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INTRODUZIONE
Una delle caratteristiche principali della storia dell’industria italiana è la presenza dei
distretti industriali, in cui l’elemento fondamentale è la contemporanea concorrenza e
cooperazione fra gli attori. Grazie al distretto, la ridotta diffusione della grande impresa
nell’industria italiana non ha rappresentato fino ad oggi un limite, in quanto la produzione è
stata assicurata dall’interazione e dalla cooperazione tra imprese di piccole dimensioni molto
spesso localizzate in aree territoriali circoscritte. Queste caratteristiche della nostra economia
hanno spinto ad analizzare i distretti industriali, modificando le tecniche dell’indagine
economica. Infatti, nella spiegazione del successo dei distretti industriali, si fa appello
esplicitamente a fattori extra-economici quali i caratteri sociali e storici del territorio. Inoltre,
l’unità di indagine non è più rappresentata dalla singola impresa e dall’organizzazione del
processo produttivo all’interno di essa, ma è dato dal sistema produttivo locale ovvero un
sistema di imprese agglomerate in un’area geograficamente circoscritta, ciascuna delle quali è
specializzata in una o poche fasi del processo produttivo, ma che sono legate tra loro da un
fittissimo reticolo di scambi di informazioni e relazioni. Questi rapporti tra le imprese sono
importanti per la creazione di conoscenza in quanto innescano un circolo virtuoso di
trasferimento-creazione-trasferimento di nuova conoscenza. Saper produrre conoscenza
diventa oggi un fattore imprescindibile per la competizione a livello globale, ma per produrre
conoscenza è necessario creare un rapporto sempre più fitto tra imprese, università e centri di
ricerca. La trasformazione provocata dalla globalizzazione ha portato ad una nuova idea di
distretto, un sistema di imprese che non è più chiuso nel proprio territorio, ma che cerca il
contatto con l’esterno attraverso collaborazioni con altri attori.
La maggioranza dei distretti italiani è specializzata in settori tradizionali del Made in
Italy, ma non mancano casi di settori high tech come il biomedicale. Il settore biomedicale
costituisce un rilevante punto di forza dei paesi industriali avanzati dato che rappresenta uno
dei maggiori mercati in espansione in cui l’interscambio in ambito tecnologico, commerciale
e finanziario gioca un ruolo decisivo. E, proprio per il fatto di essere un settore in rapida
crescita, dare una definizione univoca dei suoi confini non è una cosa facile, e probabilmente
nemmeno possibile. Nonostante non sia molto coretto fissare dei confini troppo rigidi, ai fini
di questa analisi si può comunque generalizzare affermando che si tratta di un settore
comprendente i prodotti e i servizi collegati alle imprese che si occupano di: apparecchiature,
diagnostica, terapia riabilitativa e di materiali di consumo necessari al servizio di cura
(odontoiatrici e ospedalieri). Il settore biomedicale rientra nel più ampio macro-settore life
science, che identifica quei settori industriali caratterizzati dall’applicazione delle conoscenze
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scientifiche relative al funzionamento degli esseri viventi. Il biomedicale riveste una
posizione cruciale nell’industria della salute. Per questo motivo, nonostante sia poco
conosciuto, è un settore ad alta produttività di ricerca e interessante per il nostro Paese.
L’Italia però non riveste un ruolo di primo piano in questo settore, anche se a partire dagli
anni 2000 ha rafforzato il proprio posizionamento.
L’industria biomedicale italiana si è particolarmente sviluppata negli ultimi 30 anni
nella zona di Mirandola e di altri otto comuni della bassa modenese. Si tratta di industrie
fondate da imprenditori locali, molte delle quali successivamente rilevate da multinazionali
italiane e straniere. Il distretto di Mirandola si occupa precisamente dell’emodialisi,
cardiochirurgia, anestesia e rianimazione e trasfusione; ma ci sono anche altri settori di
impiego meno sviluppati come aferesi, nutrizione e infusione, urologia, chirurgia. I principali
prodotti sono i dispositivi medici monouso in plastica (disposable) e le macchine
elettromedicali. Questa specializzazione nasce anche grazie ad uno dei pionieri industriali del
modenese, Mario Veronesi, sempre alla ricerca di nuovi segmenti di mercato all’interno dei
quali sviluppare prodotti innovativi.
Il distretto di Mirandola è molto diverso dai distretti tradizionali sia perché opera in un
settore high tech dove l’innovazione è uno dei fattori critici di successo, sia perché spesso
mancano quelle relazioni intradistrettuali tipiche delle definizioni teoriche di distretto. Il
seguente studio ha quindi l’obiettivo di far luce sulle collaborazioni nell’attività innovativa
nel distretto biomedicale mirandolese, analizzando alcune linee che si potrebbero seguire per
cercare di risolvere i principali problemi. In particolare, mi sono chiesta quanto la
collaborazione sia davvero fondamentale in questo distretto, data la relativa mancanza di
rapporti tra le imprese stesse e con le istituzioni, e se il terremoto abbia modificato queste
relazioni.
Questa tesi partirà col presentare una panoramica della letteratura sui distretti
industriali per comprenderne le diverse definizioni e illustrarne le caratteristiche e le
dinamiche evolutive. Questa analisi verrà fatta focalizzando l’attenzione sul ruolo delle
relazioni sociali e dell’innovazione.
Nel secondo capitolo verrà affrontata la complessa e non univoca definizione di settore
biomedicale, analizzando l’andamento internazionale e nazionale di questo settore e
confrontando alcune realtà italiane.
Il capitolo successivo approfondirà, invece, il caso del distretto mirandolese, divenuto
purtroppo noto in seguito agli aventi sismici di Maggio 2012. Verrà fatto un confronto tra le
sue caratteristiche reali e quelle teoriche presenti nelle definizioni della letteratura, mettendo
in luce i punti di forza e quelli di debolezza.
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Infine, nel quarto capitolo, saranno analizzate le collaborazioni nell’attività di R&S delle
imprese del distretto mirandolese, in quanto l’attività innovativa è fondamentale in un settore
high tech come il biomedicale. Verranno inoltre esaminati alcuni interventi per affrontare i
punti di debolezza del distretto in questo ambito, come il contratto di rete e i bandi a favore
dell’investimento in R&S. Nell’ultimo capitolo saranno anche riportati e commentati i dati e
le informazioni raccolti attraverso un questionario somministrato alle imprese operanti nel
distretto e alcune interviste ai principali attori socioeconomici del distretto. Si potrà quindi
stabilire se le collaborazioni nel distretto siano davvero fondamentali.
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CAPITOLO 1
IL DISTRETTO INDUSTRIALE E IL RUOLO DELL’INNOVAZIONE
1.1 Concetto di distretto industriale e di cluster
I distretti industriali sono una particolare forma di organizzazione della produzione,
molto sviluppata in Italia. Sono un fenomeno caratteristico della struttura produttiva italiana,
eppure il termine distretto non nasce in Italia. I distretti industriali rappresentano la variante
italiana del modello porteriano di cluster.
In generale, i tratti identitari del distretto sono: uno spazio economico non illimitato e
indefinibile; la specializzazione produttiva, fino al punto che un territorio diventa
identificabile con una determinata attività produttiva; il particolare clima sociale che si respira
nei distretti
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; la capacità di generare economie esterne alle imprese quali riduzione dei costi di
produzione e attivazione di dinamiche incrementali di tipo innovativo (Canettieri E.). Il
processo produttivo non risulta verticalmente integrato in imprese gerarchizzate, ma viene
realizzato sulla base della divisione del lavoro: le imprese locali si specializzano nelle fasi che
sanno fare meglio. Quindi nel distretto industriale abbiamo due tipologie di specializzazione
produttiva: quella a livello di prodotti finiti, che caratterizza l’area geografica; quella di fase,
interna alla filiera produttiva. Infatti, ciò che caratterizza un distretto sono le differenze
(specializzazioni) e le relazioni (basate sulle differenze) tra le imprese distrettuali (Camuffo e
Grandinetti, 2006). Questo fa assumere al distretto la forma organizzativa della rete produttiva
associata a un contesto locale. I processi produttivi che possono dare vita ad un distretto
devono quindi presentare determinate caratteristiche, come la scomponibilità in fasi e la
possibilità di trasportare nello spazio e nel tempo i prodotti di fase (Rinaldi, 2012). Le reti
distrettuali non comprendono solo imprese ma anche attori istituzionali quali le
amministrazioni comunali o provinciali, le associazioni imprenditoriali e le organizzazioni
sindacali, le banche e le scuole locali, le camere di commercio e i centri di servizi per le
imprese. “Il distretto industriale non va confuso con le aree industriali: territori in cui sono
concentrate imprese di differenti settori e specializzazioni, molto spesso senza aver sviluppato
tra loro alcun tipo di collaborazione e senza alcun legame con il territorio” (Ricciardi, 2010).
Dall’analisi dell’ampia letteratura economica e sociale che descrive i distretti
industriali, Belussi (2007) rileva che questi numerosi contributi, pur riferendosi a fenomeni di
natura diversa, hanno fatto ricorso alle stesse nozioni per descriverli, generando “un notevole
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La competizione non scompare, tuttavia si instaurano e si sviluppano generalmente rapporti collaborativi e
cooperativi. In ogni caso, il rapporto sinergico e collaborativo non impedisce alle singole imprese di mantenere
la propria identità e autonomia imprenditoriale.
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caos terminologico”
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. Le origini del dibattito sono legate al concetto di distretto industriale
elaborato da Alfred Marshall nei suoi scritti di fine ‘800 e primi del ‘900 volti a considerare i
distretti come realtà socio-economiche complesse. La definizione che l’economista inglese ha
dato è la seguente: “Quando si parla di distretto industriale si fa riferimento ad un’entità
socio-economica costituita da un insieme di imprese, facenti generalmente parte di uno stesso
settore produttivo, localizzato in un’area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma
anche concorrenza” (Marshall, in Battista et al. 2006, p.4). L’economista sostiene che i
vantaggi della produzione su larga scala possono essere raggiunti raggruppando in un’area
geografica circoscritta tanti piccoli produttori. Marshall, inoltre, scopre la presenza di
economie esterne come elemento per spiegare lo sviluppo di agglomerazioni di piccole e
medie imprese. Il suo lavoro si concentra soprattutto sui benefici derivanti dalle economie
esterne che possono essere ottenuti da imprese situate nello stesso territorio e che lavorano
congiuntamente. Le economie esterne marshalliane consistono nella concentrazione di tante
piccole imprese specializzate in differenti fasi dello stesso processo produttivo; nella graduale
formazione di un mercato del lavoro altamente qualificato e specializzato e nella nascita di
industrie sussidiarie e di fornitori specializzati. Dalla definizione di Marshall possiamo trarre
alcune osservazioni. Innanzitutto è possibile parlare di distretto industriale solo se nella stessa
area si trova un’elevata varietà di imprese operanti nello stesso settore. In secondo luogo il
distretto si caratterizza per un’elevata densità di imprese a livello territoriale e per la presenza
di numerose piccole e medie imprese. Le imprese cooperano all’interno della catena
produttiva locale, dove avviene un’estesa divisione del lavoro che permette la creazione di
economie esterne positive. Tuttavia, allo stesso tempo, esse competono tra loro, poiché
operano all’interno degli stessi mercati. Inoltre, secondo Marshall (si veda Belussi 2007, p.7)
il distretto deve la sua nascita e sopravvivenza alla cosiddetta “atmosfera industriale”. Questo
concetto identifica un clima di cooperazione e competizione che permette alle imprese del
distretto di assorbire rapidamente le competenze e la conoscenza esistente nelle imprese locali
e di beneficiare quindi della prossimità geografica.
Belussi, utilizzando l’approccio marshalliano ricava alcune utili linee interpretative che
consentono di comprendere meglio il fenomeno dell’agglomerazione territoriale. Afferma,
infatti, che il distretto industriale non è un modello universale che comprende qualunque
fenomeno di clusterizzazione, ma lo vede come uno specifico modello organizzativo che
risulta ugualmente efficiente a quello della grande impresa gerarchizzata e integrata
verticalmente. Sottolinea poi che un distretto non può essere formato da una singola rete di
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Belussi (2007), infatti, utilizza l’espressione D&C (distretti e cluster) per considerare sia il distretto industriale
sia il cluster, a causa dell’ambiguità semantica che si rileva nella letteratura.
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imprese. Infine non nega mai la possibilità di una simultanea presenza di rendimenti crescenti
per le singole imprese. Nel distretto, quindi, le strategie delle singole imprese continuano a
svolgere un ruolo importante nel determinare l’efficienza complessiva di quel sistema
territoriale.
Porter, invece, vede nei cluster una concentrazione geografica di imprese
interconnesse, le quali cooperano e competono al tempo stesso, riscontrando un inusuale
successo competitivo. Inoltre, egli afferma che il cluster è un fenomeno virtualmente
riscontrabile in ogni nazione, regione e stato, soprattutto nei paesi più sviluppati. Il cluster
porteriano non è quindi identificabile solamente con una piccola porzione di territorio come il
distretto industriale. “La definizione risulta, pertanto, ampia e capace di comprendere
molteplici fenomeni economici potendo essere utilizzata per descrivere settori, sistemi locali,
regioni o nazioni” (Belussi, 2007). Porter necessita, infatti, di un concetto flessibile ma questa
flessibilità rende il concetto di cluster confuso e ambiguo. “Tracciare i confini di un cluster
risulta dunque un compito arduo poiché i cluster, per loro natura, sfuggono alla
convenzionale classificazione delle attività economiche e, quindi, ciò richiede la
comprensione dei collegamenti e delle complementarietà esistenti tra settori ed istituzioni”
(Belussi, 2007). La soluzione che viene suggerita per individuare un cluster è partire da una
grande impresa o da una concentrazione di imprese simili e successivamente cercare i legami
orizzontali e verticali, a monte e a valle, con imprese ed istituzioni. Per questo motivo,
secondo Belussi, l’uso del termine cluster in senso porteriano risulta essere un concetto “a-
spaziale”. Labory (2011a) infatti fa notare che “in alcuni casi il cluster è definito
principalmente dall’elemento geografico, altre volte dal sistema di produzione, altre volte
ancora dai legami di natura sociale e valoriale fra gli attori. Infatti, l’interdipendenza tra
imprese non è necessariamente legata alla prossimità; a volte è richiesta anche una certa
dose di prossimità cognitiva, organizzativa, sociale ed istituzionale”. La prossimità cognitiva
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è quindi un concetto coerente con l’a-spazialità della definizione di Porter. Labory prosegue
affermando che “l’interesse economico è il collante principale del cluster”, prima ancora
della fiducia e della cooperazione. “Le imprese infatti si agglomerano finché ci sono dei
benefici netti. Un fattore importante dell’agglomerazione sono le economie esterne
dinamiche, legate all’apprendimento, l’innovazione e la specializzazione. Il buon
funzionamento del cluster dipende quindi anche dalla capacità delle imprese membri a
comunicare e a trasferire conoscenze. Il concetto di esternalità è il cuore dell’analisi dei
cluster”. Baptista e Swann (si veda Labory 2011a, p.6), confrontando le imprese localizzate
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Per prossimità cognitiva si intende il divario tecnologico, le potenziali di incontro tra basi di conoscenza dei
vari attori.