iii
fattori sociali e culturali della malattia; dall’altra, invitando la
biomedicina a considerare modelli terapeutici attenti più al “sistema”
che genera la sofferenza che al tentativo, spesso fallimentare, di
eliminazione del singolo sintomo di cui l’individuo è portatore.
Accanto ad un’analisi critica delle debolezze proprie alla diagnostica
psichiatrica, quindi, il mio lavoro propone una sorta di inversione di
prospettiva rispetto al consueto sguardo biomedico cui siamo stati
abituati, nel tentativo di identificare (e non isolare) il sistema che fa da
sfondo (e che conferisce senso) alla creazione delle dinamiche di
malessere. La teoria contenuta nel presente lavoro non ha la pretesa di
essere un modello o una spiegazione della Verità sull’infermità psichica
e sul DOC, quanto piuttosto una costruzione di carattere ipotetico il cui
scopo è proporre una lettura provvisoria, antropologicamente orientata,
di un fenomeno come il disturbo ossessivo compulsivo.
La debolezza della diagnostica psichiatrica si evidenzia a partire dalle
più recenti edizioni del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of
Mental Disorders), la terza e la quarta, riflesso della supremazia di una
precisa tendenza teorica sulle altre: il manuale diagnostico, strumento
imprescindibile per le scienze che indagano la psiche, è un prodotto
della scuola di pensiero di matrice statunitense o, più esattamente, il
risultato di una tradizione inaugurata dall’orientamento krapeliniano, la
cui struttura tassonomica sembra essere stata ripresa nella stesura del
DSM III e IV (Martínez Hernáez 2000: 252-3). Il DSM III si distingue
per il suo tono fortemente moralizzante, di chiara impronta puritana: si
legge così di un disturbo antisociale i cui sintomi consisterebbero nella
iv
violazione di norme sociali, e nella difficoltà di adattamento alle
condotte “normalizzanti”, con riferimento ad eventualità del tipo “non
ha mantenuto una relazione totalmente monogama per più di un anno”
(Martínez Hernáez 2000: 258). Sotto le pressanti critiche dell’ambiente
antropologico il DSM IV si è di fatto arricchito di un’apparente
impronta culturale, introducendo nelle proprie classificazioni disturbi
ritenuti specifici di alcune tradizioni: l’Amok (Malesia), l’Ataque de
Nervios (America Latina), il Dhat (Cina), il Koro (Asia meridionale), il
Latah (Asia e Siberia), il Susto (America centro-meridionale), il culto
Zar (Nord Africa), etc.
Ma la vera innovazione contenuta nel quarto manuale diagnostico dei
disordini mentali è relativa all’impegno di non classificare i soggetti
affetti da determinate malattie, bensì di limitarsi a classificare i mali;
pertanto si parlerà di una persona dipendente dall’alcool, e non di un
alcoolista; di un individuo affetto da schizofrenia e non di uno
schizofrenico; di un soggetto affetto da DOC (disturbo ossessivo-
compulsivo), e non invece di un nevrotico ossessivo. L’ultima edizione
del DSM, dunque, introduce una distinzione tra l’essere malati e l’avere
una malattia in ambito psichiatrico
1
: l’avere una malattia comporta
sicuramente una minore stigmatizzazione sociale, rispetto all’essere un
nevrotico, un depresso, o uno schizofrenico, espressioni che facilmente
richiamano la più popolare “essere matto”. L’essere, come fa notare
ancora Martinez Hernáez, è tradizionalmente legato alle malattie di
ordine biologico, e che presuppongono una cronicizzazione –si dice
1
Prima della pubblicazione del DSM IV si era inclini a descrivere una persona in stato febbricitante come
“uno che ha la febbre”, mentre di una persona con diagnosi di schizofrenia si diceva che “è
schizofrenico”.
v
infatti “essere un diabetico”, “essere un iperteso”– oltre che rimandare
alla sfera mentale dell’individuo, mentre l’avere rimanda a quella del
soma. Nonostante simili apporti innovativi, il DSM IV, come le sue
precedenti versioni, tratta ancora le espressioni soggettive di malessere
alla stregua di categorie oggettive dalla presunta universalità. Di fatto,
nella maggior parte del proprio lavoro clinico, lo psichiatra incontra
manifestazioni di dolore, più che inequivocabili segni fisici del
medesimo; comportamenti ed espressioni di malessere che sono, in
ultima analisi, realtà linguistiche e culturali.
Nel primo capitolo ho cercato di sintetizzare quelle che a mio
avviso sono le caratteristiche attualmente più salienti della
biopsichiatria, nonché i punti di forza del modello biomedico
occidentale, vale a dire la sempre maggiore medicalizzazione delle
condotte e degli stati d’animo che contravvengono le norme sociali
vigenti. Una simile analisi non poteva prescindere dagli studi del
filosofo francese Michel Foucault sulla storia della medicina e,
soprattutto, sulla psichiatria quale prodotto della cultura occidentale
(un’etnopsichiatria, dunque), evolutasi di pari passo con il potere
religioso e statale; sugli attuali luoghi della medicina, intesi quali
organismi periferici di un sistema deputato alla correzione, conformità
morale e controllo sociale; infine, sulla vicendevole implicazione tra
potere e conoscenza, laddove il potere, appannaggio dei meccanismi
statali di controllo, si inscrive sui corpi, disciplinandoli.
Nel secondo capitolo ho preso in esame le nozioni di normale ed
anormale tanto care alle scienze della psiche, accostandole ai concetti di
natura e cultura propri invece di un discorso antropologicamente
vi
orientato. Ho cercato inoltre di evidenziare in che modo la biomedicina
abbia escluso dal proprio sapere la dimensione culturale dell’essere
uomo, e di come, invece, l’indagine etnomedica abbia, in questi ultimi
anni, invitato ad una revisione della nosografia psichiatrica occidentale.
Soprattutto, ho tentato di considerare la definizione ufficiale di malattia
mentale in relazione alla nozione occidentale del Sé e della persona,
partendo dal presupposto che si tratta di rappresentazioni culturali,
apprese attraverso i rapporti e le relazioni sociali, pertanto anche
attraverso il sapere medico, il quale attualmente in Occidente orienta
gran parte della conoscenza intorno all’essere umano.
La seconda parte della tesi si apre con il terzo capitolo, dedicato
alla presentazione del disturbo ossessivo compulsivo, così come viene
concettualizzato dalla biopsichiatria, ed alle motivazioni che mi hanno
indotto a scegliere questo argomento quale oggetto della mia tesi.
Il DSM IV distingue la personalità ossessiva in base alla
preoccupazione per l’ordine, al perfezionismo, al controllo mentale ed
interpersonale; all’eccessiva attenzione per i dettagli, le liste, le
organizzazioni e gli schemi, sino a perdere di vista lo scopo principale
dell’attività; all’eccessiva dedizione al lavoro ed alla produttività, sino
ad escludere gli affetti e gli svaghi; all’esagerata moralità e scrupolosità;
all’incapacità di gettare oggetti consunti, di nessun valore, meno che
mai affettivo; alla riluttanza a delegare compiti, a lavorare con altri;
all’avarizia, poiché il denaro viene accumulato in vista di imminenti
catastrofi (Giusti & Rosa 2002: 170).
Da un punto di vista antropologico, il DOC si rivela particolarmente
interessante poiché si tratta di un disturbo strettamente connesso
vii
all’ambito morale, etico e religioso, che si dispiega a partire da una sorta
di “pensiero magico” e di fare rituale che richiamano facili analogie con
le forme culturali di alcune società tradizionali; non da ultimo, va
considerato il fatto che si tratta di un’affezione (sino ad oggi)
prettamente occidentale –se si esclude la “variante” giapponese dello
shinkeishitsu, che pure verrà trattata nel terzo capitolo–, articolata
intorno ad un sentimento di autocolpevolezza di chiara impronta
cristiana. È proprio a partire da questo ultimo dato che si entra nel vivo
della mia analisi: trattare in modo completo ed esaustivo il fenomeno
del disturbo ossessivo compulsivo sarebbe stata una pretesa molto
superiore alle reali possibilità di questo scritto; ciò che invece ho cercato
di fare è stato evidenziare i punti di confine, talvolta di fusione, tra il
senso di colpa, quale strumento, culturalmente dato dalla tradizione
occidentale, funzionale alla coesione sociale ed al controllo delle genti,
e ciò che la Chiesa prima, la medicina e la biopsichiatria poi, hanno di
volta in volta definito come possessione demoniaca o patologia mentale,
e infine come DOC. Questo è infatti l’argomento del quarto capitolo, “Il
DOC e la religione”, in cui ho analizzato il senso di colpa proprio dei
culti cristiani ed ebraici, nonché le evidenti affinità tra una ritualità
squisitamente religiosa ed una che arriva all’ossessività.
Nel quinto capitolo ho quindi passato in rassegna le metodologie
attraverso le quali la psichiatria –o meglio, la biopsichiatria–
medicalizza il sentimento di colpa con l’intenzione (e l’interesse) di
eliminare il sintomo nevrotico e “riparare la macchina umana”
2
:
dapprima con la psicanalisi freudiana, nata in un’era di repressione
2
Come vedremo di seguito nel corso dell’analisi, medici, psichiatri e psicologi, nel definire l’essere
umano, spesso ricorrono a metafore desunte dal linguaggio delle macchine.
viii
sessuale e, pertanto, tutta volta ad enfatizzare l’influenza della famiglia
sulla malattia mentale; poi con le “terapie” chirurgiche e
farmacologiche, volte a combattere psicopatologie spacciate come
squisitamente biochimiche; infine con la terapia cognitivo-
comportamentale, apparsa intorno alla metà del XX secolo in pieno
boom tecnologico-industriale, assieme al quale ha completato il
processo di riduzione dell’uomo ad oggetto biochimico «senza
responsabilità sulla sua esistenza o possibilità di autodeterminazione»
(Giusti & Rosa 2002: 44). Infine ho voluto trattare di una quarta
metodologia, seppure non si possa parlare in quest’ultimo caso di
terapeutica, quanto piuttosto di un percorso di ricerca che si sta
prepotentemente aprendo la strada in ambito psichiatrico: è la
neuroetologia che, nel caso del DOC, considera il disturbo alla stregua
di un analogo disturbo di condotta animale, e che attualmente sta
indirizzando la ricerca psichiatrica verso lo studio di condotte legate a
diversi schemi neuronali, innati nel cervello, e dunque scevre da
qualsivoglia influenza socioculturale.
A questo punto è doverosa una precisazione. Nell’analisi critica dei
diversi strumenti terapeutici messi a punto dalle scienze che indagano la
psiche non ho parlato delle psicoterapie della Gestalt. La Gestalt
propone una visione molto originale della natura umana, sottolineando,
forse per prima tra le psicoterapie, l’importanza delle forze
socioculturali ed ambientali nel determinare le origini delle cosiddette
psicopatologie. Inoltre la Gestalt, aprendosi alle etnopsichiatrie, alle
filosofie orientali e ad altre nozioni del concetto di persona che vanno
oltre il riduzionistico etnocentrismo biomedico, si preoccupa di mettere
ix
in discussione l’idea di normalità, dichiarando esplicitamente che tutti i
comportamenti umani sono normali. Questa terapia della normalità,
dunque, si interessa non del recupero dalla malattia, non di annientare
un sintomo, bensì dello sviluppo ottimale della persona, in una
prospettiva olistica che valorizza la differenziazione e l’originalità
dell’individuo nella propria attualità. Di fatto, per i terapeuti della
Gestalt i “sintomi” non sono altro che una sorta di linguaggio che il
soggetto sceglie per parlare di sé e dei propri bisogni insoddisfatti, o
camuffati, a causa delle pressioni disgreganti che lo spingono verso
l’adattamento sociale (Giusti & Rosa 2002).
Pur non avendo direttamente chiamato in causa le metodologie della
Gestalt, sarà facile scorgerne le tracce all’interno del mio percorso
analitico, considerando anche che, a mio avviso, la stessa antropologia
medica è intrisa di nozioni, saperi e convinzioni che condivide con le
psicoterapie della Gestalt.
L’ultimo capitolo, infine, è interamente dedicato all’analisi del
DOC da un punto di vista squisitamente culturale, pertanto alla luce di
quei personaggi mitologici (Prometeo, Adamo, Gesù) intorno ai quali si
è costruita la nozione occidentale di Persona. Vedremo, dunque, come
l’individuo ossessivo sia impegnato nella realizzazione di un proprio,
nuovo ordine cosmico, articolato intorno a concezioni del tempo, del Sé,
dell’anima, della religione, del proprio corpo, che fanno parte di un
“modello comportamentale”, peraltro molto diffuso in Occidente,
originatosi sotto la spinta delle forze sociali normalizzanti. A questa
corrispondenza di tratti si deve peraltro la difficoltà della psichiatria (ma
x
non solo) nell’identificare i soggetti affetti da DOC
3
: l’ossessivo
“medio” si presenta come un soggetto apparentemente ordinato,
scrupoloso, composto, disponibile ed indipendente, riservato e taciturno,
efficiente sul lavoro e moralmente impeccabile; praticamente
l’immagine di tutto quanto esalti i valori ed i principi della nozione di
Persona nella direzione voluta dalle forze normalizzanti che operano
all’interno della cultura occidentale. E’ solo all’esagerazione, alla
caricatura di un tale modello che corrisponde l’etichetta psichiatrica di
disturbo ossessivo compulsivo: nell’amplificazione dei tratti distintivi
della Persona occidentale (individualismo, unicità psichica, senso di
colpa, anaffettività, etc.) si cela infatti la ribellione del soggetto
ossessivo all’ordine costituito. In questo modo la figura del nevrotico
denuncia la necessità di uscire da ciò che gli altri possono aver fatto di
noi, per determinare quello che noi vogliamo fare di noi stessi.
3
A tal proposito vedremo come spesso il DOC sia stato definito una patologia “nascosta”. La
biopsichiatria non ha mai tentato di spiegare le motivazioni di tale segretezza, se non adducendola a
presunte doti attoriali proprie degli ossessivi, capaci dunque di celare il loro disturbo persino alle persone
più vicine. In realtà, come vedremo, il più delle volte non si è trattato di celare alcunché. Semplicemente
l’immagine che il nevrotico ossessivo conferisce a se stesso rispecchia ed esalta i valori costitutivi della
persona occidentale, per cui resta difficile individuare una psicopatologia in un “modello di perfezione”.
1
1 Medicalizzare l’esistenza
Il numero delle condotte che la psichiatria ha gradualmente annesso
alle proprie definizioni di psicopatologia è, ad oggi, drammaticamente
cresciuto: dalla depressione si è giunti alla medicalizzazione dei cattivi
umori in genere; dall’ansia e dalla bassa autostima, sentimenti che la
maggior parte di noi prova o ha provato, si perviene a diagnosticare
quale disturbo mentale una non meglio precisata personalità antisociale
(Martínez Hernáez 2000: 258).
La prima edizione del Manuale Statistico e Diagnostico dei Disordini
Mentali (DSM) pubblicato dall'American Psychiatric Association risale
al 1952. Allora si contavano sessanta categorie diagnostiche tra le quali
la schizofrenia, la paranoia ed altre forme di comportamento aberranti.
Oggi si è giunti alla quarta edizione, il DSM-IV (1994), in cui sono
presenti più di trecentosettantaquattro classificazioni.
Questa proliferazione dei disturbi mentali rende sempre più labile il
confine tra malattia e salute, tra persone e pazienti. In tal modo si
perviene a formulare un concetto di normalità, di per sé già arbitrario,
tale che chiunque potrebbe riconoscersi affetto da tre o più patologie
incluse nel DSM-IV (Web: Rothman 1997).
Ciò che manca, in queste classificazioni nosologiche, è una concezione
della malattia quale fatto sociale, la cui natura e distribuzione varino
cioè in base alle epoche, alle culture, alle società e alle condizioni
sociali.
Si incomincia a parlare per la prima volta di malattia come fatto sociale
lungo il corso dei secoli XVIII e XIX. A segnalare questa nuova qualità
2
della malattia, e conseguentemente della medicina, fu la corrente
dell’igienismo, la quale inaugurò un nuovo modello di analisi: lo stato
di salute veniva valutato in relazione alla qualità della vita di una data
popolazione. Si esaminavano, dunque, la condizione economica, sociale
e politica, e la misura in cui queste componenti potessero rappresentare
delle determinanti nelle origini delle epidemie. Automaticamente
l’igienismo stesso si propose e divenne la medicina sociale del tempo.
Giunti alla fine del XIX secolo, Pasteur scoprì la teoria dell’«eziologia
specifica»
4
, una rivelazione che di lì a poco avrebbe rivoluzionato
l’intero sistema medico. Alla nuova consapevolezza della presenza di un
germe, origine di numerose affezioni, rispose tempestiva la messa in
opera di misure profilattiche di vario ordine: la sterilizzazione del latte
permise di tenere sotto controllo la diarrea infantile, i lavori pubblici
sugli impianti di distribuzione idrica si rivelarono efficaci per
combattere la febbre tifoide (Herzlich 1986: 177).
In un clima denso di successi i più disparati settori della società si
mobilitarono per contribuire alla battaglia contro le epidemie e i
cosiddetti «flagelli sociali» (tubercolosi, alcolismo, sifilide). Ben presto
queste lotte divennero però il sottile pretesto per un controllo sociale più
capillare, che sarebbe sfociato poi in un’opera di interventismo statale.
Ciò che le misure di prevenzione celavano, infatti, era il desiderio di
stigmatizzare dapprima ed isolare poi i portatori di germi: nello
specifico, la classe proletaria. Così che quando successivamente, nel
1902, in Francia, si pervenne alla formulazione della legge sulla salute
4
La teoria di Pasteur postulava che all’origine di ogni malattia vi fosse l’azione specifica di un dato
germe.
3
pubblica da decenni invocata dagli igienisti, si poteva ormai già parlare
di una consistente medicalizzazione della società (Herzlich 1986: 178).
Il decennio che va dagli anni venti ai trenta trovò la scienza medica
impegnata in una riorganizzazione dei propri interessi: l’attenzione si
spostò dalle questioni di ordine squisitamente biologico, le malattie
infettive, all’impatto che le malattie croniche avevano sul vissuto
personale, sociale ed economico del sofferente. Si delineava così un
nuovo modello di paziente, il paziente cronico, il cui problema, si
diceva, era radicato nel suo vissuto personale, nel disordine
comportamentale. Poco alla volta il paziente cronico divenne il
prototipo per tutti i pazienti, e il “disordine” di cui si faceva portatore la
radice di tutti i problemi. In questa nuova ottica l’intervento medico
divenne sinonimo di ordine, di ciò che era in grado di mettere ordine
nelle vite disordinate.
Sottoposto ad una sorta di confessione, un’intervista attraverso la quale
si evinceva la sua personalità, il paziente veniva giudicato in termini di
devianze dall’ordine (Young 1987: 107-110). Si giunse così a delineare
quella che Bastide definisce una psicoterapia che «rientra in una teoria
sociologica del controllo sociale, poiché ha la funzione di reintegrare
l’alienato nel sistema sociale» (Bastide 1981: 39).
Negli anni settanta si cominciò a parlare di “managerially optimalized
life” (Young 1987: 107): la teoria della nuova medicina riduceva la vita
ad una sequenza di stadi vitali normalizzati in quanto parti di un
programma di ottimizzazione preventiva. Non venivano ignorati gli
interessi e i bisogni dell’individuo, ma si comprendeva quanto questi
fossero in conflitto con gli interessi ed i bisogni della società. L’ordine
4
sociale presuppone un controllo, ed il controllo implica una certa
soppressione dell’individualità. Si cercò quindi di mediare tra questi due
poli: da un lato si insegnava all’individuo come affermare sé stesso,
dall’altro come “adattarsi” ai cambiamenti; si facilitava l’espressione
della sua individualità, ma al contempo si cercava di spingere verso un
possibile “aggiustamento” dell’individuo in relazione al suo ambiente.
Secondo Arney e Bergen (cit. in Young 1987: 117), il discorso medico
occidentale giunge per questa strada a permeare la coscienza ordinaria, a
normalizzare ogni comportamento, suffragato dalla presenza quotidiana
di medici su riviste, specializzate e non, o in programmi radio-televisivi
di intrattenimento.
Oggi più che mai in Occidente si fa di tutto affinché la malattia sia
una questione squisitamente interna all’istituzione medica: quelli che
erano infatti i suoi antichi legami con la religione, la famiglia o il
sistema di parentela (legami che tutt’ora persistono presso le società
cosiddette tradizionali) sono ormai allentati. Malgrado questo la malattia
comporta ancora interrogativi che oltrepassano l’ambito medico:
questioni relative all’origine, alle cause del male, domande che la nostra
coscienza non si accontenta di ridurre ad argomentazioni genetiche,
richieste di senso: «perché a me?», «perché ora?». In questo ostinato
evadere dal lessico specialistico la malattia parla della società, del
nostro rapporto con essa, del legame troppo spesso trascurato tra
l’individuo e l’ordine culturale, delle credenze, delle interpretazioni e
dei valori che con i nostri simili dividiamo. Lo stesso linguaggio con cui
diciamo, e attraverso il quale pensiamo, la malattia non è l’idioma
dell’organico, ma una forma di comunicazione che svela e riallaccia i
5
nostri più intimi legami con l’esterno socializzato (Good 1977; Herzlich
1986: 187-89). Il discorso medico invece è un discorso arenato sulla
malattia e non sull’uomo, «il malato è là solo come informatore di uno
stato manchevole del corpo», come denuncia Jean Clavreul (cit. in
Pierret 1986: 204).
L’oggetto “malattia”, che la biomedicina ha saldamento costruito, oggi
si impone come violazione di una norma, la salute, la cui codifica è
sempre appannaggio della scienza medica, che è arrivata a farne la
definizione stessa della vita. L’individuo, ormai già “paziente”, ha il
dovere di abbracciare questa norma, «come se la malattia, la sofferenza,
la follia, la morte, fossero evitabili e non facessero molto semplicemente
parte della vita» (Pierret 1986: 212). Questa medicalizzazione, come
spiega Scheper-Hughes, cattura l’immaginazione e distorce le coscienze
di una società che, magari fino a poco tempo prima, interpretava le
proprie esperienze ed il proprio corpo in modo differente. La
biomedicina si rifiuta di cogliere nel linguaggio degli organi, «la segreta
indignazione del malato» (Scheper-Hughes 1988: 430), così quella che
potrebbe essere alternativamente interpretata come una creativa
resistenza del corpo viene intesa come manifestazione di un disordine
passivamente subito, e, quindi, da medicalizzare. Ecco che allora
l’esperienza dolorosa della perdita di un caro diventa depressione, un
disturbo da trattare con un farmaco, surrogato di una relazione
umanamente significante. Si perviene così alla medicalizzazione dello
scontento e della sofferenza; non più dunque la «malattia come
metafora» (Sontag 1977), ma la metafora come malattia. Se infatti i
segni di alcune malattie sono fenomeni innegabilmente biologici, altri
6
sono metafore codificate in grado di parlare eloquentemente di aspetti
problematici della vita sociale, convertendo quei sentimenti e quelle
idee che normalmente non sono accettati in mali da trattare
5
.
Ciononostante al “rumore” degli organi la biomedicina vuole imporre il
silenzio, senza domandarsi se quel rumore non sia piuttosto un
linguaggio.
Eppure, se oggi si è giunti a medicalizzare sempre più i problemi di
ordine sociale, una coscienza nascosta del significato di queste voci la
medicina deve averla pure avuta. La medicalizzazione è infatti
innegabilmente un fenomeno di controllo sociale. Ne è un esempio
l’alcolismo, che da problema di ordine morale quale era è divenuto un
disordine (Kleinman 1988: 9). Lo stesso vale per il gioco d’azzardo e
per molte altre condotte del quotidiano che sempre più vengono lette
come “sindromi” con una loro precisa origine biogenetica.
Attualmente la psichiatria mostra tutto il potere cui è pervenuta
appropriandosi sempre più delle valutazioni che un tempo erano
appannaggio delle istituzioni legali. In alcuni casi attraverso questi
meccanismi si arriva a negare l’impronta sociale del problema in
questione: sino a qualche tempo fa in Unione Sovietica si faceva ricorso
alle diagnosi psichiatriche per etichettare i dissidenti come malati,
quindi isolarli e disciplinarli. Nell’URSS, i prigionieri politici venivano
ricoverati in ospedali psichiatrici e trattati con psicofarmaci per mettere
a tacere il loro pensiero, sino ad impedire persino che si prendessero
cura di se stessi. A questo fatto ormai noto, ne va aggiunto un altro,
5
Esemplare a tal proposito è la cosiddetta sindrome da “deficit di attenzione ed iperattività” (ADHD), che
verrà trattata in questo stesso capitolo, nel paragrafo PROLIFERAZIONE DELLE MALATTIE
PSICHIATRICHE.