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alle Regioni ad autonomia ordinaria sono disciplinati dalla Costituzione (o da apposite
leggi costituzionali per le Regioni ad autonomia speciale) e quindi non dipendono dalla
mera volontà dello Stato centrale.
Inoltre nell’art. 5 Cost. l’Assemblea, pur affermando che la Repubblica è una e
indivisibile, eleva a valori costituzionali l’autonomia locale e il decentramento
amministrativo, intesi come espressione di una situazione preesistente rispetto
all’ordinamento statale, situazione che riflette l’organizzazione spontanea della
popolazione residente su un territorio (Caretti e De Siervo, 2001).
Tuttavia la prevista costituzione delle Regioni è rimasta a lungo priva di qualsiasi
attuazione. Bisognerà attendere il 1970 perché siano superate le perplessità legate alla
nascita di tali nuovi enti e siano istituite le Regioni a statuto ordinario alle quali, però,
verrà delegato solo un ruolo piuttosto marginale, dovuto al timore di un indebolimento
dei poteri centrali. La situazione cambia, parzialmente nel 1978 con la riforma sanitaria,
quando alle Regioni viene conferita una funzione o meglio una cofunzione importante.
Un ulteriore limite all’autonomia regionale è posto dalla Riforma Tributaria del 1973-74
che ha introdotto un finanziamento delle Regioni e degli altri enti locali per la maggior
parte di tipo derivato, che dipendeva cioè da molteplici Fondi statali definiti
annualmente dalla Legge finanziaria per specifiche finalità. Si trattava di un modello
basato sull’idea che la centralizzazione del prelievo garantisse una più efficiente
gestione dei tributi e che per tanto dovesse essere assegnato un ruolo prevalente, tra le
forme di finanziamento dei livelli inferiori di governo, ai trasferimenti dal centro alla
periferia.
Nel corso degli anni ’80 e ’90, in seguito all’accentuarsi di rivendicazioni autonomiste e
di decentramento fiscale si è sviluppato un dibattito su tale questione, che ha visto
contrapporsi essenzialmente due ipotesi, da un lato l’ipotesi del federalismo fiscale e
politico, avanzata da Brosio nel 1996 e dall’altro l’ipotesi del federalismo inteso come
decentramento della responsabilità gestionale proposta da Giarda nello stesso anno
(Bernardi e Gandullia, 2004).
La prima ipotesi implicava una revisione costituzionale volta a garantire pari dignità ed
autonomia alle Regioni e allo Stato centrale attraverso l’assegnazione alle prime di tutte
le funzioni di “non necessaria pertinenza centrale” nelle quali avrebbero dovuto avere
piena autonomia anche legislativa e, ancora, attraverso l’istituzione di una camera delle
Regioni e di una rappresentanza regionale nella Corte Costituzionale. Inoltre tale ipotesi
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prospettava una modifica dei confini delle regioni finalizzata alla costruzione di unità di
maggiori dimensioni.
La seconda invece proponeva di attribuire alle Regioni risorse sufficienti per gestire in
“responsabile autonomia” le attività di propria pertinenza, procedendo, nello stesso
tempo, all’abrogazione dei trasferimenti statali. Tale proposta non implicava, quindi, né
una revisione costituzionale né una modifica dei confini regionali.
Nonostante la prima proposta fu subito preferita e accolta favorevolmente dal mondo
politico,
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ad influenzare le scelte del legislatore degli anni ’90 è stata, essenzialmente, la
seconda, quella volta al decentramento della responsabilità gestionale.
In questi anni, infatti, viene avviato un processo di decentramento fiscale e istituzionale
che ha permesso di aumentare il grado di autonomia tributaria e finanziaria di tutti gli
enti locali. Se si confrontano i dati relativi al 1990 con quelli relativi al 1999 emerge,
come è stato sottolineato da Bordignon, che l’incidenza delle entrate proprie sul
complesso delle entrate correnti è aumentata di 41,1 punti percentuali per le Regioni, di
41,9 per le Province e di 25,5 per i Comuni (Bordignon e Cerniglia, 2004).
Per quest’ultimi il primo passo in tale direzione si concretizza con la L. 142/1990, che
abrogando larga parte dei testi normativi del periodo liberale e fascista, riforma la
disciplina relativa agli enti locali e riconosce ai Comuni e alle Province autonomia
statutaria e finanziaria; rilevante è, a tal proposito, la previsione dell’ICI entrata in
vigore dal ‘93. Questa legge è stata successivamente più volte modificata e integrata
tanto da rendere necessaria l’adozione di un testo unico in materia (D.Lgs 267/2000).
Per le Regioni significativa è l’introduzione nel 1997 dell’Irap e dell’addizionale
regionale all’Irpef. Nel corso degli anni ’90, infatti, parallelamente ai lavori della
Commissione Parlamentare per la riforma costituzionale, il legislatore ordinario ha
emanato una serie di norme destinate a modificare i rapporti finanziari e istituzionali tra
i diversi livelli di governo. Si tratta, ad esempio, delle leggi 59/1997 e 127/1997 legate
al nome del Ministro Bassanini che ispirate dal principio di sussidiarietà prescrivono
l’attribuzione dei compiti e delle funzioni amministrative agli enti locali ed in
particolare “all’autorità territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini
interessati” in modo tale da ridurre le funzioni regionali alle funzioni normative, di
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Si tratta dalla “Commissione bicamerale” del 1997-98 (“Commissione parlamentare per le riforme
costituzionali”) che aveva l’obiettivo di riformare integralmente la Parte Seconda della Costituzione ma
che non portò, però, ad alcun risultato, a causa di divergenze tra i promotori dell’iniziativa.
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programmazione, di indirizzo e coordinamento. E’ una riforma che apporta rilevanti
innovazioni in tema di amministrazione regionale e locale e in particolare in tema di
decentramento amministrativo.
Ulteriori riforme si registrano alla fine degli anni novanta con la L.Cost.1/1999 che
introduce l’elezione diretta del Presidente della Giunta Regionale e l’Autonomia
Statutaria per le Regioni ordinarie e con la Legge delega per il federalismo fiscale
contenuta nell’art.10 della L.133/1999, alla quale è collegato il D.Lgs.56/2000 che
permette di compiere un passo in avanti sulla strada del decentramento fiscale.
Infine al termine della XIII legislatura è stata approvata una modifica complessiva del
Titolo V della Costituzione che disciplina i rapporti tra i diversi livelli di governo in
un’ottica non più propria degli Stati Regionali ma tipica di quelli Federali, si tratta della
L.Cost.3/2001, confermata dal referendum del 7 ottobre 2001 e in vigore dal 8
novembre 2001.
Lo Stato italiano nasce, dunque, come Stato “centralista” nel 1861 e dopo circa un
secolo cambia assetto istituzionale, prima sulla carta nel 1948 e poi nella realtà a partire
dagli anni’70, trasformandosi così in uno Stato Regionale. Ma il processo di evoluzione
continua nei primi anni del XXI secolo: la riforma costituzionale pone le basi per il
passaggio da uno Stato Regionale ad uno Federale e i lavori parlamentari in corso fanno
prevedere il compimento di una tale trasformazione nei prossimi anni.
A tal punto appare, però, necessario definire i termini fin qui impiegati e alla base della
discussione successiva. Partiamo dalla considerazione che è possibile distinguere
diverse forme di Stato in funzione dell’attenzione prestata all’autonomia territoriale
nell’ambito dell’organizzazione dello Stato. In base a tale criterio si può definire uno
Stato: Unitario, Regionale o Federale.
Lo Stato Unitario o “centralista” è uno stato accentrato nel quale il principio
autonomistico non trova alcuno spazio, le funzioni dei livelli inferiori di governo sono
stabilite dall’organo legislativo centrale. Agli enti decentrati viene affidato il minor
numero possibile di funzioni da esercitare sotto il controllo del governo centrale per
quanto concerne sia la quantità e la qualità dei servizi offerti che le forme di
finanziamento. Tale forma di Stato può essere articolata anche solo su due livelli di
governo: centrale e locale.
Nello Stato Regionale è, invece, la Costituzione che stabilisce il numero di funzioni
trasferite ai livelli inferiori di governo. È inoltre riconosciuta alle regioni una parziale
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autonomia fiscale anche se non è loro attribuita la potestà di istituire nuovi tributi,
mentre nello Stato Federale gli stati federati hanno piena potestà tributaria, si tratta di
Stati che si sono uniti per realizzare obiettivi comuni attribuendoli a un governo federale
centrale. In tale modello i rapporti tra i livelli inferiori di governo sono disciplinati dalla
Costituzione e possono essere modificati solo con il consenso di ogni Stato federato.
La differenza tra Stato Federale e Stato Regionale attiene soprattutto al processo storico
che ne ha determinato la nascita: il primo è il risultato di una fusione tra più Stati in
precedenza sovrani, mentre il secondo è l’esito di un processo di accentuata
autonomizzazione di aree territoriali di uno Stato unitario.
Tuttavia oggi, a prescindere dalle vicende storiche, si parla di Stato Federale se esiste
una regola in base alla quale i membri della federazione hanno una competenza
generale, dalla quale sono escluse alcune materie che vengono espressamente riservate
dalla Costituzione al governo centrale e al contrario di Stato Regionale se il governo
centrale ha una competenza generale tranne che in alcune materie riservate alle Regioni.
Altri criteri di distinzione sono forniti da organizzazioni internazionali come l’Ocse
(Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo) e il Fondo monetario internazionale.
Secondo l’Ocse gli Stati si dividono in Stati Unitari e Federali a seconda della presenza,
o meno, di un livello intermedio di governo dotato di un’autonoma potestà istituzionale.
Il criterio proposto dal Fmi è invece, meno discriminante in quanto considera
“decentrato” lo Stato in cui esiste un’entità intermedia che comprende uno o più livelli
inferiori di governo.
Passiamo, infine, alla definizione di Federalismo Fiscale. Si tratta di un’espressione
introdotta nell’ Ordinamento italiano dal legislatore ordinario nel 1999, tale espressione
è stata interpretata in modi differenti. Da un lato si ritiene che il legislatore abbia voluto
indicare con questa espressione il processo di introduzione di maggiori forme di
autonomia finanziaria e tributaria delle Regioni. Dall’altro privilegiando il senso tecnico
dell’espressione si tende a interpretarla come ordinata organizzazione dei rapporti
finanziari tra i diversi livelli di governo.