7
Introduzione
È indubbio che negli anni recenti l‟organico delle aziende sia diventato sempre più
eterogeneo, in termini di genere, cultura, origine, ecc., pertanto anche il tema della gestione
delle risorse umane in ottica “diversity” è cresciuto di importanza.
Prima di entrare nel merito della teoria del diversity management è bene introdurre il tema
cercando di capire e quindi analizzare i motivi che hanno portato a dare sempre più
importanza alla diversità nella gestione delle risorse umane:
il passaggio da un‟economia industriale ad un‟economia di servizi: i lavoratori del
settore dei servizi operano in stretta relazione con il cliente, e proprio da questa
interazione deriva il successo imprenditoriale. Quindi essi devono essere in grado
di leggere i bisogni dei loro clienti e creare con loro delle relazioni empatiche,
anche quando questi fanno parte di minoranze. Infatti più i lavoratori sono simili ai
clienti meglio possono comunicare tra loro;
la globalizzazione dell‟economia: nei mercati globalizzati bisogna mitigare
esigenze di consumatori molto diversi nelle abitudini e negli stili di vita. Avere
nell‟organico individui che rappresentano i diversi gruppi identitari che formano la
società permette di servire meglio i differenti segmenti di consumatori;
l‟affermazione di modelli organizzativi per team: per avere successo nel mondo
globalizzato, le aziende devono mirare a strategie che richiedono competenze
plurime, creando gruppi multifunzionali e sviluppando al massimo la diversità;
le alleanze e le fusioni internazionali: sempre di più nel mercato globalizzato
fusioni e alleanze internazionali chiedono a culture diverse di operare insieme, di
conseguenza, le organizzazioni devono imparare a gestire al meglio le diversità;
i cambiamenti nel mercato del lavoro: è palese che in tutte le nazioni sviluppate
negli ultimi anni la composizione dell‟organico è cambiata (più culture
compresenti), pertanto gli organici aziendali tendono fisiologicamente a diventare
compositi in termini di culture, religioni, lingue e stili comportamentali dei
dipendenti.
Dal quadro fornito si evince che la valorizzazione delle differenze culturali sta diventando
sempre più uno strumento fondamentale per il successo competitivo di un‟organizzazione. Da
8
parte delle aziende la presa di coscienza di questi trend emergenti e della conseguente
importanza della diversità sono solo un primo passo. Per porre in essere azioni finalizzate a
favorire una composizione multi-identitaria dell‟organico è bene intraprendere azioni diversity
oriented come leve di gestione dell’HR diversity management. A tal proposito, la letteratura
pone alla base delle suddette azioni una comunicazione adeguata che permette di contattare i
diversi gruppi sociali; politiche di recruiting per incrementare la diversità della forza lavoro
1
;
corsi di formazione per diffondere ed enfatizzare i valori della multiculturalità e i modelli
comportamentali dei differenti gruppi identitari; la mobilità interna per far conoscere meglio
le diverse popolazioni aziendali; il career development per incoraggiare i lavoratori nella
progressione di carriera attraverso una continua formazione; il mentoring per far sì che i
dipendenti appartenenti alle minoranze vengano affiancati da un senior manager ed informati
delle opportunità di carriera.
La creazione di una forza lavoro variegata passa attraverso un percorso ricco di ostacoli,
che richiedono un‟opportuna gestione. I principali riduttori di produttività connessi al
diversity sono:
la resistenza da parte di alcuni lavoratori a operare con persone che appartengono a
gruppi etnici, culturali o razziali differenti;
la frustrazione causata da persone che parlano altre lingue sul luogo di lavoro
emarginando quelli che non le conoscono;
le limitate interazioni sociali tra i membri di gruppi diversi;
la demotivazione a causa dei favoritismi percepiti nei confronti dei gruppi
maggioritari;
la problematicità nella retention e nella selezione di persone facente parte dei
gruppi minoritari;
la scarsa partecipazione alle riunioni aziendali da parte delle persone dei gruppi
minoritari.
Per minimizzare al massimo gli effetti negativi delle diversità sulla produttività aziendale,
le imprese dovrebbero offrire una risposta differenziata a ciascun gruppo identitario, dopo
1
Per esempio attraverso l‟individuazione di profili diversificati e job description ad hoc per accogliere e attrarre
le diversità.
9
aver segmentato la forza lavoro nei differenti gruppi individuati: gruppi di cultura, di genere,
di età, di abilità.
Nelle pagine successive, quindi, verranno presi in esame non solo il diversity management
con il suo percorso storico, gli ostacoli di applicazione e i limiti che ne conseguono, ma verrà
anche suggerito un modello di formazione alla luce del caso Deutsche Bank spa.
10
Capitolo I
Perché il Diversity Management
11
1. Storia del diversity management
Il diversity management nasce verso la fine degli anni Ottanta negli Stati Uniti, “crogiolo
razziale per antonomasia […]”
2
, come approccio allo studio delle diversità presenti in
impresa. Le aziende che operano negli Stati Uniti sono infatti le prime a pensare alla
questione di come valorizzare i lavoratori che appartengono a razze, religioni, culture e
background differenti. È proprio in questo Paese che le organizzazioni hanno cominciato a
porsi il problema di come motivare, gestire e coordinare un organico così eterogeneo come
quello presente nelle imprese americane, e di come valorizzare e trattenere i migliori talenti
appartenenti a gruppi di culture diverse.
Anche in altri paesi dell‟Occidente si sono mossi i primi passi in direzione di questa teoria
manageriale, mentre nei Paesi in Via di Sviluppo, siccome la maggior parte delle persone
deve ancora riuscire a soddisfare i bisogni primari, la gestione delle diversità non risulta
ancora essere un argomento degno di attenzione.
La tesi dalla quale prende avvio la pratica del diversity management è che un‟impresa
“multiculturale” gode di molta più ricchezza in termini di capitale e potenziale umano,
rispetto ad un‟impresa “monoculturale”.
Nella società emerge in maniera prorompente la necessità di individuare modelli culturali
ed istituzionali efficaci, che sappiano offrire risposte diversificate alle complesse e variegate
domande che derivano dai differenti segmenti della popolazione. Come generalmente accade,
i fenomeni che emergono dalla società civile, influenzano le aziende, di conseguenza anche la
crescita delle differenze all‟interno della società si riverberano prontamente in una crescita
delle differenze nelle organizzazioni.
Quando i dipendenti entrano in azienda, portano con se le loro preferenze, la loro cultura e
i modelli comportamentali del loro gruppo identitario. È indubbio che negli ultimi anni la
forza lavoro è diventata sempre più composita, in termini di genere, cultura, abilità, ecc.
Nei contesti aziendali cresce la domanda di modelli manageriali e gestionali che sappiano
far fronte alle crescenti diversità che si annotano tra i lavoratori, pertanto la teoria manageriale
ha prodotto uno strumento denominato diversity management, che Aureli definisce come
[…] un approccio alla gestione delle risorse umane, nato alla fine degli anni Ottanta,
nell‟ambito degli studi di Human Resource Management, che attribuisce alle persone il
2
www.managerzen.it/Parliamo/diversita/diversity.htm
12
ruolo di fattore di impulso e sviluppo del sistema aziendale e vede nel rispetto e
valorizzazione delle risorse umane la via maestra per conseguire una maggiore
competitività e un solido consenso sociale (le basi su cui poggia la sopravvivenza
duratura dell‟azienda)
3
.
Si verifica nell‟ambito dello human resources management (HRM) un graduale
ripensamento delle politiche di gestione e sviluppo del personale. La valorizzazione del
capitale umano non era infatti mai stata l‟obiettivo primario per le imprese orientate
essenzialmente ai risultati economici.
Infatti è il capitale umano ad esser necessariamente sempre più centrale, le persone sono e
diventeranno sempre più la risorsa determinante per l‟impresa, perché portatori di conoscenza.
Nasce allora negli Stati Uniti un nuovo culto, il diversity management. Da questo contesto
deriva l‟esigenza per le grandi imprese americane di dotarsi di sistemi di gestione delle
persone che tengano conto delle evidenti mutazioni presenti nella forza lavoro. Ci si rende
conto della necessità di politiche del personale che siano diversificate il più possibile, e che
riescano nel difficile compito di impiegare la diversità come valore strategico.
In questa direzione alla fine degli anni Ottanta si sviluppa un approccio innovativo allo
human resources management che prende il nome di diversity management, che consiste in
una metodologia di gestione, utile a comprendere le differenze distintive tra i diversi gruppi di
lavoratori, al fine di tramutarle in un vantaggio competitivo. Ci si riferisce, dunque, ad un
approccio diversificato alla gestione delle risorse umane, il cui intento è la realizzazione di un
ambiente di lavoro inclusivo, che permetta ai membri dei diversi gruppi sociali di sviluppare
al meglio le proprie potenzialità perseguendo l‟interesse dell‟organizzazione.
Si può definire il diversity management come lo sviluppo attivo e consapevole di un
processo gestionale che mira a generare vantaggio competitivo, mediante una strategia di
accettazione del diverso includendolo nei processi di generazione del valore.
Mentre il tema dell‟uguaglianza è da tempo cristallizzato nella dottrina delle Pari
Opportunità “(equal employment opportunity – EEO)”
4
o politiche positive “(affermative
action”)
5
, il concetto di diversità invade le organizzazioni americane verso la fine degli anni
Ottanta, quando vengono resi noti i dati sulla composizione etnica della forza lavoro
statunitense. Tali dati spingono le maggiori organizzazioni ad una revisione radicale “[…]
delle proprie politiche di gestione delle risorse umane, ormai totalmente obsolete nei confronti
3
Aureli S., La gestione delle differenze culturali nell‟attività d‟impresa, Torino, G. Giappichelli Editore, 2008, p.
145.
4
P. Castellucci, A. Martone, E. Minelli, G. Rebora, L. Traquandi, Diversity Management. La diversità nella
gestione aziendale. Milano, Wolters Kluwer Italia s.r.l., 2009, p. 12.
5
Ibid., p. 12.
13
di una forza-lavoro sempre più eterogenea, sia culturalmente che etnicamente”
6
. Nasce in
questo contesto il nuovo concetto di diversity management, “ […] termine con cui si indica
generalmente l‟adozione di politiche del personale segmentate e customizzate sulle necessità
ed i bisogni degli individui”
7
.
Le politiche per le pari opportunità o le politiche positive sono regolamentate dalla legge e
obbligatorie per tutte le aziende, per affermare dei valori universali rimediando passate
ingiustizie verso la considerazione dell‟uguaglianza della forza lavoro. Il principio è quello di
tutelare tutte le situazioni che di fatto generano discriminazione. Le principali azioni positive
si riducevano all‟introduzione di quote riservate alle minoranze, con il rischio di creare quello
che alcuni studiosi definiscono “stereotipo di secondo livello”.
Invece le politiche di diversity si riferiscono a scelte fatte in autonomia da parte delle
imprese per capitalizzare reddito, produttività e successo competitivo. Vero è che il diversity
management tendenzialmente si sviluppa meglio in un contesto morale e legislativo che lo
favorisce. In altri termini l‟etica e le leggi anti-discriminazione sono il mezzo per creare un
clima favorevole al riconoscimento dei diritti delle minoranze sui luoghi di lavoro, da cui poi
si sviluppano più verosimilmente le pratiche di diversity management. La gestione delle
diversità non si limita a poche azioni di inclusione delle minoranze nelle aziende, ma diventa
un interesse dell‟impresa per conseguire un successo e un vantaggio competitivo.
La letteratura parla di tre tappe o fasi di sviluppo che hanno caratterizzato l‟evoluzione del
diversity management:
1. (1950-1970) la prima fase evolutiva coincide con la risposta da parte delle aziende
alle pressioni delle forze sociali e dei governi nazionali che richiedevano la tutela
del diritto al lavoro delle minoranze etniche e delle donne. In questa tappa il
diversity management viene inteso come alternativa ad una politica legislativa di
tipo assistenziale e garantista. Quest‟ultima mira a garantire una condizione di
uguaglianza nei contesti di lavoro, obbligando le aziende a trattare tutti i lavoratori
nel medesimo modo, ma rischiando da un lato di privilegiare alcune specifiche
categorie di soggetti con particolari problemi ed esigenze, senza assicurarsi che essi
possiedano competenze e capacità professionali adatte; dall‟altro di provocare tra la
maggioranza dei lavoratori la percezione di sottostare ad una specie di
discriminazione al contrario. Invece il diversity management non ricerca
6
www.tesionline.it/default/tesi.asp?idt=9103
7
Ibid.
14
l‟uguaglianza a tutti i costi, ma verte verso il rispetto delle diversità garantendo pari
opportunità;
2. (1970-2000) la seconda fase evolutiva è caratterizzata da imperativi morali, etici ed
economici delle imprese, non più quindi da un obbligo politico esterno alle aziende.
In questa tappa il diversity management considera ogni individuo diverso dagli altri
(non si considera più solo la differenza di genere ed etnica, ma ogni tipo di
diversità) e mira a valorizzare questa differenza di cui è portatore ogni lavoratore
affinché il suo benessere si traduca in un beneficio per l‟azienda;
3. (2000-a oggi) la terza fase evolutiva si collega a ragioni meramente economiche.
Nel mondo globalizzato le imprese devono saper differenziare i propri prodotti e
servizi per poter rispondere ai bisogni sempre più diversi dei clienti. Possedere una
manodopera eterogenea permette alle aziende di rispecchiare e quindi di
comprendere i bisogni di clienti differenti. In questa tappa il diversity management
mira a tirare fuori il meglio da ogni dipendente, in modo da massimizzare la
competitività delle imprese e il raggiungimento del profitto.
Si può dire quindi che il diversity management ad oggi si rappresenta come
[…] una filosofia gestionale che, passando necessariamente per la valorizzazione delle
differenze, si traduce nella definizione delle politiche e pratiche manageriali utili a gestire
la diversità delle persone in modo efficace ed efficiente, cosicché tali persone possano
dare il loro contributo al raggiungimento degli obiettivi aziendali
8
.
8
Aureli S., La gestione delle differenze culturali nell‟attività d‟impresa, Torino, G. Giappichelli Editore, 2008, p.
151.
15
2. Definizione di cultura
Come ha evidenziato la sua evoluzione storica, il diversity management pone al centro del
dibattito che lo alimenta, il tema della gestione delle differenze culturali in un contesto
lavorativo inclusivo. Prima di andare ad analizzare le suddette differenze bisogna in primo
luogo capire che cosa si intende per cultura.
Innanzitutto è bene citare la definizione che ne riporta il “Vocabolario della Lingua Italiana
Lo Zingarelli”:
Complesso di cognizioni, tradizioni, procedimenti tecnici, tipi di comportamento e sim.,
trasmessi e usati sistematicamente, caratteristico di un dato gruppo sociale, di un popolo,
di un gruppo di popoli o dell'intera umanità: si può descrivere una data cultura da molti
punti di vista diversi; i vari aspetti della cultura moderna; la diffusione della cultura │
Cultura materiale, l'insieme delle realizzazioni e delle attività tecniche, pratiche e
lavorative di un popolo o di un dato gruppo sociale │ (per anton.) Il complesso delle
tradizioni scientifiche, storiche, filosofiche, artistiche, letterarie di un dato popolo o
gruppo di popoli: la cultura orientale, europea, francese.
9
Dalla definizione risulta evidente che la cultura è qualcosa che appartiene a un dato gruppo
sociale, piccolo o grande che sia, il quale si riconosce in essa e agisce seguendone i principi.
Viene inoltre sottolineato il fatto che tali principi vengono trasmessi e quindi appresi dai
componenti del gruppo stesso, con ciò risulta chiaro che la cultura non può essere ereditata,
non fa parte del nostro patrimonio genetico, come il colore della nostra pelle, ma viene
acquisita da ogni essere umano dal momento della nascita e per tutto l‟arco della sua vita. Da
ciò si desume che tutti gli esseri viventi al momento della nascita potrebbero far propria
qualsiasi cultura, di conseguenza ciò che differenzia la cultura di un individuo da quella di un
altro è il gruppo di cui fa parte e che contribuisce alla sua formazione.
Per sviluppare al meglio questo pensiero è bene chiamare in causa Hofstede. Egli nel
descrivere il concetto di cultura paragona l‟essere umano ad un cervello elettronico il quale è
soggetto ad una programmazione, esattamente come un computer. Questa programmazione,
detta Human Mental Programming, dipende da tre differenti variabili (Human Nature,
Culture e Personality) ed ha inizio dal momento della nascita; egli a tal proposito scrive:
An individual human being acquires most of her or his programming during
childhood, before puberty. In this phase of our lives we have an incredible capacity for
9
Zingarelli Nicola, Vocabolario della Lingua Italiana Lo Zingarelli, Bologna, Zanichelli Editore, 2010.
16
absorbing information and following examples from our social environment: our parents
and other elders, our siblings and playmates. But all of this is constrained by our physical
environment: its wealth or poverty, its threats or safety, its level of technology. All
human groups, from the nuclear family to society, develop cultures as they go. Culture is
what enables a group to function smoothly.
10
In maniera particolare qui Hofstede descrive la variabile culturale come ciò che viene
acquisito durante l‟infanzia e trasmessa dal gruppo di appartenenza, che va dal nucleo
familiare all‟intera società. La cultura, frutto di un insieme di persone, è ciò che permette agli
individui di interagire in maniera armoniosa senza entrare in conflitto.
La cultura, come si è già evidenziato, non si eredita e viene posta al centro della piramide
che Hofstede usa per rappresentare ciò che egli chiama Human Mental Programmig (vedi
figura 1). Alla base di tale piramide viene posta la natura umana (Human Nature), ovvero
l‟aspetto genetico, ereditario che riguarda tutta l‟umanità, costituito dalle funzioni biologiche
specifiche del corpo umano. Questo costituisce la base su cui poggia la cultura (Culture), essa
infatti viene definita dallo studioso come “the collective programming of the mind that
distinguishes the members of one group or category of people from others”
11
, essa è sempre
un fenomeno collettivo al cui interno si muovono i singoli individui nella loro unicità, ovvero
con la loro personalità. Infatti, quest‟ultima la troviamo in cima alla piramide (Personality) ed
è ciò che realmente distingue un individuo dall‟altro, parte personale della programmazione
umana, sia acquisita che ereditata.
10
www.geerthofstede.nl/culture.aspx
11
Hofstede, G.. Dimensionalizing Cultures: The Hofstede Model in Context. Online Readings in Psychology and
Culture. International Association for Cross-Cultural Psychology, (Unit 17, Chapter 14), 2009.
17
Figura 1 – Human Mental Programming - Hofstede
Fonte: www.solvay.edu/EN/Programmes/international/documents/WUculture.pdf
L‟essere umano, quindi, esattamente come un computer viene programmato dalla cultura
di un determinato gruppo e ciò significa che acquisisce specifici modi di agire che
rispecchiano le regole del gruppo stesso. Tali regole possono essere definite come l‟insieme di
risposte che una determinata società, intesa come gruppo di persone, dà a quelle
problematiche che si ritrova ad affrontare nella quotidianità. L‟individuo normalizza questi
modi di agire a tal punto da diventargli naturali così come gli è l‟atto di respirare. Quindi, di
norma, la persona non è consapevole del procedimento che si cela dietro ad ogni suo
comportamento, essendo quest‟ultimo automatizzato. Se per un italiano mangiare gli spaghetti
con la forchetta è talmente normale da non doversi porre il problema di come farlo, allora
possiamo dire che per lui usare la forchetta diventa un atto inconsapevole come lo è il
Universal Human Nature Inherited
Specific to group or category Culture Learned
Unique to Individual Personality Inherited and learned
18
respirare. Da ciò ne consegue che il concetto di cultura è strettamente connesso al concetto di
normalità. Di fronte al problema di mangiare per un italiano è normale rispondere con la
forchetta, mentre per un cinese è normale utilizzare le bacchette. La ragione di tale differenza
giace nella cultura e dai comportamenti che essa influenza. I comportamenti rappresentano
l‟immagine esplicita della cultura stessa e nel paragonare la cultura ad un iceberg, essi ne
rappresentano solo la parte visibile.
Figura 2 – Modello dell’iceberg
Fonte: mia elaborazione.
Il modello dell‟iceberg evidenzia la natura della cultura a più livelli. Questo individua
un‟area visibile e un‟area sommersa, ovvero non pienamente esplicita. La consapevolezza
dell‟esistenza di quest‟ultima, infatti, è condizionata dal grado di attenzione che viene posto
Behaviours
Beliefs
Values and thought
patterns
Comportamenti
Credenze
Valori e modelli di
pensiero
19
nell‟osservare e nello studiare il livello visibile. Il comportamento, quindi, rappresenta
l‟aspetto empirico della cultura, prodotto dall‟insieme delle credenze e dai valori che
rimangono spesso inconsapevoli.
Hall, a questo proposito, compara la cultura ad un meccanismo invisibile che controlla i
nostri pensieri e comportamenti confinandoli all‟interno di modelli di riferimento definiti
culturalmente accettabili. Questi modelli vengono talmente interiorizzati da rimanere inconsci
e quindi invisibili, fino a quando non vengono messi alla prova nel confronto con un‟altra
cultura. Infatti, è proprio nel contatto tra due culture differenti che ci si rende conto
dell‟esistenza di questi modelli e del meccanismo da cui scaturiscono.
Così facendo, Hall pone l‟accento sull‟aspetto arbitrario della cultura:
Culture has always dictated where to draw the line separating one thing from another.
These lines are arbitrary, but once learned and internalised they are treated as real. In the
West a line is drawn between normal sex and rape, whereas in the Arab world is much
more difficult, for a variety of reasons, to separate these two events.
12
Dalle parole di Hall si evince che quando due culture entrano in contatto si scontrano sul
concetto di “normalità”. Infatti, se per un occidentale lo stupro è qualcosa da condannare, non
lo è altrettanto per un arabo. Quindi il proprio modello culturale non influenza soltanto il
proprio comportamento, ma condiziona anche l‟interpretazione del comportamento altrui,
come evidenzia Spencer-Oatey:
Culture is a fuzzy set of attitudes, beliefs, behavioural norms, and basic assumptions and
values that are shared by a group of people, and that influence each member's behaviour
and his/her interpretations of the "meaning" of other people's behaviour.
13
L‟inserimento dell‟aspetto interpretativo all‟interno del concetto di cultura è importante
perché evidenzia la funzione che essa svolge nella vita di tutti i giorni nell‟interazione tra le
culture.
Il contributo di Spencer-Oatey non si ferma qui, ella infatti arricchisce il famoso modello
di Hofstede che vede la “cultura” rapresentata come una cipolla: “a system that can be peeled,
12
Hall Edward T., The Dance of Life: the Other Dimension of Time, Garden City, N.Y., Anchor
Press/Doubleday, p. 230, 1983, in Dahl Stephan, Intercultural Research: The Current State of Knowledge,
Middlesex University-Business School London, p. 3, 2004.
13
Spencer-Oatey, H. Culturally Speaking: Managing Rapport Through Talk Across Cultures, London,
Continuum, p. 4, 2000, in Dahl Stephan, Intercultural Research: The Current State of Knowledge, Middlesex
University-Business School London, p. 4, 2004.
20
layer by layer, in order to reveal the content”
14
. Egli colloca al cuore della cipolla i valori, che
definisce come l‟anima della cultura, ovvero la parte non direttamente osservabile, e quindi
più difficile da comprendere e da modificare, in quanto appresi durante l‟infanzia, nonché
base delle differenze culturali. Questo nucleo è seguito da tre strati che rappresentano, invece,
i tre aspetti della cultura maggiormente osservabili:
riti: rappresentano delle modalità di comportamento collettivo che favoriscono la
convivenza sociale;
eroi: sono persone che fungono da esempi di comportamento;
simboli: sono tutti quegli elementi che assumono un particolare significato solo per
coloro che appartengono a quella specifica cultura.
Le pratiche abituali si collocano in maniera trasversale su questi tre strati.
Ancor prima di Spencer-Oatey, Trompenaars e Hampden-Turner presentano un modello
simile a quello di Hofstede arricchendo l‟anima della cipolla con uno strato più interno che si
colloca alla base dei valori, costituito dagli assunti di base che gli studiosi descrivono come
[…] the series of rules and methods which a society has evolved to deal with the regular
problems that face it. This problem solving become so basic that, like breathing, we no
longer think about how we do it. We refer to these unconscious solutions as basic
assumptions.
15
Proprio qui si colloca il contributo di Spencer-Oatey. Ella propone nel suo modello una
combinazione di assunti di base e di valori come cuore della cultura. Nello strato successivo
pone credenze, attitudini e convinzioni, le quali influenzano il seguente livello formato da
sistemi e istituzioni, che a loro volta condizionano l‟ultimo e più esterno. Qui la studiosa
colloca da una parte gli artefatti e i prodotti (manifestazioni culturali di carattere non
comportamentale), dall‟altra i rituali e il comportamento (manifestazioni culturali di carattere
culturale). Il lavoro di Spencer-Oatey non solo arricchisce il concetto del cuore di cultura con
la sua duplice rappresentazione (valori e assunti di base), ma introduce inoltre un ulteriore
aspetto che vede le attitudini, le credenze e le convenzioni comportamentali porsi tra lo strato
più interno e i successivi prodotti culturali.
14
Dahl Stephan, Intercultural Research: The Current State of Knowledge, Middlesex University-Business
School London, p. 5, 2004.
15
Trompenaars Fons, Resolving International Conflict: Culture and Business Strategy, London Business School,
vol. 7, n. 3, p. 52, 1996.