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dovranno imparare a fare i conti con gli altri. Le società automobilistiche hanno indetto
concorsi aperti al pubblico per disegnare nuovi modelli. Reuters pubblicherà blog a fianco
delle notizie di agenzia. Microsoft sta liberalizzando il suo software pur di non perdere la
battaglia con Linux. Sta per essere liberata un’esplosione di produttività ed innovazione:
milioni di menti che altrimenti sarebbero rimaste nell’oscurità si stanno gettando nel mare
dell’economia intellettuale globale.
Chi sono questi milioni di individui? Chi è che dopo ore di duro lavoro torna a casa e
decide di non guardare l’ultima puntata di Lost? E invece realizza un video con la sua
iguana da protagonista? O remixa l’ultima canzone di 50 cent con un brano dei Queens? O
blogga sul suo stato personale, o sullo stato della nazione, o sul piatto di patatine fritte del
bistro sotto casa? Chi ha tanta energia e passione? La risposta è una sola: tu. Certamente
non dobbiamo correre il rischio di idolatrare il web 2.0 più del necessario. Alcuni
commenti su YouTube fanno disperare per il futuro dell’umanità. Ma è anche questo che
rende tutto interessante. Il web 2.0 è un grande esperimento sociale di massa e, come tutti
gli esperimenti, può anche fallire. Non c’è manuale per sapere come un organismo, che
non sia un batterio, può vivere e lavorare insieme ad altri 6 milioni di individui all’interno
dello stesso ecosistema. Ma il 2006 ci ha dato qualche spunto. Abbiamo di fronte
un’opportunità di costruire un nuovo sistema di comprensione e collaborazione
internazionale, non basato sugli incontri di politici con altri politici, uomini famosi con
altri uomini famosi, ma da individuo a individuo, da cittadino a cittadino. E’ una grande
opportunità per tutti di sedersi davanti al proprio computer e interagire con tutti gli altri
per costruire qualcosa di nuovo e di migliore.
Si è aperta una nuova epoca delle comunicazioni. Con un piccolo trauma è arrivato il
divorzio fra televisione e televisore. È l'età della convergenza dei media o
dell'abbondanza. Secondo lo studioso inglese John Ellis, infatti, la storia sociale della tv si
divide in tre grandi epoche: l'età della scarsità (scarsity), l'età della disponibilità
(availability) e l'età dell'abbondanza (plently).
La prima età coincide con l'avvento della tv nel contesto domestico e con il suo "decollo"
come principale e popolare mezzo di intrattenimento e di informazione. In questo periodo,
la tv è il più formidabile strumento di modernizzazione delle società e delle culture. In
Europa il mezzo è in mano allo Stato e si configura come Servizio pubblico.
A partire dagli anni settanta e poi decisamente negli anni ottanta, l'avvento di una seconda
età dipende da una varietà di fattori. Avvengono importanti trasformazioni culturali e
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sociali riassumibili un po' sbrigativamente con l'idea del passaggio da "una società dei
consumi a una società consumistica". Si parla anche di “deregulation” intesa come
fenomeno che si lega all'innovazione tecnologica e che affranca il pubblico dalla scarsità
dell'offerta dei servizi pubblici. In Italia, la “deregulation” coincide con l'avvento delle tv
commerciali e l'ingresso in scena di Silvio Berlusconi.
Ciò che invece caratterizza l'età dell'abbondanza, grazie alla rivoluzione del digitale, è
l'idea della radicale personalizzazione del consumo. I media si separano dalle proprie
piattaforme di trasmissione e il flusso viaggia altrove: dvd, computer, satellite, web,
telefonini, iPod, cavo in fibra ottica. E poi: tv satellitare, web tv, Iptv, mobile tv ecc.
I canali si moltiplicano, e si specializzano alla ricerca di nicchie di pubblico più
remunerative. Dal “broadcasting” si passa al “narrowcasting”. La tv cerca di prolungare
l'esperienza intelligibile ben oltre il tempo di visione, il flusso si espande al di là del
singolo programma.
Ognuna delle cosiddette "nuove tv" inizia a definire il suo "specifico": l'Iptv quella offerta
in Italia da Telecom e da Fastweb, fornisce al suo spettatore il grado più ampio di
interattività e flessibilità: vuoi vedere qualcosa di nuovo o rivedere la puntata del reality
che ti sei perso e hai dimenticato di registrare? Nessun problema, gli archivi digitali dell'
on-demand tengono tutto a disposizione. E' il regno della flessibilità del tempo: una volta
lo spettatore si adattava agli orari del piccolo schermo, ora è quest'ultimo ad adattarsi alle
esigenze di una società che pluralizza i suoi ritmi e i suoi orari.
Sul web, invece, scorre la tv della libera espressione: meno censure, possibilità di metter
su un canale con pochi mezzi e renderlo immediatamente disponibile all'infinito pubblico
della rete. Ma soprattutto: trasformazione dello stesso spettatore in autore o produttore. Si
chiama tecnicamente "user generated content" e comprende tutto ciò che è realizzato dalla
gente comune, coi telefonini o telecamere amatoriali. La versione basic è rappresentata da
YouTube, quella più raffinata dalla CurrentTv di Al Gore, che si propone niente meno che
"allargare gli spazi di partecipazione alla sfera pubblica". C'è poi la tv sul cellulare, che ha
sfondato nei Paesi dell'estremo oriente (come la Corea) e si sta diffondendo anche da noi
(il videofonino della 3). Quale sarà mai lo specifico di una tv miniaturizzata? Il contenuto
snack, breve, per allietare i tempi di attesa (in fila al supermercato o in posta, per
ammazzare il tempo)? Oppure la possibilità di consumare contenuti extra, parassitari
rispetto alla tv tradizionale (gli americani hanno inventato i "mobisodes", episodi delle
serie tv in versione mobile)? Ai tempi della scarsità eravamo affetti da misoneismo, da
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un'avversione per le cose nuove (la tv è la morte del cinema, la tv è la morte del libro!).
Adesso soffriamo del contrario, di neofilia. Mentre fioriscono nuove tv su ogni mezzo
grazie alla traducibilità infinita del digitale, resta pur sempre centrale il ruolo della vecchia
tv generalista, quella che si vede sullo schermo di casa, in famiglia, e i cui generi forti
sono gli evergreen di sempre: le storie della fiction, Fiorello che canta, balla e intrattiene,
Gerry Scotti che presenta un quiz. Perché la tv non è fatta di sole tecnologie né di soli
contenuti. Ma anche, o soprattutto, di ritualità condivise.
Ma cosa è Current? La grande novità di Current è che un terzo del palinsesto televisivo
sarà creato dagli utenti; brevi Pod, che verranno caricati sul sito Web dall’autore,
selezionati dalla redazione e trasmessi. Saranno evitati i soliti gattini e video amatoriali di
bassa qualità (almeno questa è la promessa). I propositi di questa tv sono quelli di operare
in un’informazione pura e veritiera, lontano dagli schemi del giornalismo sempre più
spesso alterato da questioni economiche e politiche. L’idea è quella di superare la
perdurante vecchia idea di televisione, di rompere gli schemi tradizionali e di produrre una
sorta di YouTube ben più evoluta, con una coscienza sociale ed uno staff creativo, che
finisce per svolgere una funzione formativa. Il punto di forza del canale dovrebbe essere la
produzione di contenuti da parte degli utenti, video-maker professionisti o dilettanti,
aspiranti autori, “media-attivisti” ma anche semplici anime creative dotate di telecamere
amatoriali o finanche videofonini. Quel che conta è l’idea, l’aspetto tecnico ed estetico
saranno meno importanti, anche se si scremerà comunque sulla base di standard qualitativi
la effettiva messa in onda dei “Vc2” – acronimo di “video creati dalla comunità” – che
costituiranno un trenta per cento del totale del trasmesso.
Lo spettatore pro-attivo può mandare il suo clip al canale, senza preclusione di tematiche:
denuncia sociale, arte, spettacolo, sport, videogiornalismo, entertainment, ed anche
pubblicità. Le pubblicità prodotte dai telespettatori si chiamano “Vcam”, acronimo che sta
per “Viewer Created Ad Messagge”, ovvero spot pubblicitari creati dagli stessi
telespettatori, e vengono pagate bene: una base di 1.000 dollari, ma se uno degli sponsor le
trasmette altrove, il video-maker ricava altri proventi, tra 5.000 e 60.000 dollari (per
esempio, se va in onda su un network, 15.000 dollari). La redazione italiana di Current
sceglie i filmati migliori e li mette sul sito, che diviene una sorta di videojuke-box. Gli
internauti possono vedere questi filmati e votarli a seconda del loro gusto. Quando il video
ha raggiunto un certo numero di voti, passa di diritto in tv. In alternativa, i video-maker
possono contattare la redazione, proporre idee, e, se accolte, vederle pre-finanziate.
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Current TV è un vero e proprio luogo di aggregazione per i video blogger di qualità del
nostro paese, dove è possibile sperimentare nuovi linguaggi e soprattutto contribuire alla
costruzione di un diverso modo di fare ed intendere la televisione, la pubblicità e i progetti
di comunicazione in generale. E la rivoluzione è solo all'inizio.
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1 "Media revolution" e Web 2.0
1.1 La rivoluzione dell’informazione
La diversità dei punti di vista è un ingrediente fondamentale per lo sviluppo: è, infatti,
dal confronto con opinioni e culture diverse che ci si migliora e dall'incontro di idee
differenti che nascono le innovazioni. Sostenere il pluralismo nell'ambito dei mezzi di
comunicazione significa quindi avere a cuore i principi di democrazia e di progresso ed
è il migliore antidoto verso qualsiasi autoritarismo.
L'opinione pubblica passa attraverso l'affermazione di un punto di vista dominante.
Osservare un evento da un punto di vista specifico è decisivo per l'interpretazione che se
ne ottiene. Nell'epoca contemporanea limitare il dissenso attraverso il controllo della
comunicazione risulta essere una strategia molto più efficace per mantenere il potere di
quanto lo siano i metodi violenti usati in passato, come dimostrano la Russia di Putin,
l'Iran di Ahmadinejad e chissà, anche l’Italia di Berlusconi.
Regimi totalitari, semitotalitari o “falsamente” democratici sono però solo la punta
dell'iceberg e anche nei paesi più liberali le forze che cercano di condizionare e
manipolare l'opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione sono sempre attive.
Questo avviene per opera non solo di apparati politici (come dimostra la lottizazione
della Rai e il partito-azienda berlusconiano) ma anche di imprese private.
Fintanto che i mezzi di comunicazione sono stati numericamente limitati e il loro
utilizzo ristretto a pochi potenti e facoltosi individui, la lotta per il discorso è stato
impari.
Negli ultimissimi anni, però, lo scenario è cambiato (e sta cambiando): la rivoluzione
digitale sta, infatti, consentendo a tutti (o quasi) il libero accesso ai media. La scarsità di
risorse e la necessità di capitali non sono più un ostacolo: oggi chiunque può fare
comunicazione rivolgendosi a un pubblico enorme senza confini nazionali o geografici.
La portata di questo fenomeno è enorme, sia da un punto di vista comunicativo sia
mediologico e, quindi, sociale.
Cosa vuol dire vivere in un mondo dove tutti concorrono alla produzione di
informazione e di simboli è qualcosa di inimmaginabile per chi non appartiene alla
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Internet generation.
E' possibile affermare che la prima fase di Internet, il web 1.0, scopri solo una parte di
quanto sarebbe emerso negli anni successivi. Per tutto quel periodo la corsa all'oro e alla
quotazione in borsa costituì un punto di vista dominante del fenomeno, offuscando le
pur importanti analisi che cominciavano a evidenziare la nascita di un nuovo sistema
comunicativo e sociale basato sugli individui, il network, che la metafora del Web
aveva fin da subito richiamato:
l'ideologia che ha accompagnato la dot.com-mania era una
rappresentazione un po' fanatica, di ottimismo obbligatorio e di
fideismo economicista. Ma il processo reale che si è svolto negli anni
delle dot.com contiene elementi di innovazione sociale, oltre che
tecnologica: elementi che dovremmo recuperare e riutilizzare.
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Una Dot-com è un'azienda di servizi che fa la maggior parte del suo business tramite un
sito internet. Il nome deriva dal comune utilizzo da parte dei siti del dominio di primo
livello .com. Le Dot-com furono le protagoniste, in negativo, della bolla speculativa
della new-economy all'inizio degli anni novanta, quando numerose di esse fallirono
generando una recessione della New Economy.
Dot-com può riferirsi sia alle compagnie che oggi fanno business su internet, ma può
essere usato più specificatamente per riferirsi alle aziende con questo modello di
business che lo fecero durante la fine degli anni novanta. Molte di queste start-up
nacquero grazie al grande surplus di fondi di venture capital ed al grande ottimismo del
mercato azionario durante la fine del ventesimo secolo.
1 Franco Berardi Bifo, prefazione a Geert Lovink, Dark Fiber, Luca Sossella editore, Roma 2002, p.11