2. Cenni storici
Le origini della tortura si fanno risalire a Falaride, a Tarquinio il superbo, a Massenzio: si
è notato invece che nei testi biblici non vi compare alcun riferimento alla tortura. Questa
pratica prende forza durante i governi tirannici; applicata ai cittadini (non agli schiavi,
che fin dalla repubblica non godevano di diritti di personalità) compare nel tardo impero
romano e sotto Carlomagno, ma dai testi legislativi non è considerata essenziale ai
processi criminali.
Prima che la tortura entrasse nella prassi penalistica normale, eminenti intelletti si erano
dichiarati avversi ad essa (Cicerone, Seneca, Quintiliano, Valerio Massimo,
Sant'Agostino).
Nella storia del diritto la tortura è definita come un complesso di mezzi di coercizione
personale, tanto fisica quanto morale, impiegati nel processo (e, al di fuori di esso,
nell‟attività di polizia che lo precede e accompagna) per accertare la responsabilità degli
15
imputati, al fine di provocarne la confessione .
In senso diverso, ma non meno rilevante nella storia del diritto penale, si connette alla
nozione di tortura anche il complesso delle sofferenze inflitte ai condannati durante
l'espiazione della pena, come mezzo continuativo di aggravamento del trattamento
detentivo (ceppi, catene, custodia in ambienti insalubri tali da pregiudicare la
sopravvivenza a qualsiasi essere umano) e come modalità di applicazione della pena
capitale, nei casi più gravi eseguita con complicati e crudelissimi tormenti.
Ampiamente presente sin dall'antichità e presso tutte le culture, si fece particolare ricorso
15
Per una dettagliata ricostruzione storica della tortura: Bossi, De tortura tractatus, in Tractatus Varii, ed.
Venetiis, 1570; Pansolli, Tortura, in Novissimo digesto italiano, diretto da Azara ed Eula, Torino, 1973, v.
XIX, pagg. 424 ss; Di Noto Marrella, Documenti del dibattito su tortura e pena capitale nella Lombardia
austriaca, Milano, 1977; Di Bella, Storia della tortura, Bologna, 2008.
7
all'uso della tortura anche in Europa, dal Medioevo all'età moderna, e presupponeva il
superamento di uno stadio processuale in cui sentenze e condanne erano fondate su una
serie di prove irrazionali, designate col nome di „ordalie‟.
Nel corso dei secoli furono inventati nuovi metodi di tortura, nel tentativo di rendere
quest'ultima sempre più efficace.
La tortura nel mondo greco e romano era sovente applicata come strumento giuridico
nella duplice veste istituzionale di mezzo per ottenere testimonianze valide e di strumento
di punizione.
Nel primo caso era utilizzata nei confronti degli schiavi, la cui testimonianza, a parte rare
e determinate eccezioni, non avrebbe avuto valore nel corso di un dibattimento o nelle
fasi preparatorie dell'acquisizione della prova, se non fosse estorta tramite la tortura,
essendo lo schiavo niente altro che uno strumento dotato di anima che risponde con il
proprio corpo nel momento in cui deve dare conto all'autorità.
Nel secondo caso la tortura era il metodo attraverso il quale viene applicata una condanna
a morte nei confronti degli schiavi, nonché nei confronti di cittadini liberi, ma stranieri.
Il diritto antico, nei casi in cui prevedeva la condanna a morte, ne prescriveva
l'applicazione tramite l'avvelenamento con la cicuta per i cittadini, come nel caso di
Socrate, ma consentiva che l'estremo supplizio fosse applicato con metodi violenti se il
condannato era di un'altra città.
L'antica tortura si inseriva dunque nel processo criminale per un duplice scopo: come
mezzo istruttorio di ricerca della verità e come pena a sé stante; essa serviva o per
costringere (l'imputato) a confessare un delitto o per le contraddizioni nelle quali
incorreva, per la scoperta di complici, per non so quale metafisica ed incomprensibile
purgazione dell'infanzia o finalmente per altri delitti, di cui avrebbe potuto essere reo, ma
dei quali non è accusato; si faceva quindi ricorso ad essa quando, di fronte all'esistenza di
8
gravi indizi a suo carico, l'imputato non confessava, o nel caso in cui cadesse in
contraddizioni, oppure si rifiutasse di fare i nomi dei complici: sempre, cioè, a scopo
istruttorio.
Gli ultimi due casi comprendono invece, sia la tortura come mezzo istruttorio sia quella
intesa come pena a sé stante; infatti, la cosiddetta "purgazione d'infamia" consisteva in
ciò: quando l'imputato confessava i nomi dei correi, era d'uso torturarlo per domandargli
se avesse immeritatamente infamato taluno fra essi; se egli persisteva nell'accusa, sarebbe
potuto servire da testimonio contro i correi, se avesse ritrattato, li purgava dall'infamia:
essa può quindi rettamente considerarsi un mezzo istruttorio per la ricerca della verità nel
caso in cui il reo avesse persistito nel suo atteggiamento di denuncia dei correi: era invece
una pena nei suoi riguardi qualora egli ritrattasse e purgasse l'infamia gettata su innocenti.
Analogo è l'ultimo caso, quello in cui gli indizi contro il presunto colpevole di gravi
delitti non siano sufficienti: egli viene allora torturato, e, qualora confessi il delitto, la
tortura sarà stata un mezzo istruttorio; qualora non confessi, sarà da considerarsi pena
straordinaria (cioè non prevista dalla legge), inflitta in luogo della pena capitale, di cui lo
si riteneva meritevole.
Esisteva inoltre un altro caso in cui la tortura doveva considerarsi come pena autonoma,
se pur accessoria: quello in cui essa viene adoperata nell'esecuzione della pena capitale,
allo scopo di infierire contro il reo.
Un'altra forma di tortura, sviluppatasi in Oriente e successivamente progredita nella
crocifissione, consistente sempre in una condanna a morte, è attestata da Erodoto contro
un nemico in guerra: quando gli Ateniesi, alla conclusione della seconda guerra persiana,
si dedicano a consolidare il proprio controllo sull'Asia Minore, "al comando dello
stratego Santippo figlio di Arrifrone, catturarono il governatore di Sesto, il persiano
9
16
Artaucte, e lo inchiodarono vivo ad un palo”.
17
È da ricordare inoltre una forma rituale e simbolica di tortura riferita sempre da Erodoto
in quell'episodio che vede Serse, nella veste di carnefice, comminare una flagellazione e
una marchiatura all'Ellesponto.
Nella Retorica ad Alessandro, testo erroneamente attribuito ad Aristotele e con tutta
18
probabilità di Anassimene di Lampsaco , la confessione sotto tortura è equiparata ad un
19
vero e proprio strumento di prova .
Il diritto romano d'età repubblicana distingueva la confessio in iure dalla confessio in
iudicio. La prima consisteva nel riconoscere, davanti ad un magistrato (praetor), la
fondatezza dell'intentio dell'attore. Tale procedimento equivaleva ad una sentenza di
20
condanna (confessus pro iudicato est, qui quodammodo sua sententia damnatur) ed
obbligava il convenuto a restituire la cosa litigata, dopo un'attenta valutazione della stessa
21
(ad certam quantitatem deberi confitentem pertinet) .
La confessio interrompeva così l'abituale decorso procedurale in iure, il quale doveva
compiersi di fronte ad un magistrato prima di essere sottoposto, tramite una formula, alla
sentenza dell'organo giudicante. Di tutt'altra natura era invece la confessio in iudicio, la
quale aveva lo statuto di una vera e propria prova nella procedura apud iudicem, la qual
cosa ci lascia presuppore dovesse trattarsi proprio della tortura. Che la confessio apud
iudicem non sia altro che la tortura ci viene confermato da tutta una serie di frammenti del
Digesto nel capitolo dedicato ad essa (Dig. 48.18 De Quaestionibus). Ulpiano, riferendosi
alla tortura, parla esplicitamente di confessio apud iudicem: “Si servi quasi sceleris
16
Erodoto, Storie, VII Libro, par. 33, traduzione di Rossetti, in Storie, Roma, 2008.
17
Erodoto, Storie, VII Libro, par. 35, v. nota precedente.
18
Cfr. Kennedy, The Art of Persuasion in Greece, London, 1963, pagg.113-114.
19
Aristotele, Rhetorica ad Alexandrum, traduzione di. Rackham, Cambridge, 1937, pag. 420.
20
Cfr. Dig., 42, 2, 1. Il principio è ribadito anche nelle costituzioni di Caracalla “confessos in iure pro
iudicatis haberi placet” (C., 7, 59, 1), in un frammento d'Ulpiano “nullae partes sunt iudicandi in
confitentes” (Dig., 9.2, 25, 2) e nella stessa Lex Rubria; cfr. Fiorelli, voce “Confessione”, in Enciclopedia
del diritto, vol.VIII, Milano, 1961, pagg. 864-870.
21
Cfr. L.4.C.VI.31. Sulla questione v. Pantano, “Della confessio nel diritto romano”, in Archivio giuridico,
1870, pagg. 113-123.
10
participes in se torqueantur deque domino aliquid fuerint confessi apud iudicem” (Dig.
22
48.18.1.19) . Questa si applicava generalmente agli schiavi e agli stranieri ed è forse per
questo che le fonti giuridiche d'età classica non ce ne hanno lasciato quasi testimonianza
23
alcuna, trattandosi per lo più di testi indirizzati a dei cittadini romani . L'unico principio
rinvenuto è quello secondo cui il reo è tenuto a purificarsi confessando il suo misfatto,
“reus tenetur se detegere” che indusse già Ulpiano a legittimare il ricorso alla tortura:
“inquisitio … ad eruendam veritatem per tormenta et corporis dolorem” (, Dig.
47.10.15.41).
In realtà, presso gli antichi, la tortura non ha mai goduto di una buona reputazione.
Aristotele, nella Retorica, dubitava della sua affidabilità quale mezzo di prova. “Alcuni,
scriveva, sono capaci di resistere ai tormenti più atroci senza aprire bocca, altri
24
confessano tutto e qualsiasi cosa, pur di non subire quegli stessi tormenti” . Questo
passo di Aristotele sarà ripreso tale e quale nel Digesto di Giustiniano, dove si legge che
“Questioni fidem non semper nec tamen numquam habendam constitutionibus
declaratur: etenim res est fragilis et periculosa et quae veritatem fallat. nam plerique
patientia sive duritia tormentorum ita tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo
modo possit: alii tanta sunt impatientia, ut quodvis mentiri quam pati tormenta velint: ita
25
fit, ut etiam vario modo fateantur, ut non tantum se, verum etiam alios criminentur.”
Dalle poche testimonianze che abbiamo è chiaro quindi che la tortura, in età classica, si
applicava quasi esclusivamente agli schiavi. Questi venivano tormentati al posto dei loro
22
Altri frammenti usano il termine confessio: così ai capoversi 1.1, 1.17, 1.19, 1.27, 16.1, 18.5.
23
Che la tortura, presso i romani, fosse esercitata solo su degli stranieri e su degli schiavi sembra trovare
conferma nelle pagine stesse di Valerio Massimo il quale riferisce solo di questi casi; cfr. Valerio
Massimo, Exempla, 8, 4.
24
Aristotele, The "Art" of Rhetoric, traduzione di Freese, Cambridge, 1959, pag. 162. Vedi anche Retorica
ad Alexandro, cit., pag. 346.
25
Dig.48.18.1.23. Tali considerazioni verranno riprese, in epoca moderna, da Bruni, Tractatus de indiciis et
tortura, in Tractatus universi iuris, XI.1, Venetiis, 1584, (cit. in Rosoni, Quae singula, La teoria della
prova indiziaria nell'età medievale e moderna, Milano, 1995 pag. 76), dove si lamenta che alcuni accusati
“sunt duri, ut millies torti, nihil dicant, de eo, de quo interrogantur, et plerique obdormiunt in ea”. Altri
invece “sunt ita timidi, et fragiles, et dolori impatientes, ut omnia confitentur et falsa, et quae nunquam
commiserunt”.
11
26
padroni , i quali, in qualità di cittadini romani, non potevano essere sottoposti alla
27
quaestio . Che uno schiavo venisse torturato non destava alcuna emozione; quello che ci
28
si chiedeva era piuttosto in quali circostanze questo diritto potesse essere applicato . In
una delle sue direttive, Augusto aveva ordinato di non cominciare mai i processi dalla
29
tortura; questa doveva essere accompagnata da tutt'altro genere di prove (argomenta) .
Fu poi solo a partire dal III secolo d.C. Che le autorità cominciano ad applicarla anche sui
cittadini romani. Nel 216 d.C. Caracalla l'autorizza su una donna libera accusata
d'omicidio. Costantino ne fa la prova delle prove e la estende a tutti i cittadini liberi.
La confessio in iure del diritto romano non era dunque che uno dei tanti modi di risolvere
una disputa, prima di interpellare l'organo giudicante. E' l'“homologia” di cui ci parlano i
testi greci nella sua accezione di accordo contrattuale. Essa presuppone una giustizia non
professionale, svincolata dalla funzione mediatrice e infragiudiziale del magistrato, quale
principale garante della convivenza civile.
La tortura è la confessione di una verità strappata con la forza.
Ciò non toglie che nei trattati di giurisprudenza, almeno fino alla seconda metà del
Settecento, essa conservi lo statuto di una prova. Con il cristianesimo, infatti, la
confessione diventa un sacramento, ovvero l'espiazione di una colpa. La parola
sacrementum, nel sistema delle legis actiones del diritto romano, designava il pagamento
di una scommessa (nam qui victus erat, summam sacramenti praestabat poenae nomine;
26
Cfr. Dig. 48.18.1.: “Ad tormenta servorum ita demum veniri oportet, cum suspectus est reus et aliis
argumentis ita probationi admovetur, ut sola confessio servorum deesse videatur”; Dig. 48.18.8.:
“Quaestiones neque semper in omni causa et persona desiderari debere arbitror, et, cum capitalia et
atrociora maleficia non aliter explorari et investigari possunt quam per servorum quaestiones,
efficacissimas eas esse ad requirendam veritatem existimo et habendas censeo”.
27
Dig. 48.6.7 “Idem libro octavo de officio proconsulis. Lege Iulia de vi publica tenetur, qui, cum imperium
potestatemue haberet, civem Romanum adversus provocationem necaverit verberaverit iussertue quid
fieri aut quid in collum iniecerit, ut torqueatur.”.
28
Cfr. Dig. 48.18.1. : “Divi fratres Leliano Longino rescripserunt de servo heredum non esse habendam
quaestionem in res hereditarias, quamvis suspectum fuisset, quod imaginario venditione dominium in eo
quaesisse heres videretur”.
29
Cfr. Dig. 48.18.1.: “et non esse a tormentis incipiendum et divus Augustus constituit neque adeo fidem
quaestioni adhibendam, sed et epistula divi Hadriani ad Sennium Sabinum continetur. [...] Idem Cornelio
Proculo rescripserunt non utique in servi unius quaestione fidem rei constituendam, sed argumentis
causam examinandam”.
12
30
eaque in publicum cedebat praedesque eo nomine praetori dabantur) . Con il
cristianesimo il termine assume un valore trascendentale che tuttavia non sopprime
interamente il suo attributo di penalità (poena). Tuttavia, se nel diritto romano il
sacramentum era dell'ambito della fortuna, la quale faceva vincere o l'uno o l'altro dei
contendenti, con il cristianesimo esso si umanizza assumendo i contorni dell'identità.
Questo processo avrà come primo risultato una nuova epistemologia della prova, la quale
sarà alla base dello sviluppo scientifico e tecnologico dell'età moderna.
31
Sostituita dall'istituto dell'ordalia nei secoli successivi al tramonto dell'impero romano
d'Occidente, essa ritrovò in Europa un vasto campo di applicazione giudiziaria a
cominciare dal XII sec., quando la rinascita degli studi di diritto romano la ripropose
32
all'attenzione dei giuristi .
Allo stesso risultato portò l'atteggiamento della Chiesa che, dopo un periodo di
incertezze, ammise la tortura nell'inquisizione degli eretici con la Bolla di Innocenzo IV
Ad Extirpanda, del 1252 estendendola all'inizio del XIV sec. anche ad altri processi.
La Congregazione romana del Sant'Uffizio, istituita nel 1542, utilizzò a lungo la tortura
come strumento di indagine, così come applicò largamente la pena capitale per punire i
rei di eresia. Il tipo particolare di reato perseguito, con indagini spesso scaturite da
delazioni anonime o sulla base di soli sospetti e in una sfera che raramente riguardava
comportamenti espliciti e che portava soprattutto a indagare nella coscienza del
sospettato, fece però via via emergere tra gli inquisitori l'esigenza di procedere con
grande cautela.
30
Gaius, Institutionum commentarii quattuor, 4, 13. Nella “legis actio sacramento”, l'attore doveva portare
in giudizio la cosa o la persona contestata sulla quale pronunciava, usando una bacchetta, la propria
“vindicatio” e alla quale seguiva la “controvindicatio” del convenuto. Poi l'attore sfidava l'avversario al
sacramentum, ossia a giurare in nome di Giove che la propria “vindicatio” era conforme allo ius. Colui
che perdeva la scommessa doveva pagare all'erario o cinquanta o cinquecento assi a seconda del valore
della cosa contestata.
31
Istituto processuale per effetto del quale si rimetteva alla decisione di un ente soprannaturale l'esito di una
controversia giuridica, sul presupposto che l'uomo non fosse idoneo a giudicare su un determinato fatto o
qualora l'imputato ritenesse ingiuste e al tempo stesso schiaccianti le prove che lo accusavano.
32
Sul tema Ascheri, Introduzione storica al diritto medievale, Torino, 2007.
13
Il fine del processo era quello di accertare la verità e ci si cominciò a rendere conto di
come l'uso della tortura potesse rivelarsi inefficace, portando per esempio un sospettato a
confessare una colpa qualsiasi pur di sottrarsi comunque al tormento; nello stesso tempo
la tortura poteva rivelarsi una punizione impropria per coloro che a seguito dell'indagine
fossero risultati innocenti. L'Inquisizione romana finì così con il privilegiare, senza
abolire con ciò l'utilizzo di pratiche cruente, altri metodi tesi soprattutto a esercitare
un'opera di prevenzione. Una rete di vicari inquisitoriali distribuita nei territori consentì
un'assai efficace sorveglianza; il controllo delle coscienze attraverso lo strumento della
confessione parve strumento più opportuno e redditizio.
La legislazione canonica e il sostegno dottrinale fornito dai glossatori e dai primi
trattatisti della tortura (fra i quali Accursio, Baldo degli Ubaldi e Bartolo da Sassoferrato),
fecero di questo mezzo uno strumento di uso sempre più generalizzato.
Ciò corrispondeva alle esigenze di funzionalità delle strutture politico-burocratiche degli
Stati nazionali, che in Italia corrispose al consolidamento delle signorie e dei principati.
L'attività dei criminalisti (se si sta alla lettera delle opere, fra le quali eccellono, di
produzione italiana, l'anonimo trattato De Tormentis, di scuola bolognese, e il trattato De
iudiciis et tortura steso nel 1495 da F. Dal Bruno) consisteva non soltanto a legittimare il
suo esercizio, giacché essi si preoccupavano di limitarlo e disciplinarlo, ma anche di
ricondurre la tortura a un sistema di minuziose regole procedurali.
Fu proprio attraverso questa depurazione che la tortura non appariva in contrasto con le
regole civili e morali, in quanto applicata entro uno schema di garanzie formali miranti a
giustificarla fino ad essere considerata la “regina delle prove”.
Unicum nella storia del diritto antico e medievale contro l'uso della tortura fu, nel 1311, la
sentenza contro i Templari dell'Italia settentrionale emessa da Rinaldo da Concorezzo,
vescovo di Ravenna che, assolvendo gli imputati, condannò la tortura come pratica
14
d'indagine ed escluse l'utilizzabilità delle confessioni estorte con tali mezzi.
A parte i casi di tortura esercitata a fini probatori in materia civile (per le cause originate
da delitti), la teoria della tortura elaborata sulle fonti romanistiche tra medioevo e
rinascimento si riferiva al processo criminale. Presupposto per la sua applicazione era che
fosse impossibile per il giudice accertare la responsabilità con altro mezzo.
Erano previste immunità personali (i fanciulli, gli anziani, le donne incinte, i nobili e i
giureconsulti).
La tortura poteva essere inflitta soltanto con una sentenza preliminare, appellabile da
parte dell'imputato, non avvenuta da parte di costui la “purgazione” degli indizi esistenti a
suo carico. Alla tortura si procedeva secondo le modalità prescritte nella sentenza e alla
presenza di un dello stesso giudice che ne regolava il compimento eseguito da un
carnefice. Alcuni mezzi ordinari di tortura erano: la corda (con cui si sollevava l'inquisito
legato per le mani dietro la schiena per mezzo di una carrucola); i tratti di corda (a chi era
già sottoposto alla corda veniva inflitto l'ulteriore supplizio di essere fatto cadere più
volte a terra di schianto); il cavalletto (sul quale venivano stirate le membra del torturato);
la stanghetta (che comprimeva le caviglie e i polsi); il fuoco (sul quale venivano posti i
piedi del torturato, unti di lardo); la veglia (che consisteva nell'impedire all'inquisito di
dormire per quaranta ore).
Se la tortura era applicata al testimone e questi resisteva, lo si aveva per confermato, se
invece era applicata all'imputato e questi resisteva, era dichiarato innocente e sciolto da
ogni accusa.
La confessione, confermata in tribunale in un momento successivo, era ritenuta spontanea
e giustificava la condanna; non confermata, valeva come indizio a carico dell'imputato.
Nell'età del Rinascimento la tortura era ampiamente diffusa in tutta l'Europa che
riconosceva il diritto comune (secondo il canone che ne dava la Costituzione criminale
15
carolina del 1532).
Condannata senza esitazioni anche in epoche precedenti (e in particolare da una corrente
del pensiero cristiano da Tertulliano ad Agostino), fu nei secoli XVI-XVII che la
diffusione della tortura trovò oppositori non isolati, fra i quali J. Racine in I litiganti
(1668), L. A. Muratori in Della pubblica felicità (1749) e Cesare Beccaria in Dei delitti e
33
delle pene .
Va però precisato che in linea generale gli illuministi erano generalmente d'accordo
nell'ammettere la pena di morte e la tortura per i delitti più gravi, soprattutto per
l'omicidio, fra i quali vanno ricordati anche Montesquieu, Rousseau e Feuerbach.
Di contro l'Italia risulta uno stato fertile nella produzione di testi giuridici all'avanguardia
nella condanna della pena di morte e di altre pene considerate ormai troppo crudeli oltre
34
che inefficaci .
35
Tra le opere di maggior rilievo risulta comunque il testo Dei delitti e delle pene di
36
Cesare Beccaria che inaugurò l'attività giuridico-letteraria illuministica.
Pubblicato anonimo a Livorno nel 1764, fu appena due anni più tardi tradotto e
37
pubblicato in francese da Voltaire , il quale ne scrisse un commento altamente elogiativo.
Influenzò lo scritto “Essai sur l’usage, l’abuse et les inconvenients de la torture dans la
procedure criminnelle” di Seigneux de Correvon (1768), tradotto in italiano da Orazio
Arrighi, ove si può leggere che la tortura, invece di correggere “l’imperfezione ed il vizio,
ve ne aggiunge uno più grande che è di ferire oltraggiosamente l’umanità trattando la
33
Indicazioni tratte da Storia della tortura di Giuliano Serges, pubblicato in Corsistoriadiritti, 2009,
consultabile alla pagina http://www.corsistoriadiritto.blogspot.com/.
34
Il Giornale per l’abolizione della pena di morte, pubblicato da Pietro Ellero fino al 1864 è uno dei
maggiori esempi di tali fermenti culturali appena fioriti in Italia, ma già così profondamente catalizzanti
l‟attenzione della borghesia, da essere seguiti anche da Mazzini e Garibaldi. Tra le posizioni più estreme
si ricorda la Rivista Penale pubblicata nel 1874 da Luigi Lucchini in cui si auspicò l'abolizione della pena
di morte anche per i militari.
35
Beccaria., Dei delitti e delle pene, - par. XVI, Della tortura, 1764.
36
Cesare Bonesana, marchese di Beccaria (Milano, 15 marzo 1738 – Milano, 28 novembre 1794) è stato un
giurista, filosofo, economista e letterato italiano.
37
François-Marie Arouet, più noto con lo pseudonimo di Voltaire (Parigi, 21 novembre 1694 – Parigi, 30
maggio 1778), è stato un filosofo, scrittore, drammaturgo e poeta francese.
16
creatura ragionevole e intelligente come una macchina che si può forzare con delle nuove
38
molle a produrre gli effetti ed i moti de’ quali si ha bisogno” .
Cesare Beccaria condannava la tortura senza mezzi termini, definendola come “una
crudeltà consacrata dall'uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre
si forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni
nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed
incomprensibile purgazione d'infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser
reo, ma dei quali non è accusato. [...]È un voler confondere tutt'i rapporti l'esigere che
un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo
della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile.
Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli
innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio
degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch'essi per piú d'un titolo, riserbavano ai
soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtú. Qual è il fine politico delle pene?
39
Il terrore degli altri uomini.” .
Nel suo Dei delitti e delle pene la condanna alla tortura risulta chiara e a questo fecero
40 41
eco in Italia i testi Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri e Storia della colonna
42 43
infame di Alessandro Manzoni .
Pietro Verri considerava la tortura “uno strazio crudelissimo e adoperato talora nella più
atroce maniera e che dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimoni l’inferocire
38
Traduzione dal francese di O. Arrighi, 1780.
39
Beccaria, Dei delitti e delle pene, op. cit., cap. XVI, Della tortura.
40
Verri, Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all’occasione delle unzioni
malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l’anno 1630, scritto tra il 1770 ed il 1776
e pubblicato postumo nel 1804.
41
Il Conte Pietro Verri (Milano, 12 dicembre 1728 – Ornago, 28 giugno 1797) è stato un filosofo,
economista, storico e scrittore italiano.
42
Manzoni, Storia della colonna infame, scritto verosimilmente tra il 1821 ed il 1823 (in quanto
originariamente pensato come parte del V capitolo del IV tomo dell'opera “Fermo e Lucia”, meglio noto
come i “Promessi Sposi”) e pubblicato nel 1840.
43
Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni (Milano, 7 marzo 1785-Milano, 22 maggio 1873) è
stato uno scrittore e poeta italiano.
17
come vuole”. Nel suo testo Osservazioni sulla tortura, Verri espresse una ferma critica
contro “i molti uomini d'ingegno e di cuore, i quali hanno scritto contro la pratica
criminale della tortura” prima di lui, poiché non hanno prodotto nulla di sufficientemente
valido, se non un “mormorìo confuso”, a scardinare le convinzioni di coloro i quali
44
ritenevano che la tortura fosse una pratica utile e giusta .
Il Verri prosegue specificando che “coloro che difendono la pratica criminale, lo fanno
credendola necessaria alla sicurezza pubblica [...]. Io non condanno di vizio chi ragiona
così [...]. La ragione farà conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima e crudele
45
l’adoperar le torture ”.
Nel suo Osservazioni sulla tortura, Verri analizza anche la distinzione tra tortura fisica e
tortura psicologica ovvero tra tortura-mezzo (od interrogatoria, o strictu sensu) e tortura-
fine (od esemplare, riconducibile ad una definizione di tortura latu sensu), la quale
distinzione null‟altro è che quella, di assai più immediata comprensione ed assai netta, tra
interrogatorio e pena.
Verri precisò: “col nome di tortura non intendo una pena data ad un reo per sentenza, ma
bensì la pretesa ricerca della verità co’ tormenti”; occorre, dunque, dare alla tortura un
significato ben più stretto e circoscritto, ossia quello di “tormento fisico o morale cui
viene sottoposto un individuo, allo scopo di estorcergli confessioni o dichiarazioni utili
all’accertamento di fatti non altrimenti accertabili”: su questo significato di tortura il
Verri muove le sue osservazioni, relegando la tortura-fine nel solo ambito delle pene.
Riguardo alla distinzione tra tormenti fisici e tormenti morali (o psicologici) vi è da
sottolineare, come vedremo, che i due elementi non sempre fossero (e siano) del tutto
44
Perplessità e ostilità maggiori si trovavano soprattutto in ambiente clericale in quanto la pena capitale era
prerogativa del potere temporale per il mantenimento dell'ordien costituito di volere divino. Sul punto si
rimanda alle relazioni: Lectio Magistralis Pena senza morte del Professor Mario Caravale e L'abolizione
della pena di morte in Italia di Alessandra Rinaldi ed Erika Rotatori.
45
Su questo aspetto anche Jemolo (giurista e storico italiano, 1891-1981), in Introduzione a Dei delitti e
delle pene, rilevava come “le leggi crudeli furono sempre ripetute dai giuristi che le considerarono come
un corpo formato che non doveva più venire toccato, anzi qualcuno suggerì nuovi tormenti da infliggere
agl’indiziati od ai rei”.
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separati; allo stesso modo la distinzione tra tortura-mezzo e tortura-fine non sempre era
(ed è) così netta. Mi riferisco, per quanto riguarda questa seconda affermazione,
all‟eventualità che il tormento porti a dei danni permanenti (sia sul piano fisico che su
quello psichico) che, dunque, da un lato non consentano di inquadrare la tortura come un
semplice mezzo per ottenere una confessione (una delle argomentazioni degli
illuministi,segnatamente degli utilitaristi, come abbiamo visto, si basava proprio su
questo punto), dall‟altro la portino ad assomigliare, per alcuni aspetti, al marchio
d‟infamia in quanto hanno in comune l‟irreversibilità e la pubblicità degli effetti.
Sia il Beccaria che il Verri consideravano l'uso della tortura come dettato dall'ignoranza, a
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differenze del Manzoni, il quale, nel suo scritto La colonna infame , narrando la storia
delle sevizie inflitte al Commissario della Sanità milanese, Guglielmo Piazza, accusato
nel 1630 dai suoi concittadini di essere un “malefico untore” , sottolinea come i giudici
avessero già deciso che il Piazza fosse colpevole e lo condannarono alla “regina
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torturorum ”. E' stato già osservato come il racconto de La colonna infame racchiuda in
sé tutti gli elementi tipici delle vicende di cui sovente si componeva la tortura giudiziaria
ed il Manzoni espresse abilmente il paradosso di un forzato percorso della ricerca della
“verità” preordinata, nel quale la tortura rappresentava il mezzo più proficuo.
Come anticipato, le opere esaminate aprirono la strada ad importanti riflessioni culturali e
dunque a rilevanti mutamenti sul piano giuridico nelle legislazioni nazionali ed europee
ed in particolare trovarono terreno fertile in Italia, che vanta in proposito una tradizione
d'avanguardia.
Il pensiero di Cesare Beccaria, infatti, determinò un‟imponente e feconda evoluzione
dottrinale che ebbe uno dei suoi punti di arrivo nella ben nota Scuola Classica del diritto
penale la cui speculazione si orientò secondo due tendenze principali: quella denominata
46
Manzoni, Storia della colonna infame, op. cit.
47
La tortura della corda, come veniva chiamata.
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critico-forense, prevalentemente diretta allo studio del diritto positivo e quella da Enrico
Ferri definita filosofico-giuridica che, meno indirizzata verso i sistemi positivi vigenti, si
preoccupò di studiare e gettare le basi di una giustizia penale più equa.
A quest‟ultima corrente speculativa appartiene Francesco Carrara con il quale, come
scrive Frosali, “la Scuola Classica di Criminologia raggiunge la più compiuta e più forte
48
sistemazione” .
Secondo il Carrara “il delitto non è un fatto ma un ente giuridico; con siffatta
proposizione mi parve si schiudessero le porte alla spontanea evoluzione di tutto il diritto
criminale per virtù di un ordine logico ed impreteribile. La legge morale giuridica si
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rivela all’uomo non per mezzo di fatti ma per le intuizioni del senso morale” . Se,
dunque, il reato è un ente giuridico che procede, come afferma il Carrara, “da un precetto
di Dio promulgato all’uomo mercè la legge di natura, il diritto non è più un prodotto
umano ma un’essenza trascendentale eteronoma.”
Da quanto precede deriva come corollario il concetto che la pena ha una funzione
retributiva ed il punire pertanto non è più “ un bisogno politico ma una necessità della
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legge di natura” . Le concezioni classiche così formulate presuppongono che la pena
trovi la sua giustificazione d‟essere nel principio aristotelico e teleologico
dell‟imputabilità morale del reo e quindi nel suo libero arbitrio nello scegliere il male.
Questa posizione basilare venne così ribadita da Carrara: “io presuppongo accettata la
dottrina del libero arbitrio e dell’imputabilità morale dell’uomo, e su questa base
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edificata la scienza criminale che mal si costruirebbe senza di quella” . All'applicazione
della pena però, il Carrara ritenne che si dovesse ripudiare il concetto classico di pena
intesa come retribuzione o taglione morale e che si dovesse invece tendere, come
48
Frosali, Sistema Penale Italiano, Torino, 1958, vol. I, pag. 21.
49
Carrara, Programma del corso di diritto criminale, VI ediz. 1886, pag. 21.
50
Carrara, Opuscoli di diritto criminale, vol. I, Prato, 1878, pag. 252.
51
Carrara, Programma del corso di diritto criminale, op. cit., pag. 34.
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sosteneva Lombroso con la sua teoria della simbiosi , al riadattamento sociale del reo ed
al suo recupero a vantaggio della società.
In un sistema penale moderno, pertanto, non potevano trovare posto la tortura e la pena di
morte perché la prima è il mezzo più sicuro “di assolvere i robusti scellerati e di
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condannare i deboli innocenti” , mentre la seconda può essere considerata, come con
fine sarcasmo scrive Beccaria, “un’inutile prodigalità di supplizi che non ha mai reso
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migliori gli uomini” .
Un esempio eclatante dell'influenza del pensiero dei giuristi illuministi avvenne proprio
in Toscana, dove il 30 novembre 178655, epoca in cui il granduca Pietro Leopoldo
approvò la più celebre Legge mai emanata in Italia, il più moderno codice penale del
Settecento in Europa. Con questa riforma non solo si abolirono per la prima volta la pena
di morte, la tortura ed il reato di lesa maestà, imponendo inoltre ai Giudici la massima
possibile sollecitudine nei processi e fu istituito anche un fondo per indennizzare le
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persone ingiustamente processate .
Esemplare il Proemio al Codice leopoldino di cui se ne riporta un passo: “Con la più
grande soddisfazione del Nostro paterno cuore Abbiamo finalmente riconosciuto che la
mitigazione delle pene congiunta con la più esatta vigilanza per prevenire le reazioni, e
mediante la celere spedizione dei Processi, e la prontezza e sicurezza della pena dei veri
Delinquenti, invece di accrescere il numero dei Delitti ha considerabilmente diminuiti i
più comuni, e resi quasi inauditi gli atroci, e quindi Siamo venuti nella determinazione di
non più lungamente differire la riforma della Legislazione Criminale, con la quale
abolita per massima costante la pena di Morte, come non necessaria per il fine
52
Lombroso, L’uomo delinquente, 5a ed. Torino, 1897, vol. III.
53
Beccaria, Dei delitti e delle pene, op. cit., pag. 68.
54
Beccaria,Dei delitti e delle pene, op. cit., pag. 79.
55
C.d. Codice leopoldino o Leopoldina, emanato il 30 novembre 1786. In Vinciguerra (a cura di), Diritto
penale dell'ottocento. I codici preunitari e il codice Zanardelli, Milano, 1993.
56
Sul tema Da Passano, La pena di morte nel Regno d'Italia, 1859-1889, in Vinciguerra (a cura di), Diritto
penale dell'ottocento, op. cit., pag. 592 ss..
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