voleva raggiungere.
La ripetitività di un gesto autoriferito è, ovviamente, correlata ad un sistema di
soddisfazioni: più una determinata azione ha un effetto positivo per il soggetto, più
esiste la possibilità che il gesto si ripeta.
Verranno ora schematicamente presentate le funzioni dell’autolesionismo più
conosciute, analizzate a seconda dell’effetto che provocano, da molto positivo a molto
negativo. Ritorneremo successivamente a parlare di queste funzioni contestualizzandole
all’interno del cosiddetto comportamento autolesivo nei pazienti affetti dalla Sindrome
di Lesch-Nyhan.
1. Distensione: l’immediato senso di distensione è uno degli effetti positivi più
frequenti di un atto autolesivo; vi è infatti un immediato senso di assunzione di
controllo e di sollievo emotivo. Questo effetto, tuttavia, è molto breve: il
soggetto, ben presto, tornerà allo stato d’animo precedente.
2. Affermazione: il fatto che una persona si provochi delle lesioni in presenza di
altri o decida di mostrare in pubblico le sue ferite ha, generalmente, un
significato speciale: alcuni vogliono impressionare o provocare, altri si aspettano
cura ed attenzione. In questi casi il gesto di autoriferimento è compiuto con il
solo scopo di richiamare l’attenzione su di sé.
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3. Stimolazione: alcune forme di autolesionismo vengono compiute non con lo
scopo di raggiungere un atto distensivo bensì, al contrario, per cercare
eccitazione. L’autolesione può essere anche un modo per ritrovare la
consapevolezza del proprio corpo e della propria identità.
4. Punizione: ferirsi può essere anche una forma di punizione, la conseguenza di
un senso di colpa. E’ un atteggiamento frequente soprattutto nelle persone che
hanno subito violenze psicologiche, fisiche, sessuali.
5. Annientamento: questo è l’effetto con le conseguenze più drastiche tra quelli
che abbiamo osservato. Questa funzione è associata ad un’immagine molto
negativa di sé, ad un forte senso di inferiorità ed ad uno stato di disperazione. Lo
scopo principale è quello di deturparsi attraverso l’autoriferimento.
Un contributo pioneristico alla comprensione di tale fenomeno è venuto, nel 1935, da
Menninger
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che individuò alcune macro-categorie dei comportamenti di
autoriferimento:
1. Autolesionismo nevrotico (compulsioni come onicofagia, graffiarsi la pelle,
tricotillomania, ricercare interventi chirurgici non necessari) ;
2. Autolesionismo religioso (flagellazione ascetica e menomazione dei genitali) ;
3. Cerimonie puberali (rimozione dell’imene, infibulazione) ;
4. Automutilazione in pazienti psicotici ;
5. Automutilazione in disturbi organici (fratture volontarie delle dite o di altre parti
del corpo in soggetti affetti da encefaliti) ;
6. Automutilazione in soggetti normali.
4 Menninger K.A., A psycho-analityc study of the significance of self-mutilations, Psychoanalityc
Quarterly , 4:408-466,1935.