questi networks criminali si impossessano delle proprie vittime con la forza,
l’inganno, la minaccia, ma anche con mezzi più subdoli, come l’abuso della
condizione di vulnerabilità nella quale versano i soggetti più deboli delle
società economicamente meno sviluppate: le donne ed i bambini. Una volta
acquisita la disponibilità della vittima, i gruppi criminali provvedono al suo
trasferimento nei luoghi dove maggiore è la domanda di merce umana da
sottoporre a sfruttamento. Prezzate, vendute o barattate, queste persone
arrivano nelle mani dei loro sfruttatori finali quando sono state ormai
totalmente spogliate della propria dignità.
La difficoltà di inquadrare tutte le “nuove forme di schiavitù” all’interno della
nozione giuridica di schiavitù si riflette, necessariamente, nella difficoltà di
qualificare come tratta di schiavi l’attività dei gruppi criminali appena
descritta. La Comunità internazionale, d’altra parte, ha ormai da tempo preso
coscienza del fatto che la tratta di persone, così come si manifesta al giorno
d’oggi, necessita di normative apposite, capaci di garantire la punibilità dei
trafficanti anche nei casi in cui non sia possibile dimostrare l’intento di
sottoporre la vittima all’esercizio di poteri inerenti all’esercizio del diritto di
proprietà, così come richiesto dalla nozione di tratta di schiavi.
Questo studio si prefigge di analizzare l’evoluzione del divieto internazionale
di tratta di persone e dell’attuazione di tale divieto a livello nazionale e
sopranazionale. Particolare attenzione verrà dedicata a quello che sembra
essere l’ostacolo maggiore ad un’efficace repressione del fenomeno:
l’elaborazione, sul piano tanto internazionale che interno, di una definizione
di tratta di persone sufficientemente determinata da rispondere ai canoni del
principio di legalità della normativa penale ed, al contempo, sufficientemente
ampia da comprendere tutte le diverse manifestazioni di un fenomeno in
continua evoluzione quanto alle forme ed agli scopi.
CAPITOLO 1: LE REGOLE INTERNAZIONALI
Il panorama degli strumenti internazionali relativi alla tratta degli esseri umani
è piuttosto vasto ed eterogeneo. Del fenomeno si occupano non solo diverse
norme universali elaborate al tempo nell’ambito della Società delle Nazioni e
poi dell’ONU, ma anche una serie di norme a carattere regionale, che
permettono di affrontare il problema in maniera differenziata nei diversi
continenti. In questo capitolo si analizzerà la disciplina convenzionale sulla
tratta e lo sviluppo della normativa consuetudinaria in materia.
Scopo di questa prima parte dello studio è stabilire se esista un’unica norma
che si occupi della tratta in tutte le sue forme o se vi siano, piuttosto, una
serie di norme frammentarie, differenziate fra loro in ragione dei diversi scopi
per i quali la tratta può avvenire (lo sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la
servitù domestica ecc.) ovvero in ragione del soggetto passivo del reato
(donne, bambini, maschi adulti).
SEZ.1 LE CONVENZIONI
Paragrafo 1 – Le norme universali
L’interesse della comunità internazionale per il fenomeno della tratta di
persone fonda le proprie radici in epoche remote. Le prime convenzioni
internazionali che si occupavano in maniera diretta del problema furono
elaborate agli inizi del Novecento. Esse avevano come scopo la repressione
di quella che veniva definita “la tratta delle bianche”, un fenomeno su vasta
scala che alimentava, in quegli anni, il mercato della prostituzione. Si trattava
dunque di strumenti dedicati ad una specifica forma di tratta di esseri umani
che interessava, al tempo, quasi esclusivamente donne e bambine.
La prima conferenza internazionale per la prevenzione della tratta delle
donne si tenne a Parigi nel 1895, essa fu seguita da altre due conferenze
relative al problema della prostituzione, tenutesi rispettivamente a Londra e
Budapest. Il frutto delle discussioni maturate nel corso di tali conferenze fu la
firma, a Parigi, il 18 maggio 1904, dell’”Accordo internazionale per assicurare
una protezione efficace contro il traffico criminale conosciuto sotto il nome di
tratta delle bianche”
3
. Tale Convenzione, entrata in vigore il 18 luglio 1905,
non forniva una definizione di tratta. Essa limitava il proprio ambito
d’applicazione al reclutamento di donne e fanciulle eseguito per scopi
immorali all’estero
4
. Il preambolo distingueva la tratta di minorenni, la quale
rientrava nell’ambito d’applicazione dell’Accordo a prescindere dall’eventuale
consenso prestato dalla fanciulla, dalla tratta di maggiorenni, configurabile
soltanto se realizzata mediante coercizione o abuso.
L’accordo del 1904 non obbligava gli Stati parti a punire gli autori della tratta,
ma si limitava a prevedere alcuni obblighi di informazione reciproca al fine di
potenziare e coordinare gli sforzi intrapresi da ciascuno Stato per la
repressione del fenomeno. Così, era prevista l’istituzione, nei paesi
contraenti, di un’autorità centrale incaricata di gestire tutte le informazioni
3
“International Agreement for the Suppression of the White Slave Traffic”, in League of
Nations, Treaty Series, vol. 1, p. 83. L’Accordo è stato ratificato dall’Italia il 18 gennaio 1905,
l’ordine d’esecuzione era stato dato con il R.D. n° 171 del 9 aprile 1905.
4
Cfr. art. 1.
relative alla tratta delle donne e di mantenere i contatti con le autorità
analoghe costituite negli altri Stati contraenti. Erano poi previsti obblighi di
vigilanza sulle frontiere e sulle agenzie che si occupavano del collocamento
di donne e fanciulle all’estero.
Per quanto riguarda il profilo della protezione delle vittime, l’Accordo risultava
essere piuttosto carente: l’art. 3 prevedeva l’obbligo per gli Stati di rimpatriare
la vittima qualora fosse questa a desiderarlo oppure nel caso in cui il
rimpatrio fosse richiesto da chi esercitava la potestà su di essa. Questa
disposizione rischiava di vanificare il proprio scopo umanitario quando la
tratta avveniva con il consenso, se non addirittura con la complicità, degli
esercenti l’autorità sulla donna, sicché il rimpatrio avrebbe avuto il risultato di
restituire la vittima nelle mani dei suoi stessi carnefici. Maggiormente
favorevole era il secondo paragrafo dell’art. 3, che obbligava gli Stati a
provvedere all’affidamento temporaneo della vittima indigente ad istituti
caritatevoli pubblici o privati o ad individui che offrissero sufficienti garanzie di
sicurezza, in vista dell’eventuale rimpatrio.
La “Convenzione internazionale relativa alla repressione della tratta delle
bianche”
5
del 4 maggio 1910 completava idealmente l’Accordo internazionale
del 1904, come risulta chiaro dall’art. 8 del trattato più recente, che
prevedeva l’adesione automatica all’accordo del 1904 per tutti gli Stati che
divenivano parte della Convenzione del 1910. L’ambito di applicazione di
questo strumento internazionale, entrato in vigore l’8 febbraio 1913, era più
ampio rispetto a quello dell’accordo del 1904, estendendosi anche alla tratta
meramente interna. La novità principale di questa Convenzione rispetto a
quella del 1904 era il fatto che per la prima volta gli Stati parti si obbligavano
a punire i trafficanti. Gli articoli 1 e 2 riproponevano e specificavano la
distinzione già operata nel preambolo dell’accordo del 1904 fra la tratta delle
donne adulte e quella delle minorenni. Il protocollo finale specificava che per
maggiorenne doveva intendersi una persona che avesse compiuto i 20 anni,
salva la libertà per gli Stati parti di fissare una soglia di età più alta, purché
5
“International Convention for the suppression of the White Slave Traffic and Final Protocol”,
in League of Nations, Treaty Series, vol. 3, p. 275. La Convenzione è stata ratificata
dall’Italia il 28 maggio 1924, l’ordine d’esecuzione era stato dato con il D.L. n° 1207 del 25
marzo 1923.
tale soglia valesse per le giovani donne di qualsiasi nazionalità. Il Protocollo
finale chiariva inoltre che gli artt. 1 e 2 della Convenzione dovevano essere
considerati come obblighi minimi per gli Stati, che rimanevano liberi di punire
reati analoghi, come ad esempio il reclutamento di donne maggiorenni
ottenuto senza né frode né coercizione alcuna. La Convenzione conteneva
alcune disposizioni relative alla cooperazione fra Stati parti nella repressione
del fenomeno della tratta, cooperazione perseguita in primo luogo mediante
l’obbligo di reciproca comunicazione della pertinente legislazione nazionale
esistente e dei suoi possibili sviluppi, oltre che della lista dei condannati per il
reato di tratta transfrontaliera. Era sancito, inoltre, l’obbligo per gli Stati di
inserire il reato di tratta nella lista dei delitti per i quali poteva essere
concessa l’estradizione. E’ importante notare come la Convenzione del 1910
si occupasse esclusivamente del profilo punitivo della tratta, senza dedicare
alcuna disposizione al tema della protezione delle vittime, che restava quindi
unicamente affidata alle scarne disposizioni contenute nell’accordo del 1904.
Dopo poco più di dieci anni dall’approvazione della Convenzione del 1910, gli
Stati firmatari di quell’accordo indissero una nuova conferenza internazionale
sul tema della tratta delle bianche. Essa si tenne dal 30 giugno al 5 luglio
1921 e vi parteciparono per la prima volta anche i rappresentanti di alcuni
paesi extra-europei. Durante i lavori della conferenza, emerse con chiarezza
la necessità di affiancare all’Accordo del 1904 ed alla Convenzione del 1910
un nuovo strumento internazionale, che ampliasse l’ambito di applicazione
dei due precedenti accordi. Così, il 30 settembre 1921 fu siglata a Ginevra la
“Convenzione internazionale per la repressione della tratta delle donne e dei
fanciulli”
6
. Per la prima volta una convenzione relativa alla tratta degli esseri
umani prendeva atto del fatto che le vittime della tratta di persone possono
essere anche minori di sesso maschile (art. 2). La nuova Convenzione,
entrata in vigore il 28 giugno 1922, emendava l’accordo del 1910, fissando il
raggiungimento della maggiore età a 21 anni anziché a 20. Questo
emendamento aveva l’effetto di estendere ulteriormente la disciplina più
repressiva prevista per la tratta dei minori, la quale prescindeva dal consenso
6
“International Convention for the Suppression of the Traffic in Women and Children”, in
League of Nations, Treaty Series, vol. 9, p. 415. La Convenzione è stata ratificata dall’Italia il
30 giugno 1924, l’ordine d’esecuzione era stato dato col R.D. n° 2749 del 31 ottobre 1923.
eventualmente prestato dalla vittima. La Convenzione non conteneva
rilevanti novità sotto il profilo della cooperazione fra Stati né sotto quello della
protezione delle vittime: la risposta della Comunità internazionale al
problema della tratta rimaneva prevalentemente repressiva, piuttosto che di
protezione e riabilitazione delle vittime.
L’approccio non cambiò con la Convenzione siglata l’11 ottobre 1933 a
Ginevra, la “Convenzione internazionale per la repressione della tratta delle
donne adulte”
7
, entrata in vigore il 24 agosto 1934. Bisogna infatti rilevare
come anche questa nuova disciplina pattizia si disinteressasse totalmente
del destino delle vittime, una volta liberate dai propri sfruttatori. Questo
strumento, che completa il quadro delle fonti precedenti alla seconda guerra
mondiale, obbligava gli Stati parti a prevedere come reato anche la tratta
transfrontaliera di donne adulte consenzienti, restando ancora esclusa la
tratta per scopi immorali dei maschi adulti.
Nella sua prima sessione, a Lake Success (20 gennaio – 4 febbraio 1947), la
Commissione degli Affari Sociali delle Nazioni Unite propose all’unanimità di
riprendere i lavori sul progetto di “Convenzione contro lo sfruttamento della
prostituzione”, redatto nel 1937 dalla Società delle Nazioni. Il 2 dicembre
1949, con la risoluzione 317 (IV) l’Assemblea Generale approvò il testo della
“Convenzione internazionale per la repressione della tratta degli esseri umani
e dello sfruttamento della prostituzione altrui”
8
, la quale entrò in vigore il 25
luglio 1951.
Per quanto riguarda il profilo della penalizzazione, l’art. 1 della nuova
Convenzione obbliga gli Stati parti a punire chi, per gratificare le passioni
altrui:
1) Procura, adesca o rapisce, al fine di avviarla alla prostituzione, un’altra
persona anche con il consenso di questa.
7
“International Convention for the Suppression of the Traffic in Women of Full Age”, in
League of Nations, Treaty Series, vol. 150, p. 431. L’Italia non è parte di questa
Convenzione.
8
“Convention for the Suppression of the Traffic in Persons and of the Exploitation of the
Prostitution of Others” , in United Nations, Treaty Series, vol. 96, p. 271. Aperta alla firma a
Lake Success - New York, il 21 marzo 1950. L’Italia ha aderito a questa Convenzione il 18
gennaio 1980 (G.U. n° 95 del 5 aprile 1980), dopo che era stata da tempo predisposta la
legge d’esecuzione (23 novembre 1966 n. 1173, in G.U. n° 5 del 7 gennaio 1967).
2) Sfrutta la prostituzione di un’altra persona, anche con il consenso di
questa.
Della seconda disposizione e dei problemi che essa ha generato si dirà più
avanti
9
. Qui ora preme concentrarsi sulla prima delle due disposizioni, che va
analizzata confrontandola con le previsioni delle precedenti convenzioni sulla
tratta delle bianche. Si noti come la Convenzione del 1949 completi l’opera di
criminalizzazione cominciata con i precedenti accordi, prevedendo l’obbligo
di penalizzare anche la tratta interna delle donne adulte consenzienti, nonché
degli uomini adulti, consenzienti o non. Tuttavia, a differenza delle
precedenti, la Convenzione del 1949 non fa riferimento genericamente alla
tratta per scopi immorali, ma solamente a quella a scopo di prostituzione.
L’espressione usata nei precedenti accordi, sebbene concepita per essere
applicata essenzialmente alle stesse fattispecie a cui si applica la
Convenzione del 1949, si prestava a maggiori opportunità d’interpretazione
evolutiva: vi si sarebbero potuti far rientrare, ad esempio, anche i casi di
tratta a scopo di matrimonio, laddove si fosse considerato immorale il
matrimonio coatto. La Convenzione del 1949 contiene un Protocollo finale
soggetto a separata ratifica, il quale permette agli Stati parti di adottare una
legislazione più restrittiva rispetto a quella prevista dalla Convenzione, al fine
di rinforzare le misure volte a sopprimere la tratta degli esseri umani e lo
sfruttamento altrui a scopo di prostituzione. La disposizione implicitamente
ammette la possibilità che la legislazione nazionale si spinga fino a
criminalizzare anche la condotta della prostituta stessa. L’ottica
marcatamente proibizionistica che sta alla base di questa disposizione non è
unanimemente condivisa dagli Stati parti della Convenzione, tanto che alcuni
di questi, come l’Italia, non hanno ratificato il Protocollo. Inoltre, come anche
sottolineato dalla relatrice speciale sulla violenza contro le donne nell’ambito
della Commissione delle Nazioni Unite per i diritti umani
10
, Radhika
9
Vedi infra, p. 11.
10
Istituito (con la risoluzione 1994/45) dalla Commissione per i diritti umani il 4 marzo 1994,
questo organo ha il compito di redigere un rapporto annuale sulla violenza contro le donne,
le sue cause e conseguenze, raccogliendo informazioni e formulando raccomandazioni a
livello nazionale ed internazionale. (“Question of integrating the rights of women into the
human rights mechanisms of the United Nations and the elimination of violence against
women”, UN Doc. E/CN.4/RES/1994/45, paragrafi 6 e 7, in “Commission on Human Rights:
report on the 50th session, 31 January-11 March 1994”. - E/1994/24-E/CN.4/1994/132. -
1994. - p. 140-145. - (UN Official Records: ESCOR, 1994, Suppl. no. 4))
Coomaraswamy, anche l’art. 19, paragrafo 2, della Convenzione finisce col
sostanziarsi in una forma di punizione nei confronti delle prostitute
11
. Questa
disposizione, infatti, permette agli Stati di rimpatriare le prostitute straniere
non solo nel caso in cui siano esse a richiederlo, ma anche laddove il
rimpatrio sia richiesto da chi esercita l’autorità su di esse oppure, ancora, nel
caso in cui penda su di esse un provvedimento di espulsione emanato in
conformità alla regolamentazione nazionale. Si è già avuto modo di
osservare
12
, in relazione alla disposizione in parte analoga contenuta
nell’Accordo del 1904, come il rimpatrio su richiesta dell’esercente autorità si
risolva spesso nella restituzione della vittima della tratta nelle mani dei
trafficanti; la Convenzione, inoltre, prevedendo anche il rimpatrio a seguito di
provvedimento di espulsione, lascia gli Stati parti liberi di applicare alle
vittime della tratta le regole e le sanzioni previste dall’ordinamento nazionale
per la repressione dell’immigrazione clandestina in generale.
In tema di giurisdizione penale, la Convenzione del 1949 non apporta
modifiche ai criteri di competenza autonomamente posti dalle parti
13
, con la
sola eccezione dell’art. 9, che obbliga gli Stati parti che non prevedano
l’estradizione del cittadino per i reati previsti dagli artt. 1 e 2 della
Convenzione a processarlo se rientrato in patria dopo il compimento del
fatto. Il principio dell’aut dedere aut iudicare che sottende a questa
disposizione è indicativo dell’importanza che i redattori hanno voluto
attribuire al fatto che i trafficanti di persone vengano sempre debitamente
puniti.
11
R. COOMARASWAMY, relatrice speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e le sue
conseguenze, “Report on trafficking in women, women’s migration and violence against
women submitted in accordance with Commission on Human Rights resolution 1997/44”,
Ginevra, 29 febbraio 2000, p. 7 (UN Doc. E/CN.4/2000/68). Il rapporto fu redatto in
conformità alla risoluzione 1997/44, “The elimination of violence against women” , adottata
dalla Commissione per i diritti umani l’11 aprile 1997, nella quale la Commissione invitò la
relatrice speciale: “to examine and compile information on existing international human
rights, humanitarian and other standards and instruments relating to trafficking in women and
girls, in dialogue with Governments, intergovernmental organizations and non-governmental
organizations”. (UN Doc. E/CN.4/RES/1997/44, par. 15, in : “Commission on Human Rights :
report on the 53rd session, 10 March-18 April 1997”. - E/1997/23-E/CN.4/1997/150. - 1997. -
p. 145-149. - (UN Official Records: ESCOR, 1997, Suppl. no. 3)).
12
Vedi supra, p.5.
13
Vedi art. 11 della Convenzione del 1949. La ratio dell’art. 11 è di ribadire che la
Convenzione del 1949, salvo l’eccezione di cui all’art. 9, non intende costituire in capo alle
parti alcun obbligo di repressione extra-territoriale del crimine di tratta.
Oltre ad una serie di norme che specificano obblighi preventivi del fenomeno
della tratta già previsti nei precedenti Trattati, la Convenzione del 1949
contiene alcune disposizioni relative alla protezione delle vittime. L’art. 5, in
particolare, prevede che, qualora la legge dello Stato in cui il procedimento
penale ha luogo consenta la partecipazione al processo della persona offesa,
tale partecipazione deve essere garantita allo straniero negli stessi termini in
cui essa è garantita al cittadino. In particolare, lo straniero dovrà avere la
possibilità di prolungare il proprio soggiorno nello Stato in cui ha luogo il
procedimento per tutta la durata dello stesso. Sebbene questa disposizione
sia profondamente innovativa, i redattori non si sono spinti fino al punto di
configurare, in capo agli Stati, l’obbligo di provvedere alla concessione dello
status di rifugiato alle vittime della tratta
14
.
Secondo l’art. 28, la Convenzione del 1949 avrebbe dovuto estinguere
ciascuna delle quattro precedenti Convenzioni relative alla tratta delle
bianche, una volta che tutte le parti dei trattati precedenti fossero divenute
parti del nuovo strumento
15
. L’intento dei redattori di costituire uno strumento
unico e universale per la lotta alla tratta degli esseri umani e alla
prostituzione è stato solo in parte conseguito, se si tiene conto che, al 5
febbraio 2002, soltanto 74 Stati risultano essere parti di questo strumento
16
.
Le ragioni di questo limitato successo sono principalmente due.
In primo luogo le adesioni sono state ostacolate dalla previsione dell’obbligo,
per gli Stati, di criminalizzare il semplice sfruttamento economico della
prostituzione altrui. Come si evince dal preambolo, la Convenzione considera
14
In base alla “Convention Relating to the Status of Refugees” del 1951 (in United Nations,
Treaty Series, Vol. 189, p. 137, entrata in vigore il 22 aprile 1954), così come integrata dal
“Protocol Relating to the Status of Refugees” del 1967 (in United Nations, Treaty Series,
Vol. 606, p. 267, entrata in vigore il 4 ottobre 1967), per “rifugiato” s’intende, fra l’altro, chi
“owing to well-founded fear of being persecuted for reasons of race, religion, nationality,
membership of a particular social group or political opinion, is outside the country of his
nationality and is unable or, owing to such fear, is unwilling to avail himself of the protection
of that country”. Ai sensi delle “Conclusions on Refugee Women and International
Protection”, emesse dal Comitato Esecutivo dell’UNHCR nel 1985, (Conclusions N° 39
(XXXVI) – 1985, pubblicate sul sito www.unhcr.ch), gli Stati parti sono liberi d’interpretare il
requisito dell’appartenenza ad un particolare gruppo sociale in maniera estensiva,
ritenendolo integrato anche nel caso di “Women asylum-seekers who face harsh or inhuman
treatment due to their having transgressed the social mores of the society in which they live”
(paragrafo k). Le Conclusions attribuiscono agli Stati una facoltà, ma non impongono alcun
obbligo.
15
Si veda l’art. 59, comma 1, paragrafo a), della Convenzione di Vienna sul diritto dei
trattati.
16
Dato reperito al sito www.unhchr.ch.
tanto la tratta quanto la prostituzione in sé incompatibili con la dignità ed il
valore della persona umana, nonché pericolose per il benessere
dell’individuo, della famiglia e dell’intera comunità. Fra gli Stati membri
dell’ONU, invece, non vi era nel 1949, e non v’è oggi concordia quanto alla
politica da adottare nei confronti del problema della prostituzione. Come
recentemente sottolineato dalla relatrice speciale sulla violenza contro le
donne
17
, gli approcci al problema possono essere molteplici: si va dal
proibizionismo, alla decriminalizzazione, passando per la criminalizzazione
del solo sfruttamento e per la tolleranza.
La Convenzione del 1949, dal canto suo, mira a reprimere ogni forma di
intermediazione nell’esercizio della prostituzione e lascia liberi gli Stati che
hanno aderito anche al Protocollo finale di adottare misure ancor più severe,
fra cui eventualmente anche la criminalizzazione della condotta della
prostituta stessa. L’approccio proibizionista seguito dai redattori della
Convenzione finisce per ostacolarne la ratifica da parte di Stati, come la
Germania e l’Olanda, che abbracciano la prospettiva della
decriminalizzazione. In Germania, nel 1990, il partito dei Verdi avanzò la
proposta di porre fine alle discriminazioni nei confronti delle prostitute
riconoscendo alla prostituzione dignità di professione legale. Questi sviluppi
indussero la Commissione per i diritti umani dell’ONU a prendere posizione,
in termini critici, su quello che fu definito il “pro-prostitution lobby”; la
Commissione si espresse al riguardo in una risoluzione del 1991
18
,
utilizzando termini piuttosto allarmistici e manifestando il dissenso delle
Nazioni Unite nei confronti di questi tentativi di rendere legale una piaga
sociale, che, sebbene profondamente radicata, potrebbe ancora essere
debellata con l’ausilio di opportune previsioni penali. Nonostante l’impegno
della Commissione per i diritti umani, in Europa il cammino verso la
liberalizzazione non si è affatto fermato, come testimoniano alcune sentenze
17
R. COOMARASWAMY, op.cit. supra, nota n°11, p. 6.
18
COMMISSIONE PER I DIRITTI UMANI, Sottocommissione per la prevenzione della
discriminazione e la protezione delle minoranze, Gruppo di lavoro sulle forme
contemporanee di schiavitù, “Report of the Working Group on Contemporary Forms of
Slavery on its 16th session”, Ginevra, 1991 (UN Doc. E/CN.4/Sub.2/1991/41, in Yearbook of
the United Nations, 1991, p.561).
nazionali
19
e comunitarie
20
, e per questo le probabilità che la Convenzione
del ’49 possa ricevere maggiori consensi in futuro sono a dir poco scarse.
D’altra parte, come precedentemente accennato, vi è un’altra ragione alla
base delle non certo numerose adesioni alla Convenzione di cui si discorre.
Lo strumento concepito in seno alle Nazioni Unite, infatti, si poneva su di un
piano di tendenziale continuità rispetto alle quattro precedenti Convenzioni
relative alla tratta delle bianche; come queste, si preoccupava soltanto degli
aspetti della tratta connessi con lo sfruttamento sessuale delle vittime,
disinteressandosi totalmente di altre forme di tratta degli esseri umani che
molti Stati cominciavano già a sentire come altrettanto odiosi e meritevoli di
attenzione. Ci si riferisce in particolare alla tratta a scopo di sfruttamento
dell’altrui lavoro domestico, manuale o industriale, oltre che a fine di
matrimonio o adozione
21
.
Singole disposizioni relative alla tratta si possono rinvenire anche nelle
convenzioni internazionali sulla schiavitù. La prima, firmata a Ginevra il 25
settembre 1926 ed entrata in vigore il 9 marzo 1927
22
, è il risultato dei lavori
di una apposita commissione, istituita dal Consiglio della Società delle
Nazioni il 12 giugno 1924 con il compito di studiare il fenomeno. Nel proprio
rapporto conclusivo, la Commissione elencò una serie di istituti e pratiche
19
Cfr.un articolo intitolato “Freude am sex”, apparso sul Der Spiegel, il 20 aprile 1992, per il
caso della giovane Karo, ventisettenne prostituta di Berlino che ottenne dalla Corte di
Giustizia Sociale di Berlino il riconoscimento della propria attività di prostituta come attività
lavorativa ai fini della domanda da lei avanzata per l’ammissione gratuita ad un corso di
riqualificazione professionale come cameriera. La legge tedesca, infatti, prevede il
finanziamento statale dei corsi di riqualificazione professionale solo nei confronti di coloro
che hanno esercitato un’attività lavorativa ufficiale per minimo due anni.
20
Cfr. la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 18 maggio 1982,
Rezguia Adoui v. Belgio e città di Liège; Dominique Cornuaille v. Belgio. Cause riunite 115 e
116/81 (in Raccolta della giurisprudenza della Corte. Corte di Giustizia delle Comunità
Europee, 1982, p. 1665). La Corte diede ragione a due prostitute francesi, desiderose di
esercitare la propria attività in Belgio ed alle quali lo Stato belga aveva rifiutato la residenza.
La Corte motivò la propria decisione stabilendo che uno Stato membro non può rifiutare la
residenza ad uno straniero a causa della condotta di questi quando la stessa condotta, se
tenuta da un cittadino, non darebbe luogo ad alcuna misura repressiva legale o comunque
effettiva. Questo significa fondamentalmente che uno Stato della CE non può impedire ad
una prostituta straniera di esercitare la sua attività nel proprio territorio se la prostituzione
non è illegale né soggetta ad altre misure repressive nello stesso Stato membro.
21
La tematica è strettamente connessa con quella della definizione di tratta e pertanto sarà
approfondita nel secondo capitolo della tesi.
22
“Slavery Convention”, in United Nations, Treaty Series, vol. 212, p. 17. L’Italia ha ratificato
questa Convenzione il 25 agosto 1928, l’ordine d’esecuzione è contenuto nel R.D. N° 1723
del 26 aprile 1928 (G.U. n°176 del 30 luglio 1928). Sono parti della Convenzione 95 Stati.
(Dato aggiornato al 5 febbraio 2002, fonte:www.unhchr.ch).
riconducibili, a suo parere, al genus della schiavitù. Accanto alla schiavitù ed
alla tratta degli schiavi in senso classico, figuravano in tale lista la servitù
della gleba ed altre pratiche restrittive della libertà della persona o tendenti
ad acquisire controllo su di essa in condizioni di diritto analoghe alla
schiavitù, come ad esempio l’acquisto di bambine effettuato simulando una
dazione in dote, l’adozione di minori al fine di ridurli in schiavitù o di disporre
in maniera estrema della loro persona, tutte le pratiche per cui un essere
umano viene dato in pegno a garanzia di un debito o ridotto in servitù a
causa del debito stesso oltre che il lavoro forzato. Sebbene tutte queste
condizioni di diritto non siano specificatamente previste dalla Convenzione
del 1926, bisogna ritenere che esse siano state considerate dai redattori
assorbite nel concetto di schiavitù, così come definito nell’art. 1 del testo
approvato. Secondo tale disposizione:
“Slavery is the status or condition of a person over whom any or all of the
powers attaching to the right of ownership are exercised”.
La Convenzione fornisce inoltre la definizione di tratta degli schiavi, la quale
include, sempre ai sensi dell’art. 1:
“All acts involved in the capture, acquisition or disposal of a person with the
intent to reduce him to slavery; all acts involved in the capture, acquisition or
disposal of a slave with a view to selling or exchanging him; all acts of
disposal by sale or exchange of a slave acquired with a view to being sold or
exchanged, and, in general, every act of trade or transport in slaves”.
La “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo”
23
, proclamata
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, all’art. 4
sancisce il divieto di schiavitù e di tratta degli schiavi sotto qualsiasi forma.
Il 7 settembre 1956 fu approvata a Ginevra la “Convenzione supplementare
per l’abolizione della schiavitù, della tratta degli schiavi e degli istituti e
23
“Universal Declaration Of Human Rights”, adottata dall’Assemblea Generale con la
risoluzione 217 A (III), contenuta in “Resolutions : official records of the 3rd session of the
General Assembly, part 1, 21 September-12 December 1948”, (UN Doc. A/810 al n° 71).
pratiche analoghe alla schiavitù”
24
. Nel formulare questo nuovo strumento, il
quale è in vigore dal 30 aprile 1957, i redattori presero atto del fatto che la
Convenzione del 1926 da sola non era bastata, con le proprie definizioni
ampie ma vaghe, ad eliminare la schiavitù in tutte le sue forme. Per questo
motivo l’art. 1 della Convenzione Supplementare si preoccupa di specificare
una serie di istituti e pratiche analoghe alla schiavitù che come tali devono
essere aboliti dagli Stati parti. Accanto alla servitù della gleba ed alla
schiavitù per debiti, che già erano emersi nei lavori preparatori della
Convenzione del 1926 come inclusi nella definizione di schiavitù, nella nuova
Convenzione si definiscono come “stato servile” istituti o pratiche per cui:
1. una donna viene promessa o data in sposa dai propri genitori, dal tutore,
dalla famiglia o da qualsiasi altra persona o gruppo in cambio di un
corrispettivo in denaro o natura; o
2. il marito di una donna, la famiglia di lui o il suo clan hanno il diritto di
trasferire la donna ad un’altra persona dietro corrispettivo o meno; o
3. una donna, alla morte del marito, può essere ereditata da un’altra
persona.
Le condizioni analoghe alla schiavitù includono altresì la situazione del
minore di 18 anni, consegnato da un genitore o dal tutore ad un’altra
persona al fine di sfruttare il fanciullo o il suo lavoro.
Complessivamente, la Convenzione del 1926 e quella del 1956 obbligano gli
Stati che le hanno ratificate a prevedere pene severe per gli autori dei delitti
di riduzione e mantenimento in stato di schiavitù o di servitù e di tratta degli
schiavi, oltre che per chi induce un’altra persona a dare in schiavitù sé
stesso o una persona da sé dipendente.
Interessa stabilire se, ed in che misura, la tratta degli esseri umani, così
come oggi intesa, rientri nella Convenzione del 1926 come integrata dalla
Convenzione del 1956. Alcune forme di tratta sono specificatamente incluse
fra le pratiche analoghe alla schiavitù previste dalla Convenzione del 1956:
ci si riferisce alla cessione della donna a scopo di matrimonio, al suo
24
“Supplementary Convention on the Abolition of Slavery, the Slave Trade, and Institutions
and Practices Similar to Slavery”, in United Nations, Treaty Series, vol. 226, p.3. L’Italia ha
ratificato la Convenzione il 12 febbraio 1958 (G.U. n° 70 del 21 marzo 1958), l’ordine
d’esecuzione era stato dato con la legge n° 1304 del 20 dicembre 1957, (G.U. n° 14 del 18
gennaio 1958). Sono parti della Convenzione 119 Stati (dato aggiornato al 5 febbraio 2002,
fonte:www.unhchr.ch).
trasferimento perpetrato in ossequio a consuetudini matrimoniali ed alla
consegna di bambini a scopo di sfruttamento. Gli Stati che hanno ratificato
le due Convenzioni sono, inoltre, obbligati a punire la tratta quando questa si
traduce nella riduzione di un essere umano in una delle altre situazioni di
servitù specificatamente previste dalla Convenzione del 1956. Così, ad
esempio, ricadono nelle previsioni delle Convenzioni sulla schiavitù quelle
ipotesi di tratta per cui la vittima, aiutata ad emigrare dai trafficanti, si ritrova
a lavorare per essi o per terzi sfruttatori a cui essi la vendono, fino a quando
non avrà saldato completamente il debito contratto con i trafficanti a causa
delle spese del viaggio e dei documenti, oltre che con gli sfruttatori che
hanno pagato un prezzo per l’acquisto della merce umana e forniscono alla
vittima vitto e alloggio. In questi casi, comuni peraltro anche nella prassi
della tratta a scopo di sfruttamento sessuale, si configura una vera e propria
riduzione in stato di servitù da debito, visto che per saldare lo stesso a volte
non bastano anni di lavoro, e che spesso il debito, invece che diminuire
progressivamente, aumenta a causa di spese impreviste come quelle per
cure mediche, “gentilmente” anticipate dagli sfruttatori.
La tappa successiva nell’evoluzione convenzionale della normativa sulla
tratta fu l’approvazione, il 16 dicembre 1966, del “Patto internazionale sui
diritti civili e politici”
25
, entrato in vigore il 23 marzo 1976. Il Patto gode di
ampio consenso in ambito internazionale, essendo stato ratificato da ben
148 Stati
26
. L’art. 8 deI Patto prevede il diritto di essere libero da schiavitù o
servitù, obbligando gli Stati parti ad assicurare il godimento di tale diritto
all’interno del proprio territorio e nell’ambito della propria giurisdizione,
prevedendo, fra l’altro, rimedi effettivi a disposizione delle vittime di eventuali
violazioni.
25
“International Covenant onCivil and Political Rights”, adottato dall’Assemblea Generale
con la risoluzione 2200A (XXI) del 1966, in United Nations, Treaty Series, vol.999, p.171.
L’Italia ha ratificato il Patto il 15 settembre 1978, l’ordine d’esecuzione è contenuto nella
legge n° 881 del 25 ottobre 1977 (G.U. n°333 del 7 dicembre 1977).
26
Dato aggiornato all’8 febbraio 2002. Fonte www.unhchr.ch.