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2. ELEMENTI DI NEOAGRICOLTURA E SVILUPPO RURALE
2.1 Ritornare alla terra per rigenerare il territorio
Riferendoci al territorio come al prodotto della millenaria opera di
territorializzazione non si può fare a meno di riconoscere il ruolo fondamentale
rivestito dall’agricoltura in questo processo. L’attività agricola, infatti, ha
“governato nei secoli gli atti di antropizzazione, di civilizzazione e gli stessi atti
insediativi e di urbanizzazione nei rapporti tra città e campagna: di ciò che ha presieduto
quindi alla costruzione lenta della complessità territoriale e dei caratteri distintivi del
territorio come “luogo”, che era “colere”, radice semantica sia di coltivazione che di
cultura.” (Ferraresi e Coviello, 2007)
Il territorio, dunque, è stato plasmato dal ritmo lento e necessario dell’attività
primaria che, oltre a produrre cibo, è stata in grado di governare i cicli ambientali,
trasformare i paesaggi e, in un certo senso, addomesticare la natura anche negli
ambienti più ostili. Tale ruolo storico, tuttavia, è stato misconosciuto a fronte del
processo di deterritorializzazione, trattato nel primo capitolo, in virtù del quale
l’agricoltura ha progressivamente perso il legame con i luoghi di produzione e di
consumo tanto da determinare la creazione di non-luoghi (Hard e Negri, 2000).
Al processo di deterritorializzazione è strettamente correlato quello di
industrializzazione, che ha trasformato l’agricoltura tradizionale contadina in
un’agricoltura industriale. La prima coincide con le aziende agricole a conduzione
famigliare in cui l’agricoltura rappresenta la fonte primaria di sussistenza e la
produzione è destinata principalmente all’autoconsumo o alla vendita in mercati locali
o di filiera corta (Shanin, 1987). Si tratta di un’agricoltura che trova il suo fondamento
nel rispetto dei principi ecologici di funzionamento degli ecosistemi conservando la
sostanza organica nel suolo attraverso, ad esempio, la rotazione delle colture e
l’utilizzo di concimi naturali, favorendo la biodiversità e utilizzando quasi
esclusivamente l’energia solare (Bagliani e Dansero, 2011). L’agricoltura industriale,
invece, trova espressione nelle imprese capitalistiche e/o di larga scala altamente
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meccanizzate e in cui si predilige la monocoltura e l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi
di sintesi. La dimensione contadina, ritenuta tecnologicamente anacronistica, è stata
quasi totalmente sostituita da quella industriale basata sulla produzione di uno o pochi
beni a scapito delle tipicità locali, del paesaggio e dell’ecosistema (Sotte, 2006).
L’industrializzazione agroalimentare, basata sulla ricerca di un elevato livello di
redditività e sulla tendenza a un controllo centralizzato, ha ridisegnato così ogni fase -
produzione, trasformazione, trasporto, consumo - su dimensione globale determinando
una forte pressione sui sistemi locali. Tale processo ha permesso il raggiungimento di
alti livelli di produttività a discapito, tuttavia, di una sostenibilità sul lungo termine sia
dal punto di vista ambientale (riduzione della fertilità dei suoli e della biodiversità,
inquinamento del terreno e delle falde acquifere, emissione di gas serra,
deforestazione, eccessivo sfruttamento delle risorse) sia da quello sociale
(impoverimento ed esclusione dei piccoli agricoltori dal mercato, minore
autosufficienza alimentare delle popolazioni locali) (Shiva, 2009). Il mondo agricolo,
che per secoli ha rivestito il ruolo di generatore di beni primari e di territorio, di cibo
e paesaggio, è stato ridotto alla sua funzione puramente produttrice di beni omologati
e a basso contenuto territoriale (Ferraresi e Coviello, 2007).
Come reazione al processo di industrializzazione e, parallelamente, alla crisi dei
modelli di vita metropolitani si stanno diffondendo sia in Europa sia nei Paesi in via
di sviluppo forme di resistenza contadina (Carrosio, 2009) e dinamiche di
ricontadinizzazione (Magnaghi, 2010). Da un lato molti piccoli agricoltori stanno
cercando di adattarsi ai cambiamenti adottando nuovi approcci alla coltivazione e
modelli cooperativi, dall’altro vi è un ritorno alla terra caratterizzato da processi di
retro-innovazione. Si assiste, dunque, alla conversione di imprese convenzionali in
ecologiche, a fenomeni di neoimprenditorialità agricola consapevole e neoradicamento
rurale, allo sviluppo di filiere corte e di mercati locali, alla diffusione di orti urbani e
periurbani, alla formazione di reti ed economie alternative. Tutto ciò è rafforzato dal
ritorno in agricoltura da parte delle nuove generazioni, che contribuiscono
all’affermazione di modelli produttivi emergenti e innovativi (Cersosimo, 2012). Il
recupero delle varie forme di agricoltura tradizionale ha come obiettivo principale
l’incremento di autonomia e di spazio di decisione e apprendimento dei piccoli
agricoltori attraverso la creazione di circuiti brevi e decentralizzati, la diversificazione
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delle attività in virtù della multifunzionalità agricola, di cui si parlerà nel prossimo
paragrafo, e la ricaduta positiva sull’ambiente e sulla comunità locale.
2.2 Verso una nuova agricoltura tra specificità e diversificazione
L’agricoltura industriale, come è stato detto, ha determinato la standardizzazione e
l’abbassamento della qualità dei prodotti. In questo paradigma sono state ignorate le
specificità dei singoli territori, a volte addirittura considerate come un ostacolo alla
modernizzazione. Il processo di transizione verso una nuova agricoltura parte proprio
dal ribaltamento di questo paradigma, ovvero attraverso il recupero delle specificità e
la tendenza alla diversificazione. I beni specifici di un territorio, non solo quelli
agroalimentari, incorporano una serie di pratiche spazialmente circoscritte e spesso
frutto di secoli di esperienza. Le diverse varietà vegetali e razze animali, compresi tutti
i prodotti che ne derivano, sono il risultato di una lunga attività sperimentale di
adattamento e di radicamento in uno specifico territorio e rappresentano un bene unico
e non replicabile in altri contesti, ovvero un vantaggio comparato naturale (Dematteis,
2002). Alcune recenti ricerche sui sistemi agroalimentari (Asso e Trigilia, 2010;
Casavola et al., 2011) hanno dimostrato che
“i territori di maggiore successo economico devono, nella maggior parte dei casi, la loro
migliore posizione soprattutto a “vantaggi competitivi naturali” e a “un più lungo
connesso saper fare”, che hanno incontrato in epoca più recente una domanda esterna
favorevole alle loro vocazioni tipiche. Si tratta di circostanze non riproducibili
facilmente altrove e non altrove sostituite da processi, ugualmente robusti, di ideazione
autonoma di prodotti e servizi moderni.” (Casavola et al., 2011, p. 66)
In quest’ottica le aziende contadine detengono un vantaggio in quanto operano in
stretto legame col territorio, tramandano pratiche di generazione in generazione e
coltivano varietà antiche e tipiche. Le specificità in termini di qualità organolettiche,
metodi di produzione e biodiversità possono generare lo stesso valore dell’innovazione
e rappresentare occasioni e risorse di sviluppo a patto però che vengano riconosciute
e ben governate (Meloni e Farinella, 2013).
Parallelamente al recupero delle specificità territoriali è necessario un processo di
diversificazione legato alla multifunzionalità agricola. L’agricoltura è un settore
tipicamente multifunzionale, in quanto, oltre ad assolvere la propria funzione primaria,
è in grado di produrre una serie di beni e servizi a beneficio dell’intera collettività. Il
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riconoscimento di tale multifunzionalità esprime il cambio di prospettiva dalla
concezione puramente produttiva ad una più estesa, che comprende anche le funzioni
ambientali, sociali e culturali. Oltre a produrre cibo e fibre, infatti, l’agricoltura
gestisce il territorio e le risorse naturali, contribuisce alla conservazione e/o
trasformazione del paesaggio, preserva la biodiversità e la vitalità socio-economica
delle aree rurali (OECD, 2001).
Il livello di multifunzionalità è strettamente legato al contesto territoriale e
temporale in quanto i bisogni e le domande della società si differenziano nello spazio
e nel tempo. Secondo il sociologo olandese Van der Ploeg (2002) attualmente le
aziende agricole che decidono di incrementare il proprio valore tendono a sfruttare
positivamente la multifunzionalità intrinseca dell’attività agricola diversificandosi
lungo tre direttrici (Figura 1):
Figura 1. Le tre strategie di diversificazione
Fonte: Van der Ploeg (2002)
▪ Approfondimento, attiene a tutte le attività produttive o di servizio orientate
alla sostituzione dei fattori convenzionali, alla riorganizzazione della filiera
e alla valorizzazione della produzione agricola. Sono comprese le
innovazioni di prodotto, ovvero le produzioni tipiche e di alta qualità, la
coltivazione biologica e le varie forme di certificazione e rintracciabilità, e
le innovazioni di processo come la trasformazione in azienda, la
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costituzione di filiere corte (vendita diretta, gruppi d’acquisto, mercati
contadini), le nuove forme di commercializzazione (vendita tramite internet,
adozione di animali presso l’allevatore). Sono forme di approfondimento
anche quelle relative alla sostituzione di fattori di produzione con input
interni come nel caso dell’autoproduzione di energia solare o del riutilizzo
delle deiezioni animali per la fertilizzazione.
▪ Allargamento, si riferisce alle attività che si affiancano a quella agricola per
rispondere a nuove domande (turistiche, residenziali, culturali) e fornire
servizi di interesse collettivo. Sono comprese tutte le iniziative volte alla
gestione della biodiversità e del territorio, produzione di energie alternative
(eolica, solare, biomassa), agriturismo, fattorie didattiche, servizi di cura e
di assistenza.
▪ Riposizionamento, riguarda le attività non agricole con lo scopo di
ricollocare i fattori di produzione, come il lavoro e i mezzi, e fornire un
reddito integrativo attraverso attività di carattere artigianale, artistico,
culturale, turistico.
In un mercato complesso, competitivo e globalizzato, caratterizzato da un’alta
volatilità dei prezzi, l’obiettivo prioritario per le aziende agricole, in particolar modo
quelle di piccole dimensioni, è la creazione di valore aggiunto. La multifunzionalità si
esprime, quindi, nella ricerca di elevati standard qualitativi ed ecologici, nello sviluppo
di modalità inedite di commercializzazione e nello sviluppo di attività complementari
alla dimensione produttiva. In questo scenario si assiste, dunque, ad un cambio di
prospettiva sul ruolo dell’agricoltura, non più avulsa dal territorio e impegnata
solamente nella produzione di beni alimentari o tessili, bensì nuovamente radicata nel
contesto territoriale e impegnata in diverse funzioni, anche non commerciali, a
beneficio della comunità. La combinazione delle tre strategie di diversificazione
determina il livello di multifunzionalità delle singole aziende agricole. Quelle
riconducibili al modello neoagricolo, ovvero quello contadino caratterizzato da forme
di retro-innovazione, hanno generalmente un alto livello di multifunzionalità dato
dallo stretto legame con il territorio, dalla profonda conoscenza delle opportunità locali
e dalla predisposizione nell’avviare processi di cooperazione con gli altri attori grazie
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alla presenza di legami fiduciari. Inoltre, sono consapevoli di svolgere un ruolo
importante relativamente alla tutela ambientale, adottando metodi aziendali eco-
compatibili e concependo la produzione in termini qualitativi e non puramente
quantitativi, e alla conservazione della biodiversità dedicandosi alla coltivazione di
varietà antiche o all’offerta di prodotti tipici (Wilson, 2008).
Tali strategie di diversificazione si pongono anche come risposta ai mutamenti nella
sfera del consumo. Si delineano, infatti, nuovi consumatori consapevoli, che non si
limitano all’acquisto del prodotto alimentare, ma anzi problematizzano il cibo, il modo
in cui è prodotto, commercializzato e consumato (Brunori et al., 2008). I nuovi modelli
di consumo sono orientati verso i prodotti ritenuti sicuri, nutrienti, eco-compatibili, di
qualità, legati alla tipicità locale e commercializzati tramite filiere corte (Padua e
Calzati, 2018). Le scelte alimentari, quindi, non sono più condizionate solo dalla
capacità di spesa, ma anche dalle caratteristiche dei prodotti. Il cibo diventa così un
atto politico, uno strumento attraverso il quale il consumatore può sostenere un
modello agroalimentare alternativo a quello industriale. I processi derivanti
dall’incontro tra le forme di neoagricoltura, basate sulla specificità e diversificazione,
e i nuovi stili di vita ridefiniscono il rapporto produzione-territorio-consumo (Meloni
e Farinella, 2013) e determinano dinamiche di valorizzazione del patrimonio
relazionale e patrimoniale, ovvero la riattivazione di un valore aggiunto territoriale di
qualità (Ferraresi, 2011).
2.3 Lo sviluppo agricolo e delle aree rurali
2.3.1 L’agricoltura per uno sviluppo rurale di qualità
Affrontare la questione delle conseguenze territoriali del processo di
riconfigurazione delle pratiche agricole significa considerare con maggiore attenzione
le aree rurali, soprattutto relativamente alla loro valenza paesaggistica e ambientale, di
produzione di beni primari di qualità e di presidio contro il consumo di suolo. Prima
di procedere con la trattazione, tuttavia, è necessario soffermarsi sul significato del
termine rurale, che fino ad oggi è stato impiegato per indicare i territori sulla base di
caratteri e fenomeni molto diversi tra loro. Secondo la Carta Rurale Europea
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“uno spazio può essere definito rurale se possiede determinate caratteristiche:
preponderanza delle colture agricole nell’uso del territorio; prevalenza di spazi verdi
liberi a vocazione ecologica; bassa densità demografica; ripartizione diffusa della
proprietà; presenza di comunità e centri abitati di piccola entità che favoriscono la
personalizzazione dei rapporti umani e la partecipazione dei cittadini agli affari comuni;
economia caratterizzata dall’agricoltura e dalle professioni manuali e pratiche che
implicano una polivalenza che favorisce l’autonomia e l’aiuto reciproco tra gli attori
locali; presenza di un paesaggio naturale, trasformato dal lavoro umano che costituisce
patrimonio dell’umanità; cultura basata sul saper vivere derivante da tradizioni e
costumi locali.”
Secondo, invece, la metodologia utilizzata dall’Organizzazione per la
Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) l’individuazione delle aree rurali si
basa sul parametro della densità di popolazione che deve essere inferiore ai 150
abitanti per chilometro quadrato. Tale approccio, tuttavia, non è idoneo per fornire una
zonizzazione sufficientemente fedele alla realtà in tutti i contesti. Nel caso italiano, ad
esempio, per evitare eccessive distorsioni a fronte di un territorio fortemente
disomogeneo, viene applicata un’ulteriore metodologia nell’ambito del Piano
Strategico Nazionale.
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Si possono individuare anche diverse accezioni di rurale
(Merlo, 1991):
▪ rurale settoriale, per indicare un territorio in cui il settore agricolo è centrale
in riferimento sia al sistema economico-produttivo sia a quello socio-
culturale;
▪ rurale demografico, relativamente a un territorio non urbanizzato e
scarsamente popolato e in cui il parametro di definizione è quello della
densità abitativa;
▪ rurale arretrato, per denotare un territorio marginale e/o in ritardo dal punto
di vista dello sviluppo socio-economico.
L’esistenza di vari parametri per la definizione dello spazio rurale e la conseguente
ambiguità del termine è frutto dell’evoluzione stessa delle aree rurali nel corso del
tempo. Fino agli anni Settanta, infatti, la forte predominanza del settore agricolo nelle
aree rurali rendeva immediato il binomio rurale-agricoltura in opposizione a quello
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La metodologia di zonizzazione del Psn ha individuato quattro macrotipologie di aree: a) Poli
urbani; b) Aree rurali ad agricoltura intensiva; c) Aree rurali intermedie; d) Aree rurali con problemi
complessivi di sviluppo.
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urbano-industria. Il rurale era spesso associato ai fenomeni di spopolamento e
senilizzazione della popolazione, marginalità e arretratezza, mancanza di servizi e di
infrastrutture. Più recentemente, tuttavia, i caratteri delle aree rurali hanno subito
un’ulteriore trasformazione anche grazie alla crescente diversificazione delle attività
socio-economiche (Saraceno, 1993). Il riconoscimento delle conseguenze negative del
modello di sviluppo industriale urbanizzato, tra cui il degrado territoriale,
l’abbassamento della qualità della vita e la congestione urbana, ha determinato una
rivalutazione del rurale da spazio marginale e periferico ad attrattivo per i flussi di
ripopolamento e per le nuove domande di natura turistica, residenziale, culturale e
ricreativa. In questo quadro le dinamiche di sviluppo rurale possono attivarsi lavorando
“sul binomio qualità-territorio e sulle specificità legate al milieu di un luogo, sulla
creazione di opportunità che abbiano una sostenibilità nel tempo e contribuiscano a
tenere un tessuto vitale di attività economiche. Ciò può essere possibile naturalmente
partendo dalle risorse e dalle attività esistenti, che in alcuni casi non sono affatto
irrilevanti, ma sono sottoutilizzate o addirittura nascoste. In questo senso, la bassa
densità abitativa e la ruralità diffusa, l’assenza di industrie altamente inquinanti sono
tutti aspetti che, uniti alla presenza di saperi locali e alle caratteristiche uniche delle
produzioni artigianali locali, sfociano in vantaggi comparati rispetto alle altre aree, che
possono essere alla base dello sviluppo territoriale.” (Meloni e Farinella, 2013, pp. 39-
40)
Nonostante il settore agricolo non abbia più la stessa rilevanza di un tempo e
“rurale” e “agricoltura” non siano più sinonimi, un tassello fondamentale per lo
sviluppo rurale può essere rappresentato dal carattere multifunzionale dell’agricoltura,
che è in grado di fornire ulteriori opportunità di occupazione e rispondere alle nuove
domande della società. In quest’ottica le nuove pratiche agricole, alternative
all’agricoltura industriale e orientate verso la produzione di cibo di qualità in maniera
sostenibile, contribuiscono all’affermazione di un nuovo paradigma di sviluppo rurale
(Van der Ploeg, 2009). Da un’agricoltura di qualità può emergere, infatti, uno sviluppo
rurale di qualità, ovvero un modello basato su (Pacciani, 2003):
▪ la presenza di un progetto comune e condiviso dagli attori locali orientato a un
miglioramento della qualità della vita attraverso la produzione di beni e servizi
di qualità;
▪ la centralità dell’agricoltura soprattutto in merito alla fornitura di prodotti e
servizi ambientali e culturali;